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Il leggendario miele ibleo

Estratto da “Ricerche”
Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, gen-giu. 2009

Sommario:

• Introduzione storica
• Letteratura greca
• Letteratura latina
• Letteratura italiana
• Letteratura anglosassone
• Conclusione
• Bibliografia

 
 

Introduzione storica

Da 2500 anni (cioè da Eschilo al Novecento) nella letteratura si parla d’Ibla, delle città siciliane così chiamate, della loro ubicazione, di fatti militari e amministrativi attinenti ad esse. Fertilità e bellezza del paesaggio, fiori, miele, api e cera, buoi, greggi, pastori, poesia e confronti con Atene e l’Attica sono motivi ricorrenti, fino a costituire un topos, un luogo comune. Gli scrittori parlano d’Ibla magari senza mai esservi stati e s’ispirano a questo luogo per similitudini o fantasie e nostalgie bucoliche. Ma c’è anche chi ne parla a fini storici, geografici, naturalistici.

Ibla, oltre che in Sicilia, dov’era celebre per il suo miele, si trovava anche in Asia minore. Il nome personale Iblesio tipico di Samo ha fatto supporre che fosse in quest’isola egea quell’Ibla di cui parla Ateneo: in questo caso almeno un’Ibla sicula deriverebbe da essa e l’origine del nome sarebbe caria, considerati anche i fitti rapporti fra la Sicilia e l’Asia Minore e i molti toponimi carii in Sicilia. Altri invece hanno messo in relazione Ibla con l’antica Ebla siriana; mentre toponimo affine è il biblico Ibleam (in latino Ieblaam), città dell’antica Palestina (Canaan) nominata nei libri di Giosuè XVII 11 e XXI 25, Giudici 21 27, II Re IX 27 e XV 10, I Cronache VI 55 (in qualche traduzione di Cronache questo toponimo è scritto Ibleàm o Bileam).

Le occorrenze del termine “Ibla” e derivati riscontrate durante questo lavoro sono: 46 nella letteratura greca (in Eschilo, Erodoto, Tucidide, Filisto, Eforo, Diodoro Siculo, Strabone, Dioscòride, Plutarco, Pausania, Ateneo, Erodiano, Esichio, Stefano Bizantino, anonimo dell’Appendice all’Antologia Greca), 52 in quella latina (in Cicerone, Virgilio, Livio, Ovidio, Plinio il Vecchio, Columella, Calpurnio Siculo, Seneca, Lucano, Petronio, Silio Italico, Stazio, Marziale, Pomponio Mela, Sereno Sammonico, Servio Onorato, Claudiano, Simmaco, l’anonimo dei Tetrastici inclusi nell’Antologia Latina, l’anonimo del Pervigilium Veneris incluso nella stessa Antologia e un anonimo dei Carmina Burana), 38 in quella italiana (in Decembrio, Ficino, Ariosto, Bandello, Firenzuola, Tasso, Guarini, Marino, Brignole Sale, Carlo de’ Dottori, prevosto Celestino, Vico, Metastasio, Parini, Monti, Foscolo, Tommaseo, D’Annunzio, De Roberto, Govoni, Quasimodo), 9 in quella anglosassone (in Shakespeare, Collins, Darby Robinson, Fenno Hoffman, MacDonald, Ingersoll, Sharp, Benet, Barclay), per un totale quindi di 145 occorrenze. Il vocabolo Ibla è stato adoperato perfino come nome di donna, ad indicare leggiadria, gentilezza, dolcezza, mentre nel basso medioevo è esistito il nome d’uomo Ibleto.

D’Ibla e della dea iblea, si sono ampiamente occupati studiosi e opere di primo piano anche stranieri, fra cui è doveroso ricordare almeno il Forcellini-Perin [1] , il Ciàceri [2] , il Lübker [3] , il Dizionario di Antichità Classica di Oxford, la tedesca Real Enciclopedia della Scienza dell’Antichità Classica [4] (in cui figurano al riguardo tre voci: “Hybla” di Konrad Ziegler, “Hyblaia” di Hugo Hepding e “Hyblaion” ancora dello Ziegler), il Pace [5] e il Libertini [6] .

In epoca greco-romana esistevano nella Sicilia Orientale almeno tre città di nome Hybla, rispettivamente dette Maior, Minor, Parva: una alle falde dell’Etna, creduta l’Hybla Maior e identificata anche con l’Hybla Geleatis (ma anche Galeatis, Galeotis) o Gereatis, primo importante centro da Catania ad Adrano, lungo il Simeto; una a nord-nord-ovest di Siracusa, tra Augusta e Melilli, poi chiamata Megara ovvero presso cui — dopo la sua distruzione — sorse Megara, detta anche Megara Hyblaea; e un’altra nella parte più meridionale dell’isola, presso l’attuale Ragusa: questa, i cui resti sono stati individuati dall’Orsi sul suolo della parte inferiore di Ragusa [7] , era detta Hybla Heraea in onore della dea Era.

Però le fonti classiche e gli studiosi moderni non sempre concordano sulla quantità delle Ible, sulla loro esatta ubicazione e sui loro rispettivi titoli. Per qualcuno le Ible erano due, per qualche altro quattro [8] , qualcuno ha identificato un’Ibla anche con l’antica Pantàlica, di cui resta un’imponente necropoli ad ovest di Siracusa, e per qualche altro ancora sarebbe stato detto Ibla ogni luogo fertile della Sicilia. Al riguardo, come vedremo più avanti, il poeta Claudiano qualificò “fertilis” Ibla già nel sec. IV-V d. C.

Attualmente il nome Ibla è rimasto soltanto alla città di Ragusa, anzi ad una parte d’essa, e precisamente alla parte inferiore [9] .

Il termine “Ibla”, certamente d’origine sicula o anatolica e non greca, è solitamente inteso come “luogo fertile”: e ciò, con evidente collegamento al latino uber = mammella, fertilità, terreno o luogo coltivato [10] , considerato che il siculo era affine al latino arcaico; Stefano Bizantino, però, lo fa derivare dal re Iblone. Geleatis è letto anche Galeatis e Galeotis e si riferirebbe a Galeote (figlio d’Apollo), interprete dei sogni e presunto fondatore di quest’Ibla, dato che esisteva una corporazione di sacerdoti-indovini denominati Galeoti o Geleati [11] , ma potrebbe anche collegarsi al nome della città di Gela o al tiranno gelese-siracusano Gelone. Secondo il Ciàceri, la lezione Gereatis si riferirebbe alla natura della dea iblea di cui parla Pausania, poi ritenuta protettrice della fecondità e quindi assimilata a Venere: in tal caso il termine s’intenderebbe “fecondatrice, produttrice” e deriverebbe dal siculo gerra, in greco gérra o gérrai, espressione usata dai siculi per significare i genitali maschili e femminili e quindi la fecondità e la generazione. Gereatis poi fu attributo di Venere-Persefone [12] .

Pausania riferisce che nel santuario d’Olimpia c’era un’antica statua di Zeus con scettro ritenuta dono degli abitanti d’Ibla Gereatide, da lui definita “villaggio dei catanesi”. Egli però, conoscendo solo due Ible, attribuisce erroneamente l’appellativo di Maggiore ad un’altra Ibla situata nel territorio catanese, ma “del tutto abbandonata”: praticamente quella distrutta, presso cui poi sorse la predetta Mègara.

Alla voce “Hybla” nel Lexicon del Forcellini / Onomasticon del Perin è scritto: Est nom. montis in Sicilia inter Leontinos et Syracusas cum oppido cognomine, thymo aliisque floribus abundans et ob id apibus frequens, unde mel provenit sapidissimum et abundans. (“È il nome d’un monte in Sicilia, fra Lentini e Siracusa, con una città ugualmente nominata, ricco di timo e d’altri fiori e per ciò affollato d’api, da cui proviene un miele molto saporito e abbondante.”) E non c’è dizionario o enciclopedia che non riporti il miele ibleo.

Citiamo ora, in ordine cronologico, una serie di fonti relative ai fiori, alle api e al miele d’Ibla.

