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Intellettuali, scrittori ed artisti nei 'Cafés' letterari, 'Bistrots' e 'Caves'
della Parigi degli anni Quaranta/Cinquanta del secolo scorso

Sul finire dell’anno 1945 nei popoli che avevano subito la tragedia e gli orrori di una guerra cruenta e spietata crebbe la volontà di ritornare alla vita normale e con essa alle attività intellettive ed artistiche. In questo crogiuolo di idee nacque l’interesse politico-economico di superare le incertezze sull’avvenire dei popoli per aprire le proprie speranze in un’Europa che puntava verso l’esperienza delle Unioni.

In questo contesto si erano svegliate voglie di vivere e movimenti culturali e in particolare si raccontava delle passioni che animava un gruppo di intellettuali nei dintorni del ‘Quartiere Latino’ e una certa spregiudicatezza nei costumi e nelle mode di gruppi dell’avanguardia che si riunivano al suono di sfrenate musiche jazz in cantine buie, fatiscenti attorno al crocevia di Saint Germani-des-Prés.

Era noto che la Francia sin dal 1935 aveva accolto oltre trentamila rifugiati politici, in maggior parte artisti e intellettuali. Parigi, la città dei diritti dell’uomo, godeva di una reputazione di generosità nell’accoglienza e molti artisti vi avevano soggiornato già qualche anno prima, all’epoca del ruolo celebrativo di Montparnasse. Molti dei profughi trovarono conforto e comprensione all’angoscia del domani da Gide in rue Vaneau e da Malraux in rue du Bac, strada alla quale appartenevo dopo il mio trasferimento dal modesto Hôtel d’Orient negli anni Cinquanta.

Già si sapeva che gli intellettuali, i pittori, gli artisti frequentavano assiduamente Saint-Germain-des-Prés e che lì elaboravano le opere di cui parlava il mondo intero e che la cui eco aveva svegliato in me l’assillo del ‘viaggio-studio’.

Da non dimenticare che Parigi alla vigilia degli anni Trenta è stata la capitale mondiale di tutte le arti: impressionismo, cubismo, simbolismo, surrealismo e che le avanguardie sono state tra Montmartre e Montparnasse. C’erano stati Paulbot, Utrillo, gli immigrati del ‘Bateau-Lavoir’, i buontemponi del ‘Lapin Agile’, i poeti della ‘Closerie des Lilas’ con i loro abiti a volte stravaganti, le loro feste incredibili, le provocazioni ai ‘borghesi’, le risse e, ancora, la Ruche e l’Ecole de Paris, le cravatte di legno di Vlaminck, i cappelli di Braque, le tute blu di Ricasso e di altri spagnoli. In quel periodo, “gli Americani ritrovano in Europa la gioia di vivere di cui il probizionismo li ha privati. I Russi applaudono Diaghilev e i suoi fasti”[1].. Artisti di tutte le nazioni riempiono i marciapiedi. S’incontrano Picasso, Joan Mirò, Salvador Dalì, Manuel Angelo Ortiz, Juan Gris, Luis Buňuel, Magritte, Paul Eluard, André Gide, il signore di Vaneau che suona al piano Bach e Schumann e Philipe Saupault e solo più tardi verranno Sartre, Camus e quelli della ‘Banda Prévert’ In particolare al Bateau-Lavoir, la vecchia fabbrica di pianoforti trasformata in colonia per artisti in miseria, Picasso aveva scritto sul suo atelier ‘Au rendez-vouz des poètes’. Vissero o passarono di lì i geni dell’arte, pittori e poeti insieme; artisti festaioli e creativi: Guillaume Apollinaire, Max Jacob, André Salmon, George Braque, André Derain, Van Dongen, il doganiere Rousseau, Erik Satie e tanti altri.

Sarei rimasto ancora a Parigi per verificare se nel dopo guerra col ritorno alla normalità, dopo il silenzio, le mortificazioni e l’annullamento d’ogni attività culturale, la città sarebbe ritornata, fedele a se stessa, quella conosciuta nel mondo intero, cioè quella della ‘Belle Epoque’ e degli anni ruggenti della letteratura, della pittura e dell’arte degli anni Trenta. Montparnasse con le terrazze del Dôme e della Rotonde, nonché le Torpedo e le Bugatti, che passavano aristocratiche già nel 1935, era stata abbandonata dagli artisti che, dopo Montmartre, la resero celebre.

