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Fabrizio Resca, ancora, con quest’ultimo libro, ripercorre itinerari di viaggio intensamente vissuti un po’ in tutti i Paesi del mondo. Europei e non. Di Cuba, in particolare, riproduce esperienze profonde, che lo hanno portato vicino a Fidel Castro ma altresì a ripercorrere i fantasmi di Hemingway, nel tentativo di ricostruire motivazioni e suggestioni che ne hanno reso immortale la scrittura.

Occorre pure precisare che l’opera è divisa, oltreché nella varietà dei sottocapitoli, in due principali parti, di cui la prima fa esclusivo riferimento alla terra natia di Resca, l’Alto Ferrarese. Ed ad essa collegata, lo scrittore ripercorre una memoria (vera o fasulla che sia, tratta cioè, nel secondo caso, da un individuo io narrante altro dall’orbita strettamente soggettiva, non implica assolutamente nulla di diverso da quello che è il piacevole risultato narratorio) densa di folclore, d’antiche tradizioni ormai in disuso, di affetti più o meno stretti (dalla nonna agli amici) nonché d’una materialità, spesso radicata ad un materico sacrale supportato da odori e sapori incamerati nei sensi piuttosto che nel recupero della mente. Un materico la cui buona parte d’esso, nella dimensione topografica tutta incentrata sul prismatico microcosmo dell’unica Piazza paesana, è tumulato nelle rilevanti variazioni urbanistiche ed architettoniche, passato nell’oblio, sepolto dalla lieve, costante polvere d’un passato rimosso dalla frenetica, quotidiana proiezione in un presente via via deprivato d’appendici mnemoniche, in quanto coinvolto in spazi ormai atemporali. Quasi favola. Un passato che, pellicola dopo pellicola e, poi, strato dopo strato, s’è sedimentato, è divenuto granitico come l’indifferenza.

Ma, nonostante la prima parte autoctona, il viaggio è, a quanto sembra, il motivo clou che spinge questo scrittore a cimentarsi sia in poesia sia in narrativa. Con esiti ogniqualvolta tutt’altro che deludenti; spesso molto interessanti. E quest’ultima opera non è da meno.

Credo che sia importante chiarire che, per come si snoda il parlato e per com’è strutturalmente impostato l’insieme degli scritti, il costrutto dev’essere letto come una sorta di diario. Per quanto non si confaccia troppo alle intenzioni dell’autore, volente o nolente è un diario. Magari non proprio dalla prima pagina all’ultima. Non sono infatti infrequenti intervalli di carattere prettamente esplicativo- saggistico. Ed ancor più ricorrenti sono le citazioni di famosissimi letterati, non solo in epigrafe ad inizio di capitolo o di paragrafo. La scrittura di Resca, oltre che per l’argomento ‘viaggio’, si caratterizza, giustappunto ed altrettanto indiscutibilmente, per il richiamo di illustri personaggi, non esclusivamente scrittori, sulla base delle loro eloquenti affermazioni. Un diario probabilmente sui generis, anche per il dichiarato fatto, stando a quanto preannunciato dal Resca, che potrebbe esserci un’interposizione del soggetto narrante. Ma non di meno di diario si tratta. Nella lettura, l’idea che perviene all’utente è esattamente questa. Inoltre, tra tanti fogli sparsi, quei due mirabili, finali taccuini-moleskine che, similmente a quanto ne fecero uso Chatwin, Van Gogh, Picasso ed il medesimo Hemingway, la dicono lunga in proposito. E Resca ne accenna smentendosi inconsapevolmente. Posso affermare, ben conoscendo le variegate collane dell’Editrice (Este Edition), che è l’ulteriore denotazione d’un carnet de voyage che farebbe invidia a qualsiasi altro editore. Però, questa digressione, neanche tanto digressiva, serva solo da precisazione. Senza voler togliere assolutamente nulla alla bellezza ed ai subliminali richiami che lo scrivere di Resca suscita nel lettore. Come sempre!

Recensione
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