Letteratura greca

Strabone (di Amasea, nel Ponto, 63 a. C. - 19 d. C.) nella Geografia:

(VI 2, 2, C 267) Tra Catania e Siracusa, dove le ramificazioni dei corsi d’acqua che discendono dall’Etna si riuniscono e costituiscono con le loro foci dei porti sotto ogni punto di vista eccellenti, sorgevano un tempo le città scomparse di Nasso e di Mègara... Èforo afferma che queste due città furono le prime colonie greche in Sicilia, dieci generazioni dopo la guerra di Troia... “I calcidesi edificarono Nasso e i doriesi Megara, prima chiamata Ibla, le quali città più non sono, benché il nome d’Ibla vi rimanga anchora, per la perfettione del miele ibleo.” [13]

Dioscòride Pedanio (di Anazarbo, in Cilicia, sec. I d. C.) nel trattato Sulle medicine:

(II 82) “Fra il miele primeggia quello attico, e di questo quello detto imettio; poi quello delle isole Cìcladi e quello della Sicilia, detto ibleo... È eccellentissimo, dolcissimo, pungente, profumatissimo, biondo, non fluido ma viscoso, e vigoroso.” Dioscoride descrisse le proprietà di ben 600 erbe medicinali; e il suo trattato Sulle medicine fu molto diffuso e tenuto in considerazione per tutto il Medioevo. Per la sua importanza Dante collocò questo famoso medico nel nobile castello del Limbo, fra gli “spiriti magni”: “e vidi il buono accoglitor del quale, / Dioscoride dico” (Inf. IV 139-140). [14]

Letteratura latina

Virgilio (Andes, presso Mantova, 70 - Brindisi 19 a. C.), che ha esaltato forse più di tutti gli scrittori la vita agreste e pastorale, non poteva non citare le api e il miele d’Ibla nel suo Bucolicon Liber.

a) Nell’ecloga I, vv. 53-55, fa dire da Melibeo (traduz. di Enzio Cetrangolo [15] ): “La siepe vicina, da cui le api succhiano il fiore / dei salici, t’inviterà come sempre / col suo lieve sussurro a prendere sonno.” Il traduttore ha omesso arbitrariamente l’aggettivo “iblee” usato da Virgilio, anche se un pastore mantovano non poteva sapere nulla delle api iblee (particolarmente intelligenti e brave) e queste sono introdotte dallo stesso Virgilio sotto lo stimolo della sua cultura proprio per ricorrere ad un topos.

b) Nell’ecloga VII, vv. 37-40, fa dire da Coridone (traduz. di Sebastiano Saglimbeni [16] ): “Nerina Galatea, a me cara più del timo d’Ibla, più / bianca dei cigni, più bella dell’argentea edera, non appena / rientreranno i tori sazi alle stalle, se qualche pensiero per Coridone ti prende, vieni.” In quest’egloga c’è una gara fra pastori-poeti, e quindi il riferimento al timo d’Ibla fra i complimenti di Coridone alla sua amata è intonato e rientra nella logica del topos, anche perché poi Coridone sarà proclamato poeta vincitore. Ricordiamo inoltre che Galatea era una ninfa sicula, figlia di Nereo, innamorata d’Aci (poi trasformato in fiume alle pendici dell’Etna). Si capisce bene che qui Virgilio è nello stesso tempo autore e protagonista, con la sua cultura e i suoi ideali, ed è ispirato da quelle Sicelides Musae (cioè dalle Muse Siciliane, e precisamente dal poeta Teòcrito di Siracusa) espressamente invocate nell’esordio della precedente ecloga IV.

Ovidio (Sulmona 43 a. C. - Tomi 18 d.C.) si ricorda d’Ibla non solo nei momenti felici della sua vita, quando la spensieratezza lo porta a dare consigli d’amore, ma anche nei lunghi momenti di tristezza trascorsi nell’esilio senza ritorno sul mar Nero. Il rifugio in un’oasi sognata e irraggiungibile è forse il motivo per il quale questo autore è uno che ha fatto grand’uso del topos d’Ibla (sette volte), spesso in similitudini.

a) Ars amatoria, libro II, vv. 517-519 (traduz. di Ettore Barelli [17] ): “Quante su l’Athos [18] vagano le lepri / e in Ibla l’api a chieder miele ai fiori, / quante sono le bacche al chiaro ulivo e agli scogli avvinte le conchiglie, / altrettanti in amor sono i dolori.”

b) Ars amatoria, libro III, vv. 149-152 (traduz. di Adriana Della Casa [19] ): “Ma come non conterai le ghiande su un folto leccio, né quante sono le api sull’Ibla, o quanti gli animali sulle Alpi, così a me non è possibile fissare con un numero i tanti tipi di pettinatura: ogni giorno che fugge aggiungi nuove fogge.”

c) Tristia, libro V, 6, vv. 37-41 (traduz. di Francesco Della Corte [20] ): “Quante canne palustri crescono nelle fosse ricche d’acqua, quante api alimenta l’Ibla in fiore, quante formiche, per sottile sentiero, sogliono portare nei loro granai sotterranei il grano trovato, così fitta è la moltitudine dei mali che mi circonda da ogni parte.”

d) Tristia, libro V, 13, vv. 21-23: “Dalle gelide regioni del mar Nero mancherebbe il bianco assenzio, e il monte Ibla di Sicilia sarebbe privo di dolce timo, prima che qualcuno possa mai provare che tu dimentichi il tuo amico.” [21]

e) Ibis, vv. 199-202: “Infatti non potrò dire quanti fiori nascano sull’Ibla di Sicilia, o quanti fiori di croco produca la terra della Cilicia, né quando il triste inverno freme sotto le ali dell’Aquilone, con quanta grandine venga imbiancato l’Atos.” [22]

f) Ex Ponto, libro I, 7, vv. 23-30: “Credimi, se sai che dico la verità — e non si creda che lo dica solo dei miei casi manifesti — tu più in fretta conterai le spighe della messe di Cinifia e saprai con quanti fiori di timo fiorisce l’alto Ibla, e quanti uccelli, spiegando le loro ali, si levano nell’aria e quanti pesci nuotano nel mare, che se farai la somma delle nostre pene, che ho sofferto sulla terra, che ho sofferto sul mare.” [23]

g) Ex Ponto, libro IV, 15, vv. 7-10: “Le quali sono tante di numero quante melagrane nell’orto del fertile campo rosseggiano sotto la flessibile buccia, quante messi produce l’Africa, quanti grappoli la terra del Tmolo, quante olive Sicione [24] , quanti favi di miele l’Ibla.”

Plinio il Vecchio (Como, 23/24 - Stabia 79) nei 37 libri della sua Historia Naturalis fa un riferimento anche al miele d’Ibla. Nel libro XI, 13, 32, tratta dettagliatamente del miele e conclude: “Il miele è sempre speciale là dove si forma nei calici dei fiori migliori, e precisamente a Imetto e Ibla, luoghi rispettivamente dell’Attica e della Sicilia, e nell’isola Calidna.” Grazie al timo, il miele d’Ibla era famoso in tutta l’antichità. Praticamente, secondo Plinio, il miele migliore del mondo era quello delle tre località da lui citate.

Columella (Cadice sec. I d. C.) in De re rustica fa l’elogio dell’agricoltura, continuando le Georgiche di Virgilio dal punto in cui Virgilio stesso ha lasciato incompiuta la sua opera affidandone ad altri la continuazione; e Columella dichiara di accettare di essere il suo continuatore, assumendosene il compito, peraltro svolto in modo dignitoso. Nel libro IX, 14, 19 egli scrive: Nec minus in Sicilia, cum ex reliquis partibus in Hyblaeam [apes] conferuntur. Riferisce che il grande medico Celso (sec. I d. C.) nega che dopo la primavera gli sciami debbano essere lasciati fermi; ma, assunti i nutrimenti primaverili, siano trasferiti in quei luoghi in cui le api possano alimentarsi più proficuamente coi fiori tardivi, quali quelli di timo, orìgano e santoreggia. Ciò può avvenire in Grecia... “e parimenti in Sicilia, quando [le api] sono portate dalle altre parti dell’isola alla [zona] iblea”. Accanto al tradizionale timo qui figurano altre piante utili alla formazione del miele, come l’orìgano e la santoreggia.

Seneca (Cordoba qualche anno prima della nascita di Cristo - Roma 65 d.C.), nella tragedia Oedipus, vv. 600-602 e 607, descrivendo la discesa di Tiresia all’Ade, fa dire da Creonte (traduz. di Giancarlo Giardina [25]) : “Non fa spuntare altrettante foglie Erice, né altrettanti fiori nel pieno della primavera crea l’Ibla, quando un denso sciame d’api si avvolge in un fitto globo, [...] quante genti fece uscire dall’inferno la voce del sacerdote.”

Lucano (Cordoba 39 d. C. - Roma 65 ) nel suo Bellum civile seu Pharsalia, libro IX in cui l’anima di Pompeo scende in Bruto e Catone, vv. 288-292, fa questa similitudine (traduz. di Renato Badalì [26] ): “Nello stesso modo le api [...] se risuona, richiamandole bruscamente all’ordine il bronzo frigio [27] , smettono sbigottite di fuggire e ricominciano, applicandosi diligentemente, a cercare il miele qua e là tra i fiori: gioisce allora il pastore nei prati iblei e si tranquillizza per aver salvato la ricchezza della sua umile capanna.”

Petronio Arbitro (? - Cuma 66 d. C.), l’apparentemente spensierato e gaudente autore del Satyricon, parlando della fallacia dei sensi, accenna al tipico prodotto ibleo in uno dei Fragmenta ricchi di pensosità epicurea, il frammento XXXI (29, 5): Hyblaeum refugit satur liquorem, / et naris casiam frequenter odit. “Chi ha mangiato in abbondanza rifiuta con sprezzo il liquido miele d’Ibla, e il suo olfatto spesso odia la cannella.”

Silio Italico (vissuto a Roma, 26 - 101), che Concetto Marchesi definisce poeta privo d’originalità, mediocre e inutile per aver nei suoi Punica mescolato storia seguendo Livio e mitologia seguendo Virgilio, ha tuttavia degli esiti felici quando fa poesia lirica. In questo libro, dedicato alla conquista di Siracusa da parte di Marcello, si ha l’impressione che al poeta interessi di più la descrizione del paesaggio, magari coi suoi miti, anziché la guerra. Ciò, se lo può far credere dispersivo rispetto all’assunto, gli dà la possibilità di esprimersi meglio: a volte gli bastano poche pennellate per rendere vivo l’ambiente, come al v. 26 quando afferma che in Sicilia il miele ibleo gareggia con quello dell’Attica (nectare Cecropias [28] Hyblaeo accedere ceras), concetto ripetuto ai vv. 199-200 (tum quae nectareis vocat ad certamen Hymetton / audax Hybla favis) chiamando in causa questa volta il monte Imetto, altro luogo comune della poesia; e per questo non esita a definire “audace” l’Ibla.

