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Ecco un caso
singolare del passaggio, comune alla grande parte dei poeti dialettali, dalla
poesia in lingua alla poesia in dialetto. Singolare perché è la prima prova con
questo diverso strumento linguistico di un autore che ha sempre scritto in
italiano, e perché l’occasione è stata del tutto particolare, personale: le
nozze del fratello (una ripresa rinnovata degli opuscoli “Per Nozze”, un tempo
tanto diffusi). Non sappiamo se l’esperienza avrà un seguito: speriamo di sì,
dal momento che il poeta ha scoperto proprio nella coinvolgente circostanza il
valore della parlata materna, dalla quale è da decenni lontano, ma che
purtuttavia si è dimostrata la sola idonea a scavare nella memoria
dell’infanzia, a riportare in superficie reminiscenze seppellite nel fondo
dell’anima, a dare un senso straordinario all’affettuoso omaggio al fratello (“
mó a Vèn’ra e Albin’ ngi hai sol’ rà gli auggurii r’ bona sort’!”,
“adesso a Venera ed Albino devi solo dare gli auguri di buona sorte!”).
Come chiarisce
il sottotitolo, le poesie sono pensate e scritte nel dialetto di Rionero in
Vulture, cioè in quella complessa regione lucana, stretta da altri dialetti e
pur fedele ad una sua tradizione antica. Un altro poeta, Vincenzo Maria Granata,
aveva provato, alla fine dell’Ottocento, a tesaurizzare le peculiarità
morfosintattiche e, soprattutto, lessicali del rionerese per lasciare una
testimonianza, sia pure in forma diversa dal saggio linguistico, del suo
dialetto.
Gennaro Grieco
lo ha riesumato, invece, direi quasi per necessità: dovendo indirizzare il suo
discorso augurale al fratello, ha subito capito che non l’italiano aulico o
corrente, ma la parlata dell’infanzia, della consuetudine familiare, della
espressione più genuina e spontanea degli affetti era lo strumento ideale. E,
superando le difficoltà di un possesso – che è venuto man mano indebolendosi con
la permanenza lontana dalla fonte – e i problemi di trascrizione fonetica, si è
riavvicinato a quel dialetto aspro, nel quale ogni vocale non accentata scompare
nella pronuncia, come nei parlari emiliani e romagnoli, e dove il fenomeno del
tutto meridionale della rotacizzazione della “d” (che diventa “r”)
contribuiscono a rendere enigmatiche le parole, tanto che un pomodoro si
nasconde nella veste di p’mbror’. E ne ha saputo ricavare una melodia
piena di immagini nuove, anche se saldamente ancorate a espressioni note, come
quando della mamma insonne dice che “ cont’ chiù pècur’ r’ na cuccuvasc”
(“conta più pecore di una civetta”) o del diavolo, che ha la testa piena di
pidocchi “e la facc’ cumm’ a nu c’rt’f’cat’ r’ mort’” (“e la faccia come
un certificato di morte”).
Pensiamo come si
possa essere sentito mortificato l’autore, rileggendo la fredda, anche se
indispensabile, traduzione letterale delle sue poesie, delle quali si è perso il
profumo acuto dell’originale, pervaso di ricordi e risonanze in nessun modo
comunicabili. Perfino un immondezzaio, allora, si fa poesia, diventando
inaspettatamente tesoro di lingua: “L’avìj’ pigliat’ a noria | ma mó ca ngi
penz’, lu pascòn’ sop’a la Cost’ p’ me ièr nu vocabbolario” (“L’avevo preso
in odio | ma ora che ci penso, l’immondezzaio sopra la Costa per me era un
vocabolario).
L’amore fraterno e la forza della lingua dei padri possono fare anche questi
miracoli di vera poesia.
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Recensione |
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