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Il libro raccoglie in pratica l’opera omnia (copertine incluse, all’interno, in bianco e nero) dell’autrice ferrarese Cristina Venturini, con l’aggiunta di nuove, fresche considerazioni circa il sociale. Quel sociale esistenziale che l’ha, fin dall’inizio della sua ricerca letteraria, attratta. Movente è stato, certo, la perdita della madre, dopo una malattia-maratona, che la consumò progressivamente nel penoso arco di una decina d’anni (Testimonianza, Este Edition 2006). Ma, poi, le successive pubblicazioni (Frantumi di verità e Male dentro, entrambe Este Edition 2007), pur portando i segni d’un ampliamento sia critico (ogni volta spietato, nei confronti della Sanità ma altresì d’una presunta ipocrisia della gente verso la persona ammalata, intesa come soggetto sofferente) sia affettivo e sentimentale incentrato sulla dolorosa, tremenda nonché terminale e funesta esperienza della madre, hanno incluso, di volta in volta, le vicende più in auge delle contingenze che hanno fatto tappa tra il primo ed il terzo libro. «Qualcuno qualcosa deve sapere» mi spinge a proporveli in un solo volume perché possiate ancora pensare. Diverse apparenti divagazioni per tornare al singolo Male – irripetibile, unico, mai suscettibile di comprensione, rimanendo ciascuno uguale solo a sé, è quanto scrive la Venturini a pag. 5, ben conscia che: Se parli stufi – se taci peggio per te (cfr. p. 341). Così, tra una seconda ed una terza pubblicazione, non potevano non essere trattati i casi d’eutanasia, di Welby e di Terri Schiavo; come, adesso, in quest’ultimo, forse "definitivo" (a detta della nemmeno quarantenne scrittrice) libro, è stato preso in considerazione lo scottante caso di Eluana Englaro. Spigolature liminari, che stanno più tra la morte che la vita, evidentemente. Proposizioni su una vacanza o in ogni caso su un’epocale, conclamata carenza normativa dalle dimensioni mondiali, in bilico tra la fissazione-individuazione del concetto di eutanasia e di testamento biologico. Di conseguenza le fattispecie penali che contemplano i reati di omicidio e di suicidio dovrebbero essere sottoposte ad una oculata revisione e/o ampliamento dei relativi termini giuridici.

Di là dell’aspetto sociale tiene banco la performance del linguaggio. Oltre a quello scarno ed essenziale (diremmo quasi beckettiano), come osserva Riccardo Roversi in quarta di copertina, se ne registra un altro, ugualmente elevato, ricercato, che più che moderno è innovativo, originale. Un ibrido talora di dialetto e/o di neoapplicazioni della parola, tale da assumere una plasticità anche fuori norma. Sorta di organismi geneticamente modificati del vocabolario. Ed, in linea generale, si ha a che fare con delle "acrobazie della parola", sostenute dalla precarietà e dalla commistione del dialogo col discorso indiretto, da una parte; e del saggio col racconto, ma in qualche misura pure col teatro di prosa, dall’altra. Spesso, nella lettura, si ha la sensazione d’essere risucchiati dal clima del gossip. Ma, con l’attenzione a non scalfire minimamente la privacy, è un gossip impersonale, che non assegna mai, a nessuna ironica vicenda, un’identità precisa.

Recensione
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