Stazio (nato a Napoli fra il 40 e il 50 d. C., vissuto a Roma, morto a Napoli dopo il 95) fa tre riferimenti a Ibla e al suo miele.

a) Silvae, libro II, bozzetto 1 intitolato a Glaucia, giovane prediletto di Atedio Meliore, vv. 45-48 (traduz. di Antonio Traglia [29] ): “Dov’è più quella tua bocca così arguta nei tuoi graziosi risentimenti, quei baci di quando abbracciavi, che avevano il profumo di primavera, quelle lacrimucce miste al riso e quella voce che, quando parlavi, aveva in sé tutta la dolcezza del miele ibleo?”

b) Silvae, libro III, bozzetto 2 (“Carme augurale per il viaggio di Mezio Celere”), vv. 117-118: “Conducilo anche a vedere i resti dell’eroe dell’Emazia, dove il bellicoso fondatore della città sta ancora intatto, imbalsamato col nettare ibleo.” [30]

c) Achilleidos, libro I, vv. 554-557: “Si scioglie l’assemblea e con lieto mormorio le schiere, messe in libertà, si allontanano come quando l’Ibla dal dolce clima vede tornare negli alveari gli sciami delle api piene di novello miele” [31] . Nel ricordo d’Ibla è presente quel tono idilliaco che, insieme con quello sentimentale e patetico, si nota in tutta l’opera.

Marziale (nato a Bìlbilis, nella Spagna Tarraconese, intorno al 40 d. C., vissuto a Roma per più di trent’anni, con soggiorni anche in Emilia, morto a Bìlbilis tra il 102 e il 104) è lo scrittore latino che nei suoi Epigrammata presenta più riferimenti a Ibla e al suo miele (otto).

a) libro II, 46, 1-6 (traduz. di Giuseppe Norcio [32] ): “Come l’Ibla ammantata di fiori si tinge di vari colori, quando le api sicule fanno bottino dei fiori di breve durata, così le tue soppresse brillano dei mantelli che stanno sotto, la cassapanca risplende per gl’innumerevoli abiti e le tue bianche toghe, fatte con lana dei ricchi greggi dell’Apulia, potrebbero vestire una tribù.”

b) libro V, 39, 1-3: “O Carino, a te che fai testamento trenta volte l’anno, ho mandato focacce inzuppate di timo ibleo.” [33]

c) libro VII, 88, vv. 1-10 (intero): “Si dice che la bella Vienna [34] , se è vera la fama, tiene i miei libretti fra le sue delizie. Là mi legge ogni vecchio, giovane e fanciullo, e anche la casta fanciulla in cospetto del suo severo uomo. Io avrei preferito ciò, piuttosto che declamino i miei carmi coloro che bevono il Nilo direttamente alla sorgente stessa, che il mio Tago mi riempia d’oro spagnolo e che l’Ibla e l’Imetto alimentino le mie api. Qualcosa, dunque, sono e non vengo ingannato dalla lusinga di benevola lingua: penso, o Lauso, che ormai crederò a te.”

d) libro IX, 11, vv. 1-5 e 10-12: “Volevo cantare in delicati versi il nome nato con le viole e le rose, con cui si nomina la parte migliore dell’anno, che sa d’Ibla e di fiori attici, che olezza di nidi di superbo volatile; nome più dolce del nettare divino, [...] nome nobile, molle, delicato: ma tu, sillaba, ostinatamente ti ribelli.” Praticamente è con Marziale e col Pervigilium Veneris che ha inizio l’identificazione d’Ibla con la Primavera e quella personificazione che durante il Rinascimento sfocerà in una famosa opera pittorica e nella presenza di donne chiamate Ibla (= Primavera).

e) libro IX, 26, vv. 1-4 (traduz. dello stesso Norcio): “Chi osa mandare carmi al facondo Nerva è come se donasse essenza di pallido papavero a te, o Cosmo, viole e bianchi ligustri al colono di Pesto, mieli di Corsica alle api iblee.”

f) libro X, 74, vv. 1-6 (intero): “Io non vorrei come premio per i miei libretti — ma valgono essi qualcosa? — le piane dell’Apulia, non m’attira Ibla né il Nilo fertile di spighe, né la delicata uva che dalla sommità del colle di Sezze guarda verso le paludi pontine. Dunque, vuoi sapere da me che cosa io bramo? Dormire.”

g) libro XI, 42, vv. 3-4: “Ordini che per te si producano mieli dell’Ibla o dell’Imetto [che sono i migliori], e invece fornisci alle api attiche timo di Corsica [che dà miele scadente]!”

h) libro XIII (Xenia), 105, vv. 1-2 (intero): “Quando regalerai favi siculi, provenienti dai colli mediani dell’Ibla, ti sarà lecito dire che sono attici”, data la sostanziale identità del miele ibleo con quello attico.

Di Marziale abbiamo citato ampi brani e a volte interi epigrammi per far capire meglio il senso in cui sono incastonati i riferimenti iblei.

Sereno Sammònico (romano, morto nel 212 d. C.) nel Liber medicinalis dà una ricetta per la cataratta (13, 199): “Succo di miele ibleo con fiele caprino giova agli occhi oppressi da grave caligine.”

Servio Onorato (sec. IV-V d. C.) nel suo famoso commento In Vergilii Bucolicon librum non poteva non soffermarsi su Ibla e sul suo miele, ma (nell’edizione di G. Thilo del 1887) arriva a supporre che questa possa essere in Attica.

a) In riferimento all’ecloga I, vv. 53-55 scrive ( 1, 54): Hyblaeis. Hybla, quae postea Megara, oppidum Siciliae: vel locus in Attica, ubi optimum mel nascitur. “Iblei. Da Ibla, quella che poi fu detta Megara, città della Sicilia, ovvero località dell’Attica, dove si produce eccellente miele.”

Tuttavia nel Lexicon del Forcellini / Onomasticon del Perin il suddetto brano è riportato testualmente così: Hybla vel Hyble oppidum est Siciliae, quod nunc Megara dicitur, - ubi optimum mel nascitur. “Ibla o Ible, è città della Sicilia, che ora si chiama Mègara, dove si produce eccellente miele.”

b) In riferimento all’ecloga VII, vv. 37-40 scrive (37, 10): Thymo dulcior Hyblae vel odore thymi Hyblaei, vel melle Hyblaeo, ut a materia rem ipsam dixerit: nam apibus, non hominibus dulcis est thymus. “Più dolce del timo d’Ibla: cioè dell’odore del timo ibleo, o meglio del miele ibleo, intendendo il contenente per il contenuto: infatti il timo è dolce per le api, non per gli uomini.”

Claudio Claudiano (di origine egiziana, fiorito fra Roma e Milano a cavallo dei secoli IV e V), l’ultimo grande poeta classico e cantore di Roma, presenta quattro riferimenti iblei.

a) Panegyricus de sexto consulatu Honorii (XXVIII 259-262): “Quale un vecchio d’Ibla, sbattendo da lontano i bronzi cibelici, tenta con il loro suono di richiamare le api che si sono allontanate dopo aver abbandonato di loro iniziativa i favi...”. Il brano somiglia a quello di Lucano (Bellum civile seu Pharsalia, IX 288-292) sopra riportato, a cui qui si rimanda anche per la spiegazione dell’uso dei bronzi cibelici.

b) De raptu Proserpinae II (XXXV 78-80): “Ora vieni e sii propizio, ti prego: ora fa’ che tutti i virgulti si carichino di frutti, affinché la fertile Ibla sia invidiosa e riconosca che i suoi orti possono essere superati.” Insomma, Ibla, qui considerata fertile per eccellenza, dovrebbe in quest’occasione cedere il primato della fertilità alla piana d’Enna.

c) Ibidem (XXXV 123-127), traduz. di Carlo Carena [35] : “Allora tutto il corteo / inondò i prati variopinti: crederesti che sciami si riversino / a caccia del timo sull’Ibla, quando i re muovono / gli accampamenti di cera, e, uscito dal cavo ventre del faggio, / l’esercito ronza tra l’erbe prescelte, riportandone miele.” Occorre dire che questo poema mitologico, rimasto incompiuto alla fine del libro III, è un’esaltazione del paesaggio siciliano: l’autore vagheggia tale paesaggio con nostalgia e abbandono, come se fosse vissuto in mezzo ad esso e avesse perduto un mondo di serenità. Egli non solo si pone sulla scia d’Ovidio, ma presenta episodi, immagini e particolari linguistici del Pervigilium Veneris.

d) Fescennina de nuptiis Honorii Augusti (IV 7,10): “Nessuno gode di fragranze genuine né depreda i favi iblei nei loro nascondigli, qualora badi al proprio viso, qualora tema i rovi; la spina arma le rose, le api occultano il miele.”

