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«L’acqua sciabordava contro il fasciame consunto della barca. Nei primi riverberi dell’alba si intravedevano i falbi cespugli dei falaschi, oltre i quali le colline lontane iniziavano a tingersi di un cupo azzurro». Siamo sul lago di Massaciuccoli dove il cielo, all’alba, schiarisce e si riflette sulla superficie di un’acqua sporca e quasi immobile, se non fosse per una leggera brezza che l’increspa, «specchio di antichi e selvaggi enigmi» di una quotidianità fatta di miserie umane e materiali, di sofferenza e rassegnazione. Sono enigmi di tono sentimentale e lirico, mesto e malinconico che celano il compianto per la condizione d’infelicità latente nel piccolo borgo, dove solo le note dolci e languide del maestro Puccini sembrano – perché, poi, ogni suo melodramma si chiude sempre con un tragico finale – offrire pace e ristoro all’anima.

Un’elegia provinciale, dunque, questo distillato di prosa e poesia con cui Micheli, giocando sulla differenza tra amore sensuale e amore ideale, scioglie l’enigma di casa Puccini: da un lato, rivela la segreta relazione tra il maestro e la sua amante storica, Giulia Manfredi; dall’altro, rende giustizia all’umile cugina di lei, Doria, la «servetta» che, accusata ingiustamente dalla moglie del compositore, trova nel suicidio l’unico modo per affermare la propria illibatezza. Nella morte, come precisa l’editore Baroni nella sua squisita Postfazione, Doria «si riprende vita e dignità, e quell’abbraccio che meritava», diventando «un’eroina». Lei che, spiega Micheli, «si sentiva subalterna al borghese Puccini» con il quale, invece, «la cugina seppe instaurare un rapporto paritario tenendogli testa e reclamando un amore fra uguali».

C’è di più: il romanzo, il cui andamento ricorda quello di un thrilling carico di suspense ed emotivamente coinvolgente, crea un affascinante equilibrio fra generi letterari contigui e si presta, allora, a più chiavi d’interpretazione e di lettura.

Siamo di fronte a un saggio storico (la vicenda si svolge tra l’agosto 1908 e la fine del gennaio 1909) e sociale che offre uno spaccato di vita locale, provinciale, appunto, a Torre del lago, dove attorno alla chiesa si tesse l’ordinario vivere di una variegata gerarchia umana. Ad un buon parroco, il «mansueto» don Giuseppe a mezza strada tra il Don Abbondio manzoniano e il Father Brown di chestertoniana memoria, il compito di svolgere l’analisi introspettiva dei personaggi e di scandagliarne le coscienze nel tentativo di trovare una giustificazione accettabile e una soluzione accomodante, se non proprio «la più valorosa», ad un problema troppo delicato «che è meglio lasciare decantare».

Ma anche ad un romanzo biografico, nella ricostruzione della vicenda personale e romanzesca di Puccini – marito e musicista, ma anche fumatore (…di toscani) e, soprattutto, cacciatore (…e non solo di folaghe e germani) – che nel borgo cerca un’oasi di pace dove straniarsi dalla fama che lo sta avvolgendo per amare e creare.

L’opera, infine, può leggersi come una una love story nell’avventura di Fosca, contorta figura femminile che «non lesina energie nel procacciarsi amanti» (anzi, proprio da una sua illecita notte d’amore si genera la tragedia che sostiene la narrazione); nel dramma della gelosia di Elvira, la moglie del Maestro, che denuncia pubblicamente gli amori illeciti del marito, compromettendo l’innocente Doria e suscitando la curiosità e le chiacchiere della gente; nella fuga dal lago e dall’Elvira di Puccini che trova in Sybil, a Londra, l’angelo di comprensione e di salvezza fra le cui braccia rifugiarsi, ma ancora una volta innescando dubbi sulla sua fedeltà coniugale (come dire una love story nella love story).

Tutto questo l’io narrante di Micheli lo ottiene con la sterniana capacità d’intervento nell’opera, di cui è omnisciente direttore, attraverso un sottile dialogo con il lettore, che coinvolge nella conduzione del lavoro.

L’inserimento di autentiche descrizioni naturali che assecondano e incorniciano lo stato d’animo dei protagonisti, la sapiente ricerca quasi ossessiva di un lessico innalzato per scelta, il costante ricorso al vernacolo viareggino-torrelaghese (evidenziato in corsivo e opportunamente spiegato in nota), l’abbondanza di volute citazioni in altre lingue e di notazioni culturali a piè di pagina fanno il resto e ci consegnano un intenso melodramma di memorie familiari in cui la verità storica diventa romanzo.

Recensione
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