Abitavo in una zona veramente privilegiata, tra Montparnasse-Bienvenue e Saint-Germain-des-Prés, tra le vie più ricche d’umori dei ‘chansonniers’, i ‘boulevardiers’, i teatri, gli studenti e la moltitudine dei piccoli ristoranti (‘Bouillon’, ‘Bourbon’, ‘Vieux Paris’, ‘Les Assassins’, ‘Le Petit Saint-Benoît’, ‘la Quatrième Republique’, ‘Chéramy’, ‘Calvet’, ‘Tiburce’, ‘3 Canettes’ e i ‘Gourmets’) attorno alla rue du Buci; le mie passeggiate erano tra il ‘Boul St. Michel’, i giardini du Luxembourg ed i pensosi soffi di pensiero che emanava rue Soufflot. Non lontana pulsava la vita degli iniziandi studenti francofoni del complesso dell’Alliance Française. Quel pezzo di mondo mi fu così caro che vi ritornai negli anni ‘Cinquanta’ e lì, prima come residenza di lavoro, non più squattrinato, presi in affitto uno ‘studio’ in rue de Rennes, proprio nei pressi dell’incrocio col famoso Boulevard Saint-Germain-des-Prés; in seguito sempre più spesso, vi feci brevi e lunghi soggiorni di studio e di ‘loisirs’, secondo il pensiero di Gide.

Volevo conoscere i protagonisti di quell’età favolosa e strana che si svolgeva all’interno e all’esterno dei caffè, che la storia e la tradizione designarono come ‘letterari’ quali: “Les Deux Magots”, il “Café de Flore”, la “Brasserie Lipp”. Seduti al tavolino, ordinato anche un solo caffé o qualcosa da mangiare o da bere, letterari ed artisti occupavano il tempo a chiacchierare con gli amici, a scrivere o a leggere i giornali, ma c’era chi disegnava e chi guardava lontano.

Nel caffè, ora detto “de Flore”, prima che divenisse oggetto di attenzione e di culto da parte degli scrittori e degli artisti, agiva una orchestra femminile ed era di ambiente totalmente diverso dal tempio del ‘pensiero contemporaneo’ divenuto dopo gli anni Quaranta. I componenti della ‘bande à Prévert’[2], via via che conoscevano il successo, cominciarono a frequentare il “Café de Flore” e furono loro a lanciare realmente il locale. Soggiornarono Jean-Paul Sartré, Simone Signoret e il fidanzato Daniel Gélin, ma i più assidui furono Raymond Queneau. Robert Desnos, Eluard, Camus e il regista Jean Vilar.

I personaggi che lo frequentavano, le vicende che si svolgevano, gli scherzi, le burle che si consumavano nel locale tra i tavoli del Caffè, la presenza di Jean-Paul Sartre e del suo gruppo di amici, fecero la notorietà del “Flore” ed anche, si disse, dello scrittore dell’esistenzialismo. Ma non fu il solo locale nel quale si svolgeva la vita degli intellettuali e degli artisti. Le storie dei personaggi, le follie e gli incantesimi di quel periodo irripetibile, in parte da me conosciuto, sono stati raccontati con dovizie di particolari nel libro postumo di Boris Vian.[3]

“Les Deux Magots”, il più antico tra i caffé letterari, creato nel 1880, trae il suo nome dall’insegna di un noto negozio di tessuti e biancheria. Dal 1885 svolge un ruolo importante nel mondo culturale di Parigi. Oltre agli incontri celebri tra Verlaine, Rimbaud e Malharmé, ha accolto nelle sue sale André Gide, Jean Giraudoux, Pablo Picasso, Fernard Léger, Jacques Prévert, Ernest Hemingway, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Francois Mallet e tanti altri. Raccontano che sia Joyce sia Valéry abbiano visitato il celebre caffè e che abbiano bevuto in silenzio. Ancora, prima degli esistenzialisti, che certamente immortalarono le storiche ed astruse notti delle ‘caves’, “Les Deux Magots” accolsero i surrealisti sotto l’egida di André Breton. Nel 1933, lo stesso giorno in cui lo scrittore André Malraux ricevette il premio Goncourt per il suo primo libro “La Condition humaine”, Martinne e Roger Vitrac ebbero l’idea di creare il premio letterario denominato “Deux Magots”. E’ il successo e l’eccletismo dei protagonisti distingue il premio e fa la fortuna e la fama del Caffè. Tra i ‘Palmarès’ dei laureati troviamo, per citarne solo alcuni, Raymond Queneau per “Le Chiendent” e in seguito Antoine Blondin, Simonin e Fernard Pouillou, gli uni diversi dagli altri, per astrazione culturale.