A sua volta Aurelio Sìmmaco (Roma 340 - Milano 410 ?) in una sua lettera (libro I, 102) chiede all’amico Siagrio di mandargli lettere frequenti e più piacevoli dei favi d’Ibla o Imetto (Hyblae aut Hymetti favis iucundiores). [36]

L’anonimo autore dei Tetrasticha in Vergilii Bucolica et Georgica inclusi nell’Anthologia Latina [37] , rimaneggiando alcuni versi dei libri II e IV delle Georgiche (in cui fra l’altro il miele è definito aereo in ossequio ad un’antica credenza secondo la quale esso cadeva dal cielo insieme alla rugiada), scrive (12):

a) (II) “[Virgilio] canta le costellazioni, le messi, i doni di Bacco, l’allevamento delle pecore e i mieli dal sapore ibleo.”

b) (IV) “Di seguito tratta i regni olezzanti dell’aereo miele, le api iblee, le tessiture di cera degli alveari, quali [siano] i fiori adatti, quali gli sciami da scegliere e i favi umidi, doni del cielo.”

Nella stessa Anthologia Latina si trova anche il Pervigilium Veneris, un poemetto d’anonimo autore tutto riferito a Venere e Ibla, nel quale, in un paesaggio idilliaco, s’invita all’amore, alla fecondazione e alla generazione. In questa “Lunga veglia di Venere” certamente c’è una ripresa dell’inno di Lucrezio a Venere Genitrice con cui si apre il De rerum natura e del libro II (vv. 323-345) delle Georgiche, ma anche — nell’insistenza del ritornello Cras amet qui numquam amavit, quique amavit cras amet [38] — dell’idea del carpe diem oraziano, che poi sarà fatta propria anche dal Magnifico nel brindisi del suo “Trionfo”. Ne riportiamo i versi 49-52 riferentisi a Ibla e ai suoi fiori:

Iussit Hyblaeis tribunal stare diva floribus:
Praeses ipsa iura dicet, adsidebunt Gratiae.
Hybla, totos funde flores, quidquid annus adtulit:
Hybla, florum sume vestem, quantus Aetnae campus est.

“La dea ha deciso che il suo trono sia eretto fra i fiori iblei: / presiederà lei stessa e detterà leggi, con l’assistenza delle Grazie. / Ibla, spargi tutti i fiori, tutti quelli che l’anno ha prodotto! / Ibla, indossa una veste di fiori grande quanto la Piana etnea!”

Questo carme — attribuito ad autori come Catullo, Apuleio, Tiberiano, Floro, ecc. — veniva cantato da un coro di fanciulle nella grande festa primaverile che si teneva nelle calende d’aprile a Hybla Maior, attuale Paternò, dove l’autoctona dea iblea di cui parla Pausania — da alcuni chiamata direttamente Ibla — in seguito alla romanizzazione era stata identificata con Venere.

L’atmosfera e certi particolari del Pervigilium si ritrovano nella poesia e nell’arte del nostro Rinascimento: basti ricordare poeti come il Magnifico, il Poliziano, il Firenzuola e pittori come il Botticelli, il quale per il suo dipinto allegorico La Primavera attinse principalmente a questo carme. Nel quadro vi sono inconfondibili elementi di questo carme: oltre a Venere, Cupido-Amore alato che sovrasta tutti con arco e frecce pronto a colpire, le tre Grazie (= adsidebunt Gratiae), la veste fiorata della Primavera (= florum sume vestem), il campo pieno di fiori variopinti (= Aetnae campus).

Possiamo dunque affermare che aveva ragione Marziale quando nell’epigramma IX, 11 dichiarava che il nome Primavera, “nome nato con le viole e le rose, con cui si nomina la parte migliore dell’anno”, sa d’Ibla (Hyblam quod sapit): erano tanto associati i due nomi, che per lui Primavera voleva dire in primo luogo bellezza (paesaggio), profumo (fiori) e dolcezza (miele) d’Ibla e grande festa primaverile della Venere Iblese. Per i poeti classici Primavera e Ibla erano strettamente connesse; e se a queste aggiungiamo Venere, otteniamo il Pervigilium Veneris e La Primavera del Botticelli, dipinto nel quale questo pittore ha dato un corpo e un volto a Ibla: quello della Primavera.

Infine, per concludere la letteratura latina, aggiungiamo un riferimento tratto dai medievali Carmina Burana, raccolta di circa 300 carmi dei secc. XII e XIII, la quale prende il nome dalla Benediktbeuren, bura (= “abbazia”) benedettina in Baviera, dove nel 1225 è stato trovato un codice. Nel canto goliardico d’addio che comincia con le parole Dulce solum natalis patrie, l’anonimo autore scrive (8, vv. 13 e 16): “Quante sono l’api nelle valli d’Ibla [...] di tanti dolori / è pieno l’amore.”

Letteratura italiana

Pier Candido Decembrio (Pavia 1392-Milano 1447), segretario prima di Filippo Maria Visconti e poi della breve repubblica milanese, aveva cominciato a comporre il tredicesimo libro dell’Eneide, pensando di completare l’opera di Virgilio, ma dovette arrestarsi dopo 89 versi per l’analoga idea d’un altro cortigiano visconteo, cioè Maffeo Vegio (Lodi 1407-Roma 1458), il quale in effetti riuscì a pubblicare il suo Supplementum virgiliano nel 1427. L’abbozzo del Decembrio risale al 1419 e in esso vi sono i versi 16-18 che ricordano Ibla e in cui, a proposito della ricostruzione urbana disposta da Latino dopo la morte di Turno, si dice che il lavoro procedeva alacremente: “Come le api che affollano i pascoli rugiadosi della verdeggiante Ibla, una truppa sudata tra fiori variopinti lavora velocemente e i campi sono rumorosi per il mormorio dello sciame”.

Marsilio Ficino (Figline Valdarno 1433-Careggi 1499) fondò l’Accademia Platonica fiorentina e diresse con la sua preparazione e la sua autorevolezza il circolo culturale dei Medici, animato anche da personaggi come il Magnifico, il Poliziano e il Botticelli. Nel cap. IX del Liber de arte chemica (“Sull’alchimia”) egli fa questo riferimento a Ibla: “Come [fanno] anche piccole api, mentre succhiano la parte più dolce dei fiori d’Imetto e d’Ibla, per il piacere di far miele.” Qui va ricordato anche che il Ficino, con le sue teorie platoniche, influenzò il Botticelli nella composizione del dipinto La Primavera, la quale in realtà raffigura il mito d’Ibla del Pervigilium Veneris.

Matteo Bandello (Castelnuovo Scrivia 1485 - Agen di Francia 1561), frate domenicano e novelliere, approfitta d’una reminiscenza letteraria per un’immagine sensuale, che poi tornerà somigliante nel Marino (del quale vedi più avanti il punto c): “Quelle due mammelle piene di miele ibleo, le belle braccia... mi promettono pure ch’ella sia donna.” [39]

Agnolo Firenzuola (Firenze 1493 - Prato 1543) è tanto legato a Ibla (di cui presenta quattro riferimenti) da dare ad una compagna della donna da lui cantata ora il nome letterario d’Iblea ora direttamente quello d’Ibla; e il ricordo della località siciliana esprime sempre qualità positive, quali bellezza, dolcezza, gentilezza:

a) Nel Dialogo delle bellezze delle donne intitolato Celso [40] , discorso I, fa dire da Selvaggia: “E pur la Iblea Soporella è molto ben grassa; non di meno è ancora una bellissima giovane e porta così ben quella sua persona, così intera, così agile, così destra. Oh Dio! egli è pure un piacere a vederla caminare. [41]

b) Nelle Rime per Selvaggia, e precisamente in “Stanze in lode di Madonna Selvaggia bellissima e nobile gentildonna pratese intitolate Selva d’amore”, 57^ stanza, vv. 4-8, una delle compagne di Selvaggia è “Ibla la dolce”, felice locuzione che risente certo della tradizione di gentilezza legata al termine “Ibla”:

“Al fonte,
Che tra segni è sacrato al più solenne,
Ne va oggi Selvaggia e seco ha gionte
Isa la bella, Ibla la dolce, vaghe
Di far con gli occhi lor ben mille piaghe.” [42]

c) Nella “Satira al signor Pandolfo Pucci”, sempre nelle Rime, il poeta rinfaccia ad una donna il fatto che la natura non le diede doti positive (vv. 104-108)

“Come la fece a Lidia, alla Fiammetta,
A Delia, a Flora, alla gentile Iblea
E a tant’altre ch’io mi taccio il nome
Per reverenza, ché di lor mal degne
Son queste mie poco felici carte.” [43]

Si noti che nell’elencazione delle donne belle e intelligenti, mentre per le altre è scritto il semplice nome, soltanto il nome “Iblea” è accompagnato da un aggettivo qualificativo, rientrante nella tradizione.

d) Infine nelle Rime “occasionali”, 120, vv. 2-4 il poeta paragona i suoi amorosi affanni, trascorsi lietamente in gioventù, a quelli delle api iblee nel periodo della fioritura; ed è la prima volta che il lavoro e lo zelo delle api iblee vengono assunti per un paragone del genere:

“... i miei più gioveni anni
lieto passai tra gli amorosi affanni,
come ne’ colli iblei d’april le pecchie.” [44]

Torquato Tasso (Sorrento 1544 - Roma 1595), il tormentato poeta antesignano del Romanticismo, non fu autore soltanto del celebrato poema La Gerusalemme liberata (poi divenuta conquistata), ma anche della favola pastorale Aminta e di Rime. Fra queste circa duemila composizioni di vario genere, nel sonetto petrarchesco 676 (vv. 5-6) giudica la sua amata “degna a cui nutra più leggiadri fiori / Ibla, e Parnaso più odorate fronde.” Qui, anziché per i più frequenti moduli del timo, delle api e del miele, Ibla è chiamata in causa per la bellezza dei suoi fiori, mentre al monte Parnaso sono attribuiti alberi molto profumati.

