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L’autore della suddetta silloge
poetica, Zairo Ferrante, è un debuttante appena ventiseienne, di Salerno ma
residente a Ferrara, in attesa di conseguirvi la laurea in Medicina e Chirurgia.
Può essere pacificamente definita
poesia sui generis, questa prima binomiale esperienza del nostro
estense-salernitano scrittore. Binomiale, in quanto ai versi è abbinata una
sorta di didascalico, assiduo accompagnamento (non c’è componimento che non sia
preceduto da tale supporto), rigorosamente in prosa.
In primis risalta un originale
aplomb all’insegna d’un estemporaneo modello letterario, talora non dissimile
all’apàllage, valutato nel contesto poetico. Estemporanea originalità che si
connota già a partire dalla spiazzante nonché disarmante
auto-Prefazione/Presentazione, verificabile nella strutturazione del linguaggio.
Ma l’intento, dichiaratamente
predefinito fin dall’incipit, è il confezionamento d’una raccolta organica,
continua, che mira ad una ben bersagliata finalità, intravedibile in un
continuum niente affatto banale.
Più nello specifico, di che
tipo di poesia si tratterebbe?
Intimisticamente parlando, sono
«poesie che ritengo – è il medesimo poeta a svelarlo al suo ipotetico lettore –
una specie di scaccia-incubi o acchiappasogni […] le mie follie [che] racchiudo
su carta e ve le dono con gioia!!!», cfr. p. 7.
Programmaticamente, è la
rivelazione di un trampolino di lancio che eleva, da un’apparente puerilità, la
più calda manifestazione di un cuore che vuole assurgere a maestro di
puerperali, poetici sentimenti. Chiede, con lucente esteriorità, Zairo,
rivolgendosi alla persona di maggior fiducia, che mai ne tradirebbe le
intenzioni: «Mamma, come si fa a scrivere una poesia?». Domanda scontata, la cui
risposta sta già nella testa del giovane intraprendente poeta. La risposta che
ne conseguirà poteva anche essere diversa, ma è comunque esplicativa ed alquanto
efficace, e soprattutto indice di una latente forma di poetica che sa essere
nella voce anche delle persone le più pratiche, le quali indossano i pani d’una
poesia vissuta piuttosto che cercata. «Semplice, bisogna vedere quello che in
realtà c’è e non si vede», p. 9. Questa la risposta, inequivocabile, che
deve uscire dalla bocca di colei che certamente gradisce, più che
disdegnare, d’avere un figlio impegnato nell’antica arte dei trovatori.
Si faccia attenzione a non
sottovalutare la portata d’una tale aprioristica enfasi. Nella poesia di Zairo
Ferrante è implicito un sottile percorso dal carattere psicoterapeutico, con
freudiane sfumature, che ne ingrandiscono lo schermo critico.
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Recensione |
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