Anche la “Brasserie Lipp”, sempre sul Boulevard Saint-Germain, nasce nel 1880 però solo nel 1920 con la conduzione di Marcellin Cazes acquista fama presso ambienti politici-letterari e ne mantiene nel tempo la notorietà e, in seguito, verrà frequentato dal mondo artistico e da quello giornalistico. Anche Antoine de Saint-Exupéry è tra i frequentatori. Questo tipico locale dalla facciata esterna in legno su due livelli risale, al XIX secolo; gli arredi interni sono tardivi, però le otto maioliche della prima sala, datate 1900, sono firmate dal ceramista Léon Fargue; l’ambiente è caratteristico: decorazione in maiolica alternata da enormi specchiere alle pareti, soffitti in legno alleggeriti da suggestive raffigurazioni e dipinti artistici, lampadari in ferro battuto.

Passeggiare lungo le rive della Senna è un esperienza emozionante, sentimentale e certamente culturale. I quais dei ‘bouquinistes’, notissimi quelli ‘de la Mégisserie’ e ‘de Conti’, sono il paradiso degli appassionati di vecchi libri, stampe e curiosità. Le bancarelle di questi non comuni librai di strada costituiscono senza dubbio oggi più di ieri, la più vasta e varia biblioteca del mondo. Mi fermavo per ore a sfogliare libri ben tenuti e tomi dalla carta ingiallita, acquistavo testi a me cari, anche se dovevo tenere d’occhio la spesa. Mi spingevo verso la rue Saint Jacques, nota perché vi passavano i pellegrini che si recavano al Santuario di San Giacomo di Campostella, e riflettevo su un mondo che sconoscevo. Le mie soste preferite erano in un bar di Pont Royal[4], caro a J.P.Sartre ed ai suoi discepoli; lì rimuginavo con i pensieri davanti ad una pinta di fresca birra. Ritornavo sui miei passi, frettolosi e lunghi, per addentrarmi nelle viuzze del Buci passando per rue Cardinale e rue de Fürstemberg per una sosta nella piazzetta ombreggiata da paulonie e illuminata da un lampione tinto di bianco. Stanco di pensieri risalivo la rue Jacob per ritornare a Saint-Germain-des-Prés. Nei pressi, in rue Sabot, cenavo al suono di una chitarra classica gustando specialità spagnole. In fondo, mi ritrovavo a casa.

La vicinanza del teatro del Vieux-Colombier, della libreia ‘Le Divan’ e della ‘Nouvelle Revue Française’ aveva conferito al quartiere con i caffè letterari e le ‘caves’, intensamente animati, un’atmosfera tale da sentirsi ‘à la page’ senza l’assillo di una frequentazione regolare, come del resto era saltuaria anche quella praticata, con rispetto e attenzione, da molti letterati ed artisti. Si passeggiava e si guardava e talvolta si entrava in uno di quei celebrati caffè per una sosta di pensiero o, semplicemente, di curiosità.

La vita parigina degli intellettuali del tempo migrava altrove, anche se i caffè letterari non cessarono di esistere e di convogliare curiosi e turisti, ma gli intellettuali, gli uomini celebri che fecero la fortuna e la gloria dei “Deux Magots”, del “Café de Flore” e della “Brasserie Lipp” si erano trasferiti nei piccoli bar nascosti, in “bistrots” poco conosciuti, ma degni di esserlo, in caffè dall’aspetto ordinario. Qualche tempo prima, al n. 27 di rue de Fleurus, dove abitava Geltrude Stein, arrivarono i mecenati e lì comparve Hemingway, primo testimone della ‘generazione perduta’. Nel salotto di Gertrude Stein, tra gli altri artisti che lo frequentavano Matisse sedeva accanto a Picasso. Altri, per proteggersi dalla curiosità, scesero, nelle umide ed insalubri cantine. Ecco, all’incirca, come nacquero le ‘caves’. Ancora prima però avvenne l’esperimento del ’Bar Vert’ di rue Jacob, dove già sin dall’agosto del 1944 si riunivano pittori, cineasti e giornalisti. Era l’unico luogo di Parigi in cui si serviva il cappuccino ed il fautore di quel rito era stato Jacques Prévert. Solo in seguito vennero le ‘caves’ e la più conosciuta e famosa dopo la liberazione di Parigi è stata il “Tabou” di rue Dauphine: un ‘bistrot’ insignificante con la scritta in lettere gialle sulla facciata. Tutte le sere alcune celebrità del mondo della musica, delle arti e della cultura e un nucleo di personaggi molto conosciuti nel mondo che gravitava intorno allo spettacolo d’ogni genere, sarte e giornalisti e anche quelli definiti spregiativamente “caca-carte”[5] (è il fenomeno di Saint-Germain-des-Prés, ‘giornalisti’ che deformavano le notizie raccolte, ampliando i fatti negativi), studenti e musicisti americani, svedesi, inglesi e brasiliani, si davano appuntamento tra il fumo intenso e in un baccano infernale. Il successo del “Tabou” è galoppante e già nel 1946 l’intellettualizzazione è notevole. S’incontrano poeti come Toursky, Camille Bryen, de Beaumont; pittori come Desseau, Wols; scrittori quali Queneau, Sartre, Merleau-Ponty, Lemarchand, Camus, Pichette, Kaplar e nasce anche l’esistenzialismo o, meglio, la moda ‘esistenzialista’ i cui esponenti di quegli anni furono essenzialmente, i filosofi Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Maurice Merleau-Ponty. Anche il linguaggio è originale: “zazous” sono chiamati i fondatori delle ‘caves’ e tra questi v’è l’imprevedibile animatore e jazzista Boris Vian.