Giambattista Guarini (Ferrara 1538 - Venezia 1612), dopo aver molto ammirato l’Aminta del Tasso, scrive il Pastor fido, tragicommedia ambientata proprio in Arcadia. E in essa fa un riferimento al miele ibleo, quando il pastore Mirtillo, rivolgendosi a Ergasto, dice (atto II, scena 1, vv. 183-187):

“[...] Accogli pur insieme
quant’hanno in sé di dolce
o le canne di Cipro o i favi d’Ibla;
tutto è nulla, rispetto
a la soavità ch’indi gustai.”

Le canne di Cipro e i favi d’Ibla sono rinomati per la loro dolcezza; ma questo è nulla rispetto alla soavità provata dal pastore innamorato d’Amarilli, la fanciulla che doveva essere sacrificata.

Giambattista Marino (Napoli 1569 - ivi 1624) il tanto discusso poeta della meraviglia [45] , nel prolisso poema Adone, che fu ritenuto il più grande capolavoro di quel tempo, ma che oggi è soltanto una testimonianza di quello stucchevole stile detto marinismo o secentismo o barocchismo del quale egli stesso fu caposcuola, presenta ben sei riferimenti iblei, avvicinandosi per il numero a Ovidio, Marziale e D’Annunzio; e questo nei primi otto canti:

a) canto VI, ottava 103, vv. 1 e 5:

“Quanto essalan di grato Ibla e Pancaia
[...]
tutto qui spargi.”

Anzitutto, dunque, c’è una richiesta dei profumi più intensi per rendere più gradevole l’ambiente; e stavolta al monte Ibla è associato il Pangeo, monte della Macedonia al confine con la Tracia, certamente non così celebre come l’Ibla.

b) canto VI, ottava 125, versi 4-5 e 8:

“Ciò che produr ne sanno i colli iblei,
le piagge ebalie [46] e l’Attiche pendici
[...]

tutto in quegli orti accumulò Ciprigna.”

Venere accumula nel giardino del Piacere, dov’è con l’amato Adone, le cose più belle, e fra queste i prodotti dei colli iblei.

c) canto VII, ottava 145, vv. 5-6:

“Stillan le Grazie il latte, ed è composto
di mel, qual più soave Ibla mai fiocca.”

Quando il neonato Amore succhia per la prima volta le mammelle della madre Venere, il latte è distillato dalle Grazie ed è composto d’un miele uguale al più squisito d’Ibla.

d) canto VII, ottava 154:

“Così per Ibla a la novella estate
squadra di diligenti api si vede
che le lacrime dolci e dilicate
di Narciso e d’Aiace a sugger riede;
poi ne le bianche celle edificate
vanno a ripor le rugiadose prede;
altra a comporre il favo ed altra schiera
studia dal mele a separar la cera.”

Abbiamo voluto citare tutta l’ottava perché in essa c’è la descrizione dell’operosità delle api iblee: è una scena animata e realistica, che si svolge in questa nuova Arcadia. Con la stessa rapidità e diligenza dei servitori del pranzo di Venere e Adone all’inizio dell’estate si vede muoversi una squadra di diligenti api che torna a succhiare il prodotto delle dolci e delicate lacrime di Narciso e d’Aiace; le api poi vanno a riporre il rugiadoso bottino nelle bianche celle dell’alveare; una schiera si dedica a comporre il favo e un’altra a separare la cera dal miele.

e) canto VIII, ottava 5, vv. 1-4:

“Suggon lo stesso fior ne’ prati iblei
ape benigna e vipera crudele,
e, secondo gl’instinti o buoni o rei,
l’una in tosco ’l converte e l’altra in mele.”

Nella lunga introduzione moraleggiante di questo canto, il poeta inserisce questa massima, attribuendola ai suoi versi: alcuni possono piacere, altri no; alcuni possono procurare del bene, altri del male: secondo le doti del lettore. Si noti poi il chiasmo: l’ape benigna, che ha “instinto” buono e che al secondo e terzo verso è il primo elemento del confronto, nell’ultimo verso è trasformata in secondo elemento.

f) canto VIII, ottava 140, vv. 7-8:

“Par ch’abbia in queste porpore ricetto
quanto mele ha Parnaso, Ibla e Imetto.”

Baciando Venere, Adone ha l’impressione che sulle labbra di lei sia concentrato tutto il miele di Parnaso, Ibla e Imetto: e qui stranamente agli altri due monti, già noti per il miele, è associato il Parnaso, noto invece per essere sacro ad Apollo e alle Muse. L’immagine delle labbra “mielate” della donna amata ritorna poi anche in un sonetto di Francesco Redi (Arezzo 1626 - Pisa 1698) e in una famosa canzonetta di Giovanni Meli (Palermo 1740 - ivi 1815). Quest’ultimo, che il miele l’aveva nel nome (greco e siciliano meli, italiano miele), addirittura invita un’ape a tralasciare i fiori e a cercare il miele sulle labbra della sua donna amata.

Giambattista Vico (Napoli 1668 - ivi 1744), sebbene noto come grande filosofo, scrisse anche delle Poesie. Nella 5, intitolata “Giunone in danza”, al verso 30 cita “l’indiche canne e i favi d’Ibla e Imetto” [47] , paragonando le ricche mense di certi signori, piene di bellissimi fiori e di eletti cibi, a quelle divine, dove si mangia ambrosia e si beve nettare. Con ciò egli resta nella tradizione del topos del miele ibleo elevato a dignità di nettare.

Pietro Trapassi, detto Metastasio (Roma 1698 - Vienna 1782) nel primo dei suoi tre Epitalami lasciò un’arietta dedicata a Ibla, ricalcando praticamente l’ottava 154 del canto VII del Marino (vv. 137-140):

“Così colà sovra l’iblea pendice
errano intorno alle cortecce amate,
spogliando de’ suoi pregi il suol felice,
l’industri pecchie alla novella estate.”

Giuseppe Parini (Bosisio 1729 - Milano 1799), l’autore del poema Il giorno così ricco di fermenti morali, nell’ode “L’educazione” scritta per la guarigione di Carlo Imbonati si augura che i suoi versi, portati dalle ali sonore del ritmo poetico, vadano diretti al cuore del giovane (vv. 36-42):

“Simili or dunque a dolce
Mèle di favi Iblei
Che lento i petti molce,
Scendete, o versi miei,
Sopra l’ali sonore
del giovinetto al cuore.”

Questa strofa è importante anche per la pedagogia del Parini, il quale qui assume le vesti d’un novello Chirone: l’educazione dev’essere dolce e instillata nel cuore dei giovani come il miele ibleo, che quasi accarezza.

Vincenzo Monti (Alfonsine 1754 - Milano 1828), il poeta principe della mitologia, non ignora il topos d’Ibla.

a) nella poesia Le api panacridi in Alvisopoli, tutta basata sulle api e sul miele, scrive (vv. 73-76):

“D’un guardo allor sorridere
degna al terren, che questo
ti manda ibleo munuscolo,
offeritor modesto.”

Rivolgendosi al neonato re di Roma, figlio di Napoleone, il poeta immagina che gli rechino miele di timo e di viole le stesse api che un tempo nutrirono Giove sul monte Ida, detto anche Panacri. Il poeta approfitta per fare l’elogio del miele, che alimentò i discorsi di Platone e i versi di Pìndaro e Virgilio, e invita l’“augusto pargolo” a guardare benevolo al terreno di Alvisopoli (città di Alvise), la piccola zona del Veneto bonificata dal senatore Alvise Mocenigo nei pressi del fiume Lémene [48] (verso Portogruaro, VE), che gli fornisce il miele, dal poeta definito “ibleo munuscolo”, cioè grazioso dono d’Ibla.

b) interessante è anche un passo della Feroniade (opera scritta per un’altra bonifica: quella delle paludi pontine) in cui fa l’elogio del fico (canto I, vv. 225-232):

“Ma stillante più ch’altri ibleo sapore
l’onor dispiega di sue larghe chiome
il calcidico fico, il cui bel frutto,
se verace è la fama, alle celesti
mense sol noto, fra ’ mortali addusse,
e a Fitalo [49] donò la vagabonda Cerere,
allor che tutta iva scorrendo
la terra in traccia della tolta figlia.”

Il brano è interessante non soltanto per il riferimento a Ibla, ma anche per il lessico non paludato, per la leggiadra movenza dei versi e — tutto sommato — l’eleganza.

Ugo Foscolo (Zante 1778 - Turnham Green 1827) per la composizione del carme Le Grazie, essenza di classicità, ritiene ineludibile il mito d’Ibla e progetta due sequenze in cui le Grazie, trasferendosi dalla Grecia in Italia, hanno come prima destinazione Ibla. Nel terzo e ultimo sommario egli scrive: “PARTE SECONDA: 1. Giano le manda a chiamare [le Grazie]. - 2. Loro venuta con Galatea, e passaggio loro per Ibla: le seguono le api. - [...] - 9. Le Grazie danno le api alle Muse in Imetto e in Ibla: Teocrito, poesia pastorale.” [50] Purtroppo i versi relativi a Ibla — come tanti altri di questo poemetto tanto a lungo tormentato — non si sono trovati, ma ci sono quelli del viaggio delle Grazie e delle api, dal cui miele (oltre che dalle Muse) per il Foscolo sono ispirati i più grandi poeti italiani: e su questo torneremo più avanti.

