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Eraldo Garello ritorna al saggio filosofico e ci propone un'opera veramente interessante che affronta i rapporti tra mito, filosofia e poesia. Questo discorso era stato già intrapreso dall'autore in una precedente opera saggistica del 1987: Mitofanie, dove il rapporto è tra mitologia greca, filosofia del linguaggio, poesia filosofica.

Nell'Arco di Apollo, Garello attraversa il pensiero speculativo di Nietzsche ma si sofferma, in particolare, sulla polemica con Socrate che, col suo razionalismo, aveva avversato la tragedia, specchio di un pensiero poco logico e critico, irrazionale, mensognero e portavoce di un agire per istinto (Die Geburt der Tragodie), e sulla controversia con l'Illuminismo fautore di una falsa cultura della città contro la vita della Natura (Also sprach Zarathustra). Ci introduce poi nel pensiero filosofico di Heidegger proteso alla ricerca di un luogo dell'anima, una "Radura", una "Heimat" dove l'uomo moderno, che soffre di "spaesamento", possa trovare se stesso e avviarsi alla verità dell'Essere dopo aver seguito la via del linguaggio, il mythos, il logos.

Ma Garello, nell'esporre il suo pensiero, apre finestre su quasi tutti i filosofi che hanno fatto la storia della filosofia occidentale da Parmenide, Anassimandro, Eraclito, Democrito, Socrate, Platone, Aristotele a Kant, Hegel, Shelling, Adorno, Husserl, Jaspers, Tarner, per citarne alcuni. Man mano che si entra nella lettera del discorso garelliano si fa sempre più incalzante l'idea di un Nuovo Umanesimo che sia in grado di portare l'umanità fuori dalla palude realistica, dalla bolgia del mercato, in cui s'è cacciata dopo l'avvento e il trionfo dell'Illuminismo il quale, chiuso nei limiti della scienza, ha sbarrato le porte al mito, detentore della verità dell'Essere, perchè punto d'incontro tra finito e infinito, e ci ha esiliati nelle stanze di un razionalismo dall'ala pesante che non riesce a volare oltre i campanili del relativo. Le scoperte si susseguono, l'economia si globalizza per coinvolgere tutti gli uomini del pianeta, il benessere e il piacere sono il credo che guida la nostra giornata, al di là c'è il Nulla. Si vive il "carpe diem" dei sensi mentre lo spirito sonnecchia nella stazione dove sferragliano i treni dell'attualità.

Ci muoviamo nel ventre della città, espressione di un razionalismo piegato su se stesso, dove la parola non assurge a linguaggio; siamo il Leopold-Bloom joyciano che vaga per le strade e nei bar di Dublino, uomo medio, sensuale, positivo,curioso,scentificamente concreto e dagli incerti, se non impossibili, rapporti umani; siamo i compagni di Ulisse nell'isola della maga Circe. Abbiamo dimenticato la via del ritorno, perso Itaca, viviamo la nostra animalità senza quell'energia interiore che lega l'ora transitoria dell'hic et nunc al tempo immobile delle Origini; siamo Aldrin, l'astronauta che, sceso sulla luna, si vede circondato da una "magnifica desolazione", incapace di guardare l'infinito specchio dell'Universo che, in ogni particella, riflette il volto dell'Essere; siamo i viaggiatori della notte celiniana in una Parigi assonnata e avvolta dalle tenebre, tutti sull'orlo di un incubo, comunque di una sconfitta, siamo, come scrive Céline, "l'uomo nudo, spogliato di tutto, perfino della fede in se stesso".

Raggiunto il fondo della spelonca dobbiamo cercare una via d'uscita, reinventarci Odisseo appropriandoci, magari, dell'insegnamento dantesco: seguire, cioè, "virtute e canoscenza", la virtù dello spirito e la conoscenza dell'intelletto. Un Odisseo, quindi, che sia punto di incontro tra l'uomo immerso totalmente nel Mito e nella Natura e fuori dalla realtà contingente e l'uomo razionale che si è liberato dai lacci "di un mondo che lo soffoca, negandolo come entità autonoma", ma limitato dalla logica del possibile, incapace di creare il divino e di liberarsi dalle pastoie di un pensiero che vede l'intellettuale impegnato a risolvere i problemi del quotidiano precludendosi la possibilità di proiettarsi nel luogo dello spirito, prima tappa verso la trascendenza, verso l'Assoluto. Il nuovo umanesimo, che l'autore persegue, deve toglierci dalla rete di un razionalismo fine a se stesso e ci deve portare in una "contrata" dove possano convivere la città (espressione di collettività, rapporti commerciali, sociali ecc., perdita della solitudine e quindi del sè a favore della massa corpulenta e acefala) con la Natura (luogo dove l'uomo ha la sua individualità, il senso delle origini, la spinta verso l'assoluta quiete dell'Essere), punto d'incontro tra l'apollineo e il dionisiaco, dove s'appianano i contrasti tra la luce e l'ombra, tra lo spirito e la materia, tra Essere e Non-Essere, dove regna l'Armonia, l'assoluta Bellezza. In questa "radura-Heimat", ci dice Garello, "l'eroe, ora, può finalmente ripossedere il mito temporalizzato, il mito, cioè, che ha fatto i conti con la «razio»: il mito razionale, non più mostro bifronte, ma unità di vecchio e di nuovo, punto di confluenza delle potenze ctonie ed eteree con il «logos»". I «profeti» di questa radura sono i poeti "i soli ad essere i depositari di quella «riflessione rigorosa»,di quel «parlare accurato», di quel «risparmio di parole»che formano il vero pensiero che pensa, dice e nomina l'Essere". Il canto poetico, conclude Garello, "ha la funzione di «annunciare con autorità» il messaggio che proviene dall'Essere stesso.

In un'epoca di lontananza, di assenza degli dei (...) il canto poetico si configura come profezia utopica che reclama il congiungimento con la Tranzendenz: un grido di invocazione, di chiamata a sé del Sé, dalla profondità dell'Abisso".

Caselette gennaio 2002

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