Sulla scia di questi avvenimenti tra il mondano e il culturale o d’intrattenimento con uno specifico repertorio jazz, nasce il “Club du Tabou” dove si esibì anche il trombettista Guy Longnon e pizzicava la chitarra e cantava con voce straziante i blues, le ballate inglesi e soprattutto americane Teymour Nawab, più noto sotto il nome di guerra di Timsy Pimsy. Era il club dove tutti, gli amici degli amici, venivano a “fare una jam-session”; a “fare un boeuf” dicevano riferendosi al noto locale parigino “Le Boeuf sur le toit”6 dove si suonava dell’ottimo jazz francese al suo nascere. Quel Jazz nato a New Orleans7, ‘douceur de vivrè’, il cui motto è sempre stato: “Laissez les bons temps roulez”, come dire approfittate di questo paradiso in cui banjo, violini e altri strumenti, oltre la tromba, crearono un mix di note rogtime e blues, suonate già dall’inizio del Novecento specialmente nei bordelli del quartiere di Storyville o al Vieux Carré in locali istutizionali come “Preservation Hall” dove avvenivano esibizioni improvvisate di Swamp-pop mentre, per le strade anguste del centro antico della ‘The Big Easy’ si esibivano le ‘Marching Bands’ in accompagnamento ai funerali dei jazzisti al suono di ‘When the Saints Go Marching In’. Ma New Orleans, la città comprata e presto venduta per finanziare le avventure napoleoniche, ha anche la sua protettrice non ufficiale, quasi segreta, la bellissima regina creola del ‘Voodoo’ Marie Laveau, sepolta nella città costruita sul Mississippi che dalla ribellione di “Dixieland” ha tratto il suo carattere e il suo fascino di vivere8.

Il vero successo del “Tabou” era la presenza del trio ‘Gréco-Cazalis-Doelnitz’. Marc Doelnitz conosceva bene tutte le duchesse di Parigi e la gente del ‘bel mondo’ di cui si prendeva gioco imitandole nei modi più incredibili. “Juliette Gréco ed Anne Marie Cazalis si trascinavano dietro i loro pantaloni neri tutti i fotografi di Parigi e di altrove”, come si leggerà nell’opera postuma di Boris Vian9.

Presto, considerata la frequenza e il numero crescente dei clienti, s’impose l’apertura al n. 13 di rue Saint Benoît il “Club Saint-Germain-des- Prés” e il suo bar-libreria, riconoscibile dalla testa di cavallo in cartapesta e una donna barbuta come insegna. Le ‘Notti’ al Club per attirare i clienti furono favolose o si ritennero tali. Qualche indicazione: ‘Notte 1925’ (anno che mi ricordava la data di nascita), ‘Notte dell’Innocenza’, ‘Notte del Cinema’.