Niccolò Tommaseo (Sebenico di Dalmazia 1802 - Firenze 1874) si ricorda delle api iblee per una massima: “D’ape iblea turbar non lice / la quiete a’ fiori in seno.“ [51]

Gabriele D’Annunzio (Pescara 1863 - Gardone Riviera 1938), il poeta immaginifico e sensuale, mentre in apparenza si definisce non ibleo, in sostanza si dimostra legato al mito d’Ibla, presentando ben sei riferimenti; e anche lui, come il Marino, per il numero si avvicina a Ovidio e Marziale:

a) il primo è una similitudine, nella quale il vento molle fa sussurrare la selva come uno sciame d’api al lavoro, che per il poeta-soldato diventa “falange iblea”. Il poeta non poteva non aprire la raccolta Primo vere, che nel titolo stesso ci riporta all’incipiente primavera, con un “Praeludium” che descrive ed esalta questa stagione; ed è in questo contesto primaverile (fiori, erbe, rugiada) che — com’è ovvio — s’inserisce il riferimento ibleo, data l’associazione concettuale e poetica fra Primavera e Ibla (vv. 1-4):

“Cinto di fiori e d’erbe gemmanti di fresca rugiada
l’aprile novo a la terra mite ride.
Scossa da ’l vento molle la selva de’ tigli frondosa
dolce sussurra come falange iblea;” [52]

b) nel secondo la dolcezza degl’idilli di Teocrito è paragonata a quella del miele ibleo. Il poeta, nella composizione “A l’Etna” (contenuta nell’appendice prima dei Versi d’amore e di gloria), che è tutta un’esaltazione della Sicilia e dei suoi miti, ricorda anche Siracusa e i suoi personaggi maggiori, cioè Archimede e Teocrito, del quale scrive (vv. 169-173):

“Scorrean gl’idilli
intorno dolci come il mele ibleo
ed a ’l poeta facean corona
le verginette
siracusane.” [53]

c) il terzo, in latino, si trova nella seconda parte della lunghissima “Licenza” aggiunta al racconto La Leda senza cigno [54]. Egli ricorda che durante una messa al campo sul Carso un giovane capitano afferrò e tolse una vespa che stava per pungere il collo al poeta, allora tenente, al quale in quel momento sovvenne il ricordo d’un’altra vespa:

(2, 109) “Sorrido al ricordo della vespa che ronzava sul balcone di mia madre e che mi punse il polso, al momento del commiato. Ferita di poeta! Vulnus hyblaeum.

Gli altri riferimenti dannunziani a Ibla si trovano tutti in Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire. [55]

d) Il quarto è in un epigramma con cui il poeta si diverte ad imitare i componimenti del libro di antiche ballate Early Ballads:

(59, 4) “Il più opimo dei tuoi favi iblèi
offerivi al tuo scarno sacrifizio.
T’inseguivi di là da quel che sei
anche nel vizio.”

e) Nel quinto ritorna, pressoché con le stesse parole della “Licenza” della Leda, il ricordo della messa al campo di battaglia, della minaccia di puntura da parte d’una vespa e della precedente ferita da parte d’un’altra vespa ad un poeta come lui, che si definisce non ibleo. Praticamente, se le api cercano tutto ciò che è ibleo, perché andare a pungere proprio lui che ibleo non è? Nel riferimento in latino il poeta aveva qualificato iblea la ferita, mentre ora qualifica sé stesso non ibleo. Scrive allora:

(91, 23) “Mi ricordo della Vespa d’Abruzzi, della vespa anellata di Francavilla, che m’infisse il pungolo nel polso destro: ferita di poeta non ibleo.”

f) Nel sesto, brano in versi col titolo “Noctivagum melos” [56] , il poeta ricorre all’aroma dell’Ibla per un paragone coi capelli della donna amata:

(122, 1) “Non dell’Imetto non dell’Ibla aroma
ondoso e folto, non letale raggio
d’insania chiuso in alvear selvaggio
è la tua chioma.”

Corrado Govoni (Ferrara 1884 - Lido di Roma 1965) nella “Quarta litania” della sua Novena compresa nella raccolta Le fiale, al verso 10 accoglie anche lui il mito d’Ibla: “anima lo racchiudi, favo ibleo.”

Infine Salvatore Quasimodo (Mòdica 1901 - Napoli 1968) non poteva non ricordarsi nelle sue composizioni anche dei suoi monti, dei suoi fiori e del suo miele. In “Che lunga notte” di Dalla Sicilia compresa in Il falso e vero verde, così scrive (vv. 5-8):

“Il vento, a corde, dagli Iblei, dai coni
delle Madonie, strappa inni e lamenti
su timpani di grotte antiche come
l’agave e l’occhio del brigante.”

Egli nella poesia “Micene” si definì “siculo-greco”; e ci teneva a dirsi di Siracusa, perché allora Mòdica era in provincia di Siracusa (tanto che alcuni libri lo danno nato a Siracusa), mentre oggi essa è in quella successivamente costituita di Ragusa. Essendo ibleo di nascita, non dimenticò mai le mitiche risorse della sua terra, tanto che le parole “api” e “miele” ricorrono spesso nella sua produzione:

“Tempo d’api: e il miele
è nella mia gola
[...]
di patria perduta.” (“Sovente una riviera”)

“Le api, amata, ci recano l’oro” (“Isola di Ulisse”)

“Dorme l’estate nel vergine miele (“Del mio odore di uomo”)
“Le api secche di miele” (“Sulle rive del Lambro”; a Milano, dove viveva il poeta, le api non erano iblee e quindi erano secche di miele)

“alla tua spalla nuda
che di miele odora” (“Delfica”)

“Qui lontani da tutti, il sole batte
sui tuoi capelli e vi riaccende il miele” (“Scritto forse su una tomba”)

“come celle d’alveare [...]
sulle rive joniche (splendeva un’ape
liscia di miele nel suo occhio)” (“Il tuo piede silenzioso”)

“e l’ape lucida zufola e saetta” (“Tempio di Zeus ad Agrigento”)

“[...] soldato, ape soldato” (“Arche scaligere”)

Il ricordo così pungente del suo miele, quello di cui si era nutrito abbondantemente sui colli iblei e che ora è remoto, dunque, ha influenzato in una certa misura la produzione di Salvatore Quasimodo.

Letteratura anglosassone

William Shakespeare (inglese, 1564-1616) fa due riferimenti a Ibla:

a) nella tragedia Re Enrico IV (atto I, scena II) alla domanda di Falstaff “E non è la mia ostessa della taverna una dolcissima ragazza?” fa così rispondere dal principe Enrico: “Come il miele d'Ibla, mio vecchio giovanotto del castello”;

b) nella tragedia Giulio Cesare (atto V, scena I) Cassio dice: “Antonio, la natura dei tuoi colpi è ancora sconosciuta; ma quanto alle tue parole, esse derubano le api dell’Ibla e le lasciano senza miele”.

William Collins (inglese, 1721-1759) fa pure due riferimenti a Ibla:

a) nell’Ode alla semplicità (versi 13-14) scrive: “Per tutti i depositi di miele sulla spiaggia odorosa di timo d’Ibla”;

b) nell’Ode alla Paura (epodo) scrive: “chi lasciò un momento a vagare sulle regioni d’Ibla”.

Patrick Brydone (scozzese, 1736 o 1741-1818) nel suo Viaggio in Sicilia e a Malta (I, 12) scrive: “Le rovine della Piccola Ibla, così celebre per il suo miele, si trovano a poche miglia da questo luogo”;

Mary Darby Robinson (inglese, 1758-1800) nelle Stanze dedicate a Lady William Russel elogia la Natura che “dalle ali incantate del giovane maggio lancia la balsamica rugiada d’Ibla”.

Charles Fenno Hoffman (statunitense, 1806-1884) nella poesia The Mint Julep (“La bevanda alla menta”) scrive che “Venere lanciò sguardi così pieni di magico potere che, come il miele d’Ibla, anche quando furono finiti non n’è mai stato dimenticato il gusto”.

George MacDonald (scozzese, 1824-1905) nel cap. XXV del romanzo Lilith scrive: “Ogni fiore d’Ibla e Imetto deve aver mandato il suo influsso per aumentare l’essenza di quel vino”.

Joseph R. Ingersoll (statunitense) il 7.9.1837 tenne un famoso discorso all’università di Bowdoin, nello Stato di Maine (U.S.A.), in cui, a proposito della capacità psicagogica delle parole, citò l’espressione di Shakespeare “esse derubano le api dell’Ibla e le lasciano senza miele”.

William Sharp (scozzese, 1855-1905) fu tanto innamorato dell’Italia e particolarmente della Sicilia che, in cerca di salute, venne a morire nel castello di Maniace, allora sede della ducea inglese appartenente ai discendenti dell’ammiraglio Orazio Nelson, duca di Bronte. Famosi sono i suoi Sospiri di Roma e Sospiri d’Italia. Avendo conoscenza diretta della Sicilia e dei suoi miti, egli fa più riferimenti a Ibla:

a) nel bozzetto di viaggio The land of Theocritus (“La terra di Teocrito”) incluso nel vol. IV delle Opere scelte, fa un’ampia descrizione della Sicilia, delle sue caratteristiche fisiche, dei suoi costumi, della sua storia e delle sue leggende, identifica Paternò con “l’antica Hybla Minor” e parla più volte dei monti Etna e Ibla;

b) nel poema Persephoneia nomina molte volte Ibla, che distingue da Inessa-Etna. Già nel prologo dipinge la scena con “un fosco tramonto sopra Ibla... un vivido bagliore sull’Etna, quando esce una sottile colonna di fumo scuro a volte accompagnato da una lingua di fiamma rossa”. Melkos, un vecchio sacerdote cieco, in apertura dice: “Sul suo solitario monte dove il tramonto si consuma, Ibla si staglia in una pallida invisibile fiamma... Ibla generosa”; e più avanti: “Una spiaggia malinconica... la Montagna Madre, e di color porpora nel tramonto vidi Ibla, la collina sacra”. Quindi lo stesso Melkos pronuncia delle parole che ci riportano alla veste di fiori d’Ibla nel poemetto latino Pervigilium Veneris: “Il purpureo fiore che Ibla indossava, come una sacerdotessa indossa un abito lungo, prese fuoco”; e in quest’apocalittico scenario il fuoco etneo “cambiò Ibla in una massa fusa e compatta”, tanto che alla fine del monologo Melkos domanda: “La luce cade [sulla spiaggia] dalla collina iblea?”. Successivamente Melkos racconta che “i capelli scuri cadevano a grappoli come la vite selvatica sulla nera rupe che a Inessa-Etna reca l’uva”, aggiungendo: “No, mai ho visto... neppure la bianca teoria di sacre ancelle dirigersi giù per le strade fiancheggiate di fichi della sacra Inessa, né l’antico uomo con cintura d’oro che s’inchinò ad Ibla, né i giovani vestiti di blu che stanno a guardare i mille cani d’Adrano.” E più avanti nomina ancora la “collina iblea”.

Stephen Vincent Benet (statunitense, 1898-1943) nel brano The drug-shop, or Endymion in Edmonstoun (“La drogheria, o Endimione in Edmonstoun”) del suo premiato poema Young Adventure (“Giovanile avventura”), nota “alto sopra di loro, orgoglio del mio maestro, un barattolo di miele, giallo e ricoperto di ragnatele, proveniente dal monte Ibla”.

William Barclay (scozzese, 1907-1978) nel suo Commento al Nuovo Testamento, illustrando le raccomandazioni di S. Paolo circa la modestia nel vestire, ricorda l’esagerazione delle antiche romane e ripete l’osservazione d’Ovidio (Ars amatoria, III, 149-152): “i modi di abbigliare i capelli erano tanti quante le api in Ibla”.

Conclusione

Come si vede è molto lunga la lista degli autori che hanno parlato del miele ibleo. Della sua “perfezione” parlò il greco Strabone affermando che dopo la distruzione d’Ibla il nome d’essa era rimasto grazie all’ottimo miele ibleo. Ma è molto significativa anche l’analisi fatta dal medico e naturalista Dioscòride Pedanio, anche lui greco, che si può definire fondatore dell’erboristeria e che giudicò il miele ibleo “eccellentissimo, dolcissimo, pungente, profumatissimo, biondo, non fluido ma viscoso, e vigoroso”.

Per quanto riguarda la latinità, poi, qui non possiamo dimenticare il parere di Plinio il Vecchio, che giudicò “speciale” il miele d’Ibla, e la strana ricetta del medico Sereno Sammònico, che lo consigliò per curare la cataratta degli occhi. Ma va ricordato anche che Silio Italico definì audax l’Ibla perché osava sfidare a singolar tenzone l’Imetto nel campo dei favi di nettare. In tempi relativamente recenti il Forcellini-Perin lo ha definito “sapidissimum”, mentre il Lübker nel suo lessico ragionato dell’antichità classica ricorda che esso era “dai poeti assai lodato” [57] ; tanto che il Bellìa affermò: “Insomma non vi fu poeta, come osservò Brezio nei Commentari sopra Claudio, che non parlò di questo miele.” [58]

Finora abbiamo visto che Ibla e termini derivati sono legati per lo più alla bontà del miele ibleo, la cui eccellenza era dovuta alla pianta dominante in cui esso si formava: il timo. Scrive del timo un manuale di erboristeria dei nostri giorni: “È un ottimo attivatore delle difese organiche. Stimola infatti nelle ghiandole surrenali la produzione di adrenalina, necessaria per tener sempre l’organismo all’erta contro le aggressioni ai vari apparati; inoltre incentiva la produzione di globuli bianchi nei soggetti colpiti da infezioni, che con il timo si risolvono più in fretta. Risulta pertanto prezioso negli stati di debolezza, convalescenza, esposizione al rischio di contagi o epidemie, affezioni a carattere infettivo.” [59] Il suo olio essenziale esercita benefici sugli apparati digerente, respiratorio, genito-urinario e cardiocircolatorio, nonché nelle malattie della pelle. Il miele di timo è un potente antisettico generale, da utilizzare contro tutte le malattie infettive, sia polmonari che delle vie urinarie o intestinali; raccomandato in caso di tosse, esso è stimolante contro le forme di stanchezza.

Quando gli scrittori latini parlano del miele ibleo, citando il monte Ibla, si riferiscono evidentemente alla zona meridionale della Sicilia. Perciò, poiché il timo è diffuso in tutta l’area delle tre Ible, compresa la zona etnea, il miele ibleo che giungeva a Roma — vero nettare o liquore, a volte usato addirittura per imbalsamare personaggi come Alessandro Magno — proveniva anche dall’Ibla etnea, le cui monete avevano un’ape. Anzi qui è da ricordare Varrone (sec. I a. C.) che nel De re rustica (III 16, 14) attribuì la palma della vittoria per la qualità, grazie all’abbondanza del timo, a tutto il miele siciliano (che oggi è una cospicua parte della produzione nazionale), sentenziando: Siculum mel fert palmam, quod ibi thymum bonum frequens est.

Naturalmente il miele ibleo esiste anche oggi e si produce sui monti iblei, in provincia di Ragusa. I produttori ci tengono a precisare sulle etichette che è uguale a quello di migliaia d’anni fa. Su un barattolo di miele ibleo, dopo la precisazione che è estratto dal nettare dei fiori di timo, c’è scritto:

“Dal fantastico mondo delle api [...],
Meraviglioso,
Incomparabile
Prodotto naturale,
Magicamente
Preparato dalle api in
Modo esattamente
Identico da millenni,
Addolcisce la nostra
Vita e apporta
Innumerevoli vantaggi
Alla nostra salute.”

Allora sarebbe il caso d’assaggiare questo miele, se non altro per constatarne di persona le qualità esaltate per millenni da una pubblicità lunga come mai nessun’altra, fatta da propagandisti così autorevoli e in contesti così prestigiosi. E assaggiandolo è opportuno ricordare ciò che il Foscolo, ideando la sosta delle Grazie a Ibla e il corteo delle api, scrisse dell’antico miele (simbolo della poesia) nell’edizione chiariniana del poemetto (II, 140-144):

“... favi onde in Italia
Con perenne ronzio fanno tesoro
Divine api alle Grazie: e chi ne assaggia
Parla caro alla patria;”

e nella variante dell’edizione di Poesie e carmi foscoliani di Le Monnier, Firenze, 1985 (Quadernone, 2. Vesta, 189-193):

“... il mele onde alle Grazie
Con perenne ronzio fanno tesoro
L’eterne api di Vesta
e chi ne assaggia
Parla caro ai mortali.

Insomma, per il Foscolo la migliore poesia italiana, quella che “parla caro” alla patria e ai mortali, è quella che attinge alla tradizione classica della Grecia e della Sicilia Greca. Perciò, assaggiando questo leggendario miele, immaginiamo di essere anche noi con le tre sacerdotesse foscoliane nella villa fiorentina di Bellosguardo e di compiere il rito dell’offerta del miele ibleo alle Grazie in modo da acquisire un linguaggio gradito alla patria e all’umanità tutta.

Bibliografia

C. CICCIA, Paternò in controluce, in “Le Venezie e l’Italia”, Padova, genn.-febbr. 1974; e in A. Cunsolo - B. Rapisarda, Note storiche su Paternò, vol. 2°, Tipolito Ibla, Paternò, 1976.

“ “ Archìa, figlio di Eucle, offrì una statua a Febo / Un messaggero d’Ibla banditore delle Olimpiadi, in “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 11.II.1997.

“ “ Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’arte, Pellegrini, Cosenza, 1998.

“ “ Una nuova interpretazione della Primavera di Botticelli, in “Il corriere di Roma”, Roma, 15.XI.1998.

“ “ Il ‘Pervigilium Veneris’ e ‘La Primavera’ del Botticelli, in Atti e memorie dell’Ateneo di Treviso, anno accademico 1997-98, Grafiche Zoppelli, Dosson (TV), 1999.

“ “ Ibleto di Challant e il mito d’Ibla, in “Talento”, Torino, apr.-giu. 1999.

“ “ Aggiornamenti ad un’opera pregevole di storia patria / Il mito d’Ibla nella letteratura, in “La gazzetta dell’Etna”, 10.VII.1999.

“ “ L’allegoria della Primavera botticelliana, in “Latmag”, Bolzano, sett. 1999.

“ “ Ibla e Paternò: alla scoperta dell’etimologia del nome della nostra città, in “La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, Paternò (CT), 15.I.2000.

“ “ Anche Ibla nell’arte di “Le Nid”, in “La gazzetta rossazzurra di Sicilia”, 11.XI.2000.

“ “ Ubicazione ed etimologia dell’antica Ibla, oggi Paternò, in “La gazzetta dell’Etna”, 10.IV.2001.

“ “ Il mito di Ibla negli umanisti, in “La gazzetta dell’Etna”, 24.V.2001.

“ “ Onomastica iblea, in “Ricerche”, Catania, ott.-dic. 2001.

“ “ Ibla anche in Canada / l’antica città nel mondo, in “La gazzetta dell’Etna”, 26.II.2002.

“ “ Il mito di Ibla negli anglosassoni, in “La gazzetta dell’Etna”, 2.VIII.2002.

“ “ Il mito d’Ibla nella letteratura e nell’onomastica, in Atti della Dante Alighieri a Treviso a cura di Arnaldo Brunello, vol. 4°, Zoppelli, Treviso, 2003.

“ “ Ibla - Varie città nel Vicino Oriente / La biblica Ibleam e toponimi affini, in “La gazzetta dell’Etna”, 19.XII.2008.

[“Ricerche”, Catania, gen-giu. 2009]

Note


[1] Lexicon Totius Latinitatis ab Aegidio Forcellini Seminarii Patavini alumno lucubratum, deinde a Iosepho Furlanetto eiusdem Seminarii alumno emendatum et auctum, nunc vero curantibus Francisco Corradini et Iosepho Perin Seminarii Patavini item alumni emendatius et auctius melioremque in formam redactum, Patavii [1769-1841], quarta editio, 1864-1926: tom. V, Onomasticon, auctore Iosepho Perin cum appendice eiusdem [1913], MCMLXV, Arnaldus Forni Excudebat Bononiae, Gregoriana Edente Patavii, pag. 765-766.

[2] Emanuele Ciaceri, Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia, Battiato, Catania, 1911, pagg. 15-23; a queste pagine s’intende far riferimento ogni volta che in questo lavoro si parlerà del Ciàceri.

[3] Il lessico classico, lessico ragionato dell’antichità classica, di Federico Lübker, traduzione di Carlo Alberto Murero pubblicata da Forzani e C. - Roma, 1898, condotta sulla sesta edizione tedesca.

[4] Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Stuttgart, A. Druckenmüller Verlag, IX, 1, 1914, coll. 25-29.

[5] Biagio Pace, voce “Sicilia”, parte “La Sicilia nell’antichità / Storia”, dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1951, vol. XXXI, pag. 667.

[6] Guido Libertini, voce “Galeoti” della stessa Enciclopedia, vol. XVI, pag. 269.

[7] Paolo Orsi, Notizie degli scavi, Roma, 1899, pagg. 402-418.

[8] La quarta Ibla sarebbe praticamente Selinunte, verso capo Lilibeo, fondata da megaresi iblei, ma non ne portò mai il nome.

[9] La parte inferiore di Ragusa, tuttora chiamata Ibla, fu comune autonomo col nome di Ragusa Ibla dal 1922 al 1927.

[10] Placido Bellia, Storia di Paternò, finita di scrivere nel 1808; ora in A. Cùnsolo- B. Rapisarda, Note storiche su Paternò, vol. II, Tipolito Ibla, Paternò, 1976, pagg. 14, 15, 25.

[11] Per questo vedi Stefano, voce “Galeôtai”, 196-1 e 2. Esichio poi dice: “iblese = indovino” .

[12] Emanuele Ciaceri, Op. cit. Vedi anche Guido Libertini, voce “Ibla Galeotide” dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1951, vol. XIV, pag. 203.

[13] La prima parte della Geografia di Strabone tradotta da M. Alfonso Buonacciuoli, Senese, Venezia, 1562, pagg. 109 verso-110 recto.

[14] Un prezioso manoscritto (sec. XIV) dell’opera De materia medica di Dioscòride, con miniature di piante e fiori a colori vivaci e loro nomi in greco, latino e arabo, si trova nella biblioteca del seminario di Padova.

[15] Di Salvo-Portogalli, Autori latini, Zanichelli, Bologna,

[16] Virgilio, Bucoliche, Newton, Roma, 1994.

[17] Ovidio, L’arte d’amare, Rizzoli, Milano, 1958, pagg. 73-74, vv. 774-778.

[18] La più alta e orientale vetta della penisola calcidica.

[19] Ovidio, Opere, vol. I, Utet, Torino, 1982.

[20] Ovidio, Opere, vol. II, Utet, Torino, 1982.

[21] Idem.

[22] Idem.

[23] Idem.

[24] Tmolo, catena della Lidia; Sicione, nella parte settentrionale del Peloponneso.

[25] Seneca, Tragedie, Utet, Torino, 1987.

[26] Lucano, Bellum civile, Utet, Torino, 1988.

[27] Cìmbalo o cèmbalo, strumento simile a tamburello metallico, adoperato nelle cerimonie in onore della dea frigia Cibele e anche per richiamare le api al lavoro. Vedi Virgilio, Georgiche, IV, 64 e segg.

[28] Secondo il mito, la rocca d’Atene fu fondata da Cècrope, primo re dell’Attica, nato dal suolo di questa terra.

[29] Stazio, Opere, Utet, Torino, 1980.

[30] Idem. Emàzia era l’antico nome della Macedonia, e l’eroe dell’Emazia è Alessandro Magno.

[31] Idem.

[32] Marziale, Epigrammata, Utet, Torino, 1980.

[33] Idem.

[34] Capitale degli Allòbrogi (oggi Vienne), nella Gallia Narbonese.

[35] Carlo Carena, Poesia latina dell’età imperiale, Guanda, Parma, 1957.

[36] Q. Aureli Symmachi, Epistularum ad diversos libri X, Iohannis Bayeri, Francofurti, 1642, pag. 65.

[37] L’Anthologia Latina, raccolta di scritti minori, si formò in Africa agl’inizi del sec.VI d. C. e comprende poemetti, poesie brevi ed epigrammi spesso di grande valore letterario, di autori contemporanei e anteriori. Essa influì notevolmente sulla poesia latina del Medioevo.

[38] “Domani ami chi mai ha amato, e chi ha amato domani ami ancora”.

[39] Matteo Bandello, Opere a cura di F.Flora, Milano,1954, parte 2^, novella 22, vol. I, pag. 863. Dalla sua novella su Giulietta e Romeo lo Shakespeare trasse un famoso dramma. Per curiosa coincidenza, poi, notiamo che la metafora delle mammelle “mielate” continua nella poesia dei nostri giorni; il poeta molisano Vincenzo Rossi nel suo libro I giorni dell’anima (Il ponte italo-americano, New York, 1995) scrive: “nel profondo miele / del tuo seno affonderò” (pag. 346) e “la mia mano ambiva sfiorare / i suoi seni sapore di miele” (pag. 494); mentre poco prima aveva scritto: “ E tu lasciami dormire / sulla tua pelle sapore di miele” (pag. 333).

[40] Sotto il nome di Celso Selvaggio si cela il Firenzuola stesso.

[41] Agnolo Firenzuola, Opere, Utet, Torino, 1977, pag.767.

[42] Ibidem, pag. 872.

[43] Ibidem, pag. 948.

[44] Ibidem, pag. 998.

[45] “È del poeta il fin la meraviglia / (parlo dell’eccellente e non del goffo):/ chi non sa far stupir, vada alla striglia. “ (in La Murtoleide)

[46] Spartane: da Ebalo, leggendario re di Sparta.

[47] Giambattista Vico, Opere, vol. I, Mondadori, Milano, 1990, pag. 249.

[48] Il Monti accenta Lemène, ma è evidente la derivazione dal latino lìmen = soglia limitare, confine. Si ricordi anche il poeta lodigiano Francesco de Lémene, uno dei fondatori dell’accademia dell’Arcadia, ispirata al mondo agreste e pastorale (1585-1654), al quale accenna il Redi nel famoso ditirambo “Bacco in Toscana”.

[49] Eroe attico, che ospitò Cerere e in ricompensa ottenne alcune piantine di fico, allora albero sacro, le cui foglie erano purificatrici. Si allude al mito di Proserpina, figlia di Cerere, rapita da Plutone.

[50] Ugo Foscolo, Liriche scelte / I Sepolcri / Le Grazie, Signorelli, Milano, 1963, pagg. 94-95.

[51] Niccolò Tommaseo, Memorie poetiche, a cura di M. Pecoraro, Bari, 1964, pag. 96.

[52] Gabriele D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, vol. I, Mondadori, Milano,1954, pag. 767.

[53] Ibidem, pag. 783.

[54] G. D’A., Prose di romanzi, vol. II, Mondadori, Milano,1978, pag. 1314.

[55] G. D’A., Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento..., vol. II, Mondadori, Milano, 1950.

[56] “Canto vagante nella notte”.

[57] Lexicon Totius Latinitatis del Forcellini / Onomasticon del Perin, già cit.; F. Lübker, Il lessico classico, già cit.

[58] Placido Bellia, Op. cit., pag. 17.

[59] Istituto Palatini di Salzano, Oli essenziali per la cura del corpo, Demetra, Sommacampagna, 1993, pag. 35.

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