| |
Giovanni Formisano, poeta e commediografo
“E vui durmiti ancora” compie 100 anni
La secolare canzone del catanese
Giovanni Formisano venne cantata, di notte, al fronte della Carnia da un
soldato siciliano, durante la prima guerra mondiale. E invece di scrosciare
cannonate, gli austriaci applaudirono.
Il trapanese Marco
Scalabrino, autore di molteplici raccolte di poesia dialettale siciliana,
tradotte in diverse lingue europee, nonché noto saggista, ha pubblicato di
recente, per conto delle Edizioni Drepanum, un volumetto dedicato al poeta e
commediografo catanese Giovanni Formisano, autore, fra l’altro, della
celeberrima canzone “E vui durmiti ancora”. Grazie a questo libro, quindi,
apprendiamo che l’autore di quella che è senz’altro una delle più belle
opere del repertorio folcloristico siciliano, nacque a Catania il 24 Ottobre
1878. Figlio di un appaltatore (Davide), Giovanni si diplomò al Tecnico
Commerciale di Catania e svolse attività quale titolare di un esercizio
commerciale di edilizia. Sposatosi con una insegnante di Cagliari, ebbe tre
figli. Fu vice direttore del giornale satirico “Lei è Lario (Catania)”.
Scrisse pure per altri periodici fra i quali “Po’ tu cuntu” (Palermo). Fu
autore di diverse commedie che affrontano, in chiave satirica, temi sociali
e fu scrittore di canzoni siciliane.
Per quanto riguarda la
poesia, scrisse le seguenti raccolte: Mennula amara, 1905, Carizzi
di tula, 1907, Jurnati senza suli, 1920, Canti di terra
bruciata, 1927, Canzuni senza patri e senza matri, 1934, Setti
lacrimi, 1941, Vecchi cicatrici, 1951, Campani di la Virmaria,
1955. Sulla produzione poetica di Giovanni Formisano, Scalabrino riporta,
fra gli altri, il giudizio che Giovanni Puglisi lesse nell’Aula Magna della
Facoltà di Lettere della Università di Catania nella sua relazione dal
titolo “Poeti catanesi della prima metà del Novecento”il quale
asserisce: “Fin dal suo esordio il Formisano si rivelò poeta sentimentale,
appassionato, schietto, ma anche amaro e, perfino, ironico (...) Dal punto
di vista dei contenuti e della tecnica, egli ci appare poeta monocorde,
sovrabbondante, ripetitivo, ma dalla versificazione scorrevole e musicale.
Il suo dialetto è semplice, immediatamente comprensibile e pressoché esente
da ricercati arcaismi linguistici”.
Dai testi contenuti
nel libro, in effetti, si nota un ricamo artigianale dei versi. Un periodare
con voli non particolarmente brillanti. Niente, cioè, che eguagli e
tantomeno superi il brano che lo ha reso celebre. E vui durmiti
ancora, lirica alla quale il nome di Giovanni Formisano è
indissolubilmente legato, musicata da Gaetano Emanuel Calì, merita (dice
Scalabrino) una esclusiva ribalta. Sergio Sciacca la definisce: “trobadorico
deferente rispetto della signora amata”. In effetti, personalmente trovo che
il testo ha il rigore formale e la grazia dei testi della duecentesca scuola
poetica siciliana. Di certo, nel 1910, il testo piacque pure al giovane
maestro catanese Gaetano Emanuel Calì il quale dirigeva a Malta
un’orchestrina d’intrattenimento dei militari inglesi. Piacque talmente
tanto che mentre era di ritorno da un viaggio di lavoro, una notte, nella
sola durata del viaggio, ne compose lo spartito per musicarlo. Allora non
esisteva la radio. Così per diversi anni quella canzone restò nota a pochi.
Il professor Santi Correnti cita un singolare fatto: “Sul fronte della
Carnia, durante la prima guerra mondiale, una sera, al chiaro di luna, un
giovane soldato siciliano intonò la canzone. Il silenzio che aleggiava dava
voce solo alle note della mattinata. Al termine dell’esecuzione si sentirono
le espressioni di apprezzamento degli avversari austriaci: non arrivarono a
capirne il senso, ma rimasero incantati dalla bellezza della musica”. E
Marco Scalabrino aggiunge: “Malgrado tutto ciò la versione musicata rimase
solo un progetto e dovette attendere il 1927 per essere finalmente incisa a
Firenze, presso lo studio Mignani. Una sera, al Teatro Sangiorgi di Catania,
la soprano Tecla Scarano chiese al musicista (che in quel tempo era il
direttore artistico del teatro) di potere cantare quel brano. L’esecuzione
della Scarano fu tale che il pubblico entusiasta si innamorò subito della
canzone.
E vui durmiti ancora
Lu
suli è già spuntatu di lu mari
e vui,
bidduzza mia, durmiti ancora,
l’aceddi
sunnu stanchi di cantari
e
affriddateddi aspettinu cca fora,
supra
ssu balcuneddu su pusati
e
aspettanu quann’è ca v’affacciati.
Li
ciuri senza vui non ponnu stari,
su
tutti ccu li testi a pinnuluni,
ognunu d’iddi non voli sbucciari
su
prima non si grapi ssu balcuni,
dintra li buttuneddi su ammucchiati
e
aspettanu quann’è ca v’affacciati.
Lassati stari, nun durmiti cchiui,
ca
‘nzemi a iddi, dintra sta vanedda,
ci
sugnu iù, c’aspettu a vui
pri
vidiri ssa facci accussì bedda,
passu
cca fora tutti li nuttati
e
aspettu sulu quannu v’affacciati.
| |
|
Recensione |
|