Vivevo giornate straordinarie e quasi irreali, si celebravano irripetibili serate di jazz in onore di Duke Ellington con l’afflusso dei più noti musicisti neri americani. Ai vecchi e conosciuti locali, club, cabaret notturni si aggiungevano nuove realtà, non soltanto ‘caves’ come il “Méphisto”, ma anche la “Rhumerie Martiniquaese” oppure altri luoghi eccentrici quali il “Vieux-Colombier”, “La Rose Rouge”, che offriva spettacoli di varietà e lanciò i Frères Jacques in calzamaglia o il ‘Catalan’, il ‘Saint-Yves’ ed anche il ‘Quod Libet’, frequentato dagli ‘chansonniers’, ma che ebbe effimera esistenza.

Boris Vian, nel libro citato, racconta fatti avvenuti ed incontri, annota aneddoti facendo rivivere quel mondo favoloso con viva attualità; c’informa e si confessa tessendo le strade del quartiere e sostando nei caffé illustri, ma anche se la spassa tra i fumi, lo sbalordimento, il dolce fracasso delle musiche, l’arditezza del jazz nel nuovo stile ‘Be-bop’, nato durante la seconda guerra mondiale, che “si riallaccia al blues in contrapposizione ai clichés della produzione commerciale della ‘Swing era’, ed è caratterizzato da una rivalutazione dell’improvvisazione”. E’ l’epopea degli ‘zazous’ e del loro principale rito: i ‘surprise-parties’. Nelle ‘caves’ si balla il ‘jitterburg’ e il ‘boogie-woogie’; si diffonde il trucco lunare di Juliette Gréco e il vestirsi diventa qualcosa d’impossibile. Si creano gli aforismi più folli, dementi, schiocchi, ma credo il più banale e vero fosse: “un esistenzialista è un uomo che ha Sartre in bocca”.

Il “vulcano” Boris Vian, notissimo jazzista, cantante, traduttore, già celebre al di là di Saint-Germain-des-Prés di cui fu uno dei grandi animatori, se scandalizzò col suo romanzo “J’irai cracher sur vos tombes” (1946) fu anche il romanziere d’invenzione e ironico de “L’ècume des jours”; (1947) e pure un poeta insolente e “dechiré” che giocò con il linguaggio come nelle “Cantilènes en gelée” (1949) e nella raccolta postuma (1962) “Je ne voudrais pas crever” e anche nelle canzoni che tutti conoscono. La più nota “Le déserteur” (1954), scritta tre mesi prima della caduta di Dien-Bien-Phu e otto mesi prima dell’insurrezione algerina, fu censurata. Scrisse opere di teatro, di jazz, di cinema e romanzi firmati con lo pseudonimo di Vernon Sullivan. Quest’uomo poliedrico e irripetibile, morto a soli 39 anni nel 1959, si può definire il “Principe” di Saint-Germain-des-Prés.

Considerato che i protagonisti di questo mondo, anche se in tempi diversi e con carature differenti, sono stati molti; di qualcuno ricordo aspetti salienti o curiosi.

Jean-Paul Sartre, filosofo, romanziere, autore drammatico, saggista; dal 1940 si era dato da fare per ripudiare l’idealismo, per strapparsi al suo individualismo originario e vivere la Storia vicino al marxismo auspicava l’alleanza con i comunisti. Già negli anni Trenta (1930) e poi oltre correva in Francia la frase: “se non appartieni a Stalin, non sei un intellettuale”. Scrittore noto per almeno tre sue opere filosofiche: “L’Etre et le Néant” (1943), “Huis clos” (1944), che è ritenuta il suo capolavoro, e “La critique de la raison dialectique”, opera uscita nel 1960, dopo la liberazione fonda la rivista “Les Temps Modernes”. Altri lo ricorderanno per il suo impegno anche nel campo sociale, artistico e culturale. Come filosofo è noto per “L’Etre et le Néant” (1942), “Existentialisme est un humanisme” (1946) e per “Imagination” (1936); come drammaturgo per “Les mains sales” (1948), “La P… respectueuse” (1946) e “Le Diable et le bon Dieu” (1951); come letterato per “La Nausé” (1938), “Le Mur” (1939) e “L’âge de la raison” (1945 – 1949). Dalla lettura dei suoi libri si scopre che l’impegno primo di J.P. Sartre è quello di valutare l’uomo analizzando fino in fondo la sua esistenza, anteponendogli le sue contraddizioni ed i suoi vicoli ciechi. Il suo esistenzialismo si pone come ‘umanismo’ in cui la libertà, responsabilità e scelta sono il banco di prova, i campi di pertinenza dell’uomo. In contrasto con se stesso l’uomo sartiano denuncia il suo fallimento, il suo non essere, il suo nulla. Però non tutto era chiaro a tutti. Il termine “esistenzialismo” era diventato di moda e tutti si autoproclamavano tali, Sartre, nel corso della sua conferenza del 1946, dal titolo “L’existentialisme est un humanisme”, precisò che la parola esistenzialista, data l’enorme risonanza e la marcata estensione, non significava più niente. Essa è destinata agli specialisti ed ai filosofi. Gli esistenzialisti possono individuarsi in due specie, cristiani ed atei: “hanno in comune di credere che l’esistenza precede l’essenza o, se volete, che bisogna partire dalla soggettività”. Ma non è qui il caso di entrare nella disamina del soggettivismo nei significati; “scelta del soggetto individuale per se stesso” e l’impossibilità dell’uomo di oltrepassare la “soggettività umana”. Per Sartre nel secondo significato v’è il senso profondo dell’esistenzialismo10. Ad ogni modo mi sembra opportuno sottolineare che l’esistenzialismo pittoresco, quello delle cave, come lo ha inteso la gente comune, ha ucciso, di fatto, l’esistenzialismo filosofico. Infatti ecco, in rapida sintesi, quanto scriveva “Samedi-Soir” il 23 settembre 194911: per il borghese, esistenzialista è: un modo di vestirsi, un modo di vivere, (di giorno: in alberghi poveri, in bar poco cari o presso tavolini all’aperto del “Café de Flore”; di notte: nelle ‘caves’ dove l’orchestra suona jazz stile New Orleans) e un modo, infine, di sentire e di pensare: mollezza, rifiuto al lavoro, gusto della sporcizia, appetito ai piaceri e agli amori sordidi. Celeberrimo il sodalizio umano, sociale, sentimentale con Simone de Beauvoir.12

Albert Camus, psicologo e moralista, notissimo autore del “L’Etranger” (1942), “Le Mythe de Sisyphe, essai sur l’absurde” (1942), “La Peste” (1947); ha scritto di teatro (Caligula, 1944), ha frequentato agli inizi sia il “Bar Vert” sia il “Tabou”. Il suo libro “L’Homme Révolté” (1951) non piacque alla direzione della rivista “Les Temps Modernes” (diretta da Jean-Paul Sartre) che fece una recensione severa. Di lì il litigio, i due si tolsero il saluto dopo botta e risposta sulla rivista stessa. Camus era idealista, anticomunista. Lottava per i grandi principi e in generale rifiutava di partecipare alle iniziative di cui Sartre s’impegnava. Camus difendeva sempre più risolutamente i valori borghesi che nel “L’Homme Révolté” emergevano.

Tra i personaggi-protagonisti del tempo scandito dal vento dell’esistenzialismo e della moda dei caffé letterari non posso non ricordare, anche semplicemente, alcuni tra coloro che promossero l’avventura culturale e mondana di Saint-Germain-des-Prés e che la sostennero con la loro costante presenza e la mantennero viva e affascinante con l’intelligenza e l’invenzione quotidiana del loro agire. Tra costoro un posto eminente lo occupa:

Maurice Merleau-Ponty, ordinario di filosofia, noto per la sua “Phénoménolgie de la Perception” (1945) e altre notissime opere, dirigeva di fatto “Les Temps Modernes” e contribuì per la sua presenza in tutti i luoghi di Saint-Germain-des-Prés a mantenere la confusione sul senso del termine esistenzialismo nel “debole cervelletto dei caca-carte”. Del resto i nemici di Sartre coltivarono gli equivoci che si erano creati attorno all’esistenzialismo appiccicando tale etichetta anche alla gioventù che frequentava il “Tabou” e la “Pergola”. Certa stampa non era di meno e non trascurava occasione per riferire delle zuffe, delle feste, degli “habitués” (scrittori, giornalisti, uomini politici) che frequentavano il “Tabou”; in tal modo la pubblicità sulle ‘caves’ s’ingigantì. Juliette Gréco, soprannominata Toutonne, e Anne Marie Cazalis (aveva anche ricevuto un premio “Paul Valery” per la poesia nel 1946) si vestirono alla “esistenzialista” mentre i musicisti delle ‘caves’ ed i loro fans avevano adottato la moda di Capri vestendo con giacche, camicie e pantaloni neri. Moda che si disse ispirata alla tradizione fascista!

Altri personaggi da non dimenticare sono:

Raymond Queneau, conosciuto come “enciclopedista dell’umore sconvolgente e poeta del quotidiano”. Linguista raffinato e studioso del linguaggio; sono celebri i suoi “Exercices de style” (1947), opera che è stata rappresentata con gran successo alla “Rose Rouge” con l’interpretazione della troupe in cui brillavano i Frères Jacques, quattro giovani cantanti, non volgari, che hanno innovato il genere di canzoni mediocri, Queneau sarà riconosciuto grande con “Zazie dans le métro” (1959), ma anche noto per il lungo poema sulla creazione e la storia del mondo: “Petite Cosmogonie Portative”. Romanziere con testi accattivanti e buone raccolte di poesie;

Simone de Beauvoir, compagna di Sartre, romanziere, memorialista, saggista, ma anche professore ordinario di filosofia; ha notevolmente contribuito a lanciare, assieme a Jean-Paul Sartre, tutto un mondo che ha girato attorno a Saint-Germain-des-Prés e, in particolare, alle rinomate ‘caves’. Premio Goncourt nel 1954 per l’opera “Mandarins”.

Tra tanti altri, il cui elenco sarebbe lungo, che circolavano come “veri cittadini di Saint-Germain-des-Pré” menziono i fratelli: Jacques-Laurent e Pierre Bost, il primo romanziere (“Le dernier des Métiers”, pubblicato dal solito Gallimard il cui direttore era Albert Camus), nonché sceneggiatore e traduttore; il secondo dei fratelli, Pierre Bost, romanziere e narratore di gran classe. Basterebbe ricordare qui che fu lui a fare accettare “La Nausée” a Gaston Gallimard. Anche la sua opera teatrale (“L’imbécile”) fu rappresentata al “Vieux-Colombier” nel 1923. Frequentò tutti i locali dell’epoca e scrisse anche un articolo sul “Lipp, i Deux Magots e il Café de Flore”.

Gravitarono in quel palcoscenico, che furono i luoghi (caffé, bistrots, ‘caves’, teatri e cabarets) del momento di Saint-Germain-des- Prés, tra gli altri: Simone Signoret, attrice con spiccato gusto per la letteratura, la musica e le arti, dove incontrerà Roger Blin, Marcel Mouloudji, Daquin, Marcel Duhamel. Robert Scipion, autore del romanzo-pastiche “Prête moi ta plume”, scritto nei caffé di Saint-Germain; Jean Cau, segretario di Sartre, autore d’opere letterarie non prive di fascino: “Maria Nègre”, “Le Fort intérieur”, (entrambi i poemi pubblicati da Gallinard nel 1948) e “Le coup de barre. Ha vinto il Premio Goncourt nel 1961; Jacques Douai, cantante non notissimo, il primo che lanciò quella ballata divenuta un ritornello: “Les feuilles mortes” di Prévert e Kosma. Si è esibito come cantante in tutti i cabarets del quartiere; Marcello Pagliero, attore (“Roma città aperta”, “Risorgere per amare” e “Dédée d’Anvers”), regista di “La notte porta consiglio” e di “Un homme marche dans le ville”. Autore pure di un documentario su Saint-Germain-des-Prés commentato da Raymond Queneau sulla storia delle ‘caves’. E altri tra cui: Jean Cocteau, lo scultore Alberto Giacometti, Henri Pichette, detto ‘l’apoeta’ che nel 1947 scrive, “L’Epiphanies” e, ancora, il ‘Lettriste’ Gabriel Pomerand e, naturalmente, Bernard Lucas il creatore di “Tabou”, ossia colui che ha pensato nel 1947 come una cantina del quartiere che ammuffisce sotto un bar di rue Dauphine si adatti alla nuova filosofia alla moda dell’esistenzialismo dove gli intellettuali della “Rive Gauche”; Prévert, Camus, Astruc, Roger Vaillant, Sartre e il suo gruppo s’incontrano, “per celebrare i riti dionisiaci dell’euforia della Liberazione; vino, danze, amore e Coca Cola, bevanda allora rara e quasi clandestina”13, “Bubu”, ossia Raymond Bussières il più amato della “bande à Prévert”. Chiudo ricordando Yves Corbassière, l’uomo dell’automobile (Renault 6 CV) dipinta a “scacchiera nera e gialla” che frequentava il “Tabou” con Marc Doelnitz.

Oggi chi va in giro per Saint-Germain-des-Prés se è giovane e conosce la sua impareggiabile e ricca vita cerca luoghi, insegne, atmosfere e personaggi che non esistono più e si accontenta di sedere ai caffé (ormai frequentati dai turisti, molti anche ignari del glorioso passato) che fecero la fortuna del quartiere e segnarono la storia di un’epoca, non solo culturale ma anche sociale. I meno giovani, che ricordano per avere letto dai giornali e dalle riviste i fasti e le burle degli anni dal dopo guerra fino ai primi anni Cinquanta, un nodo gli stringe in gola, ma per gli anziani che quei giorni, mesi e anni li hanno veramente vissuti, contestati e amati allo stesso tempo e con eguale intensità, non resta loro che il sogno, le “rêve d’un voyant”.

Note

[1] Dan Franck – “Libertad” – Garzanti, Giugno 2005 pag. 375.

[2] In realtà si trattava di una raccolta di amici, Gruppo “Octobre” che aveva imposto il realismo poetico al teatro e al cinema, formato da poeti, sceneggiatori, cantanti, attori, anarchici in lutto di surrealismo, cessato definitivamente nel 1936.

[3] Boris Vian: “La Parigi degli esistenzialisti” – Manuale di Saint-Germain-des-Prés, a cura di Daria Galateria – Editori Riuniti, Roma 1998 pp. 238.

[4] In rue Montalembert, all’ Hôtel du Port Royal, si riunirono nel 1935 A. Gide e i suoi amici.

[5] Caca-carte è una variante del termine “pisseur de la copie” (essere uno scribacchino), cattivo autore, cattivo giornalista che scrive molto male

6 Sull’origine del nome del locale “Le Boeuf sur le toit” corre la leggenda del vitellino cresciuto in un appartamento e una volta divenuto grande e grosso non potè più scendere dal tetto del condominio dove aveva vissuto. Ma la storiella è legata anche a Jean Cocteau che si era entusiasmato della musica scritta da Darius Milhaud nel 1919 ispirata al “Boeuf” e interpretata dal “Gruppo dei sei” (Honegger, Poulenc, Durey, Tailleferre,, Auric e lo stesso Milhaud), protagonista dell’evoluzione musicale francese degli anni Venti, anno in cui “Le Boeuf sur le toit”, come teatro, esordì il 21 febbraio con la partecipazione del Circo Metrano e i clown Fratellini. In breve il locale divenne frequentatissimo da artisti, intellettuali e personaggi ‘à la page’. Il proprietario, Louis Moysès il 15 dicembre 1921 trasferì il locale al n°28 di rue Boissy d’Anglas e chiese, ottenendola, l’autorizzazione a Jean Coeteau di chiamarlo “Le Boeuf sur le toit”. Solo più tardi il “Boeuf” si trasferì in rue Penthièvre e successivamente nell’attuale rue du Colisé. Elena Borgatti che su “Il Domenicale” del 12 novembre 2005 ha raccontato tutta la storia o leggenda del bue sul tetto di Milhaud e Cocteau, aggiunge che nel 1956, quando fu conferita ad Oxford la laurea ad honorem a Jean Cocteau, il pubblico oratore ricordò, tra le altre cose, che Cocteau aveva creato il “bovem in tegulis”.

7 Il richiamo alla nobile New Orleans è un omaggio alla città distrutta dall’uragano “Katrine” nei giorni 29 e 30 di agosto 2005; un disastro naturale che ha causato migliaia di morti e danni ingentissimi non solo nella Louisiana ma anche negli stati di Mississipi (tra Biloxi e Gulfport) e di Alabama (città di Mobile)

8 Secondo gli storici, i residenti della città pretesero di fare aggiungere sui dieci dollari stampati lì, oltre a “Ten” anche “Dix”, dieci in lingua francese.

9 Boris Vian – opera citata.

10 A tale proposito, va ricordato che a presunta supremazia dell’esteriorità nella comprensione del nostro modo di essere corpo è stata tentata dall’itinerario filosofico del pensatore francese Michel Henry fin dal suo primo lavoro “Philosophie et phénoménologie du corps”, scritto appunto nel 1948 e pubblicato per la prima volta nel 1965; “L’incarnazione come potere fenomenologico” in “Dal corpo alla carne” di Anna Pia Viola – Facoltà di Teologia di Sicilia Studi-Salvatore Sciascia Editore – Caltanissetta pp. 252 – luglio 2005.

11 Boris Vian, opera citata (Appendice).

12 In concomitanza con le celebrazioni per il centesimo anniversario della nascita (e il venticinquesimo della morte) di Jean-Paul Sartre (1905 – 1980) la scrittrice Hazel Rowley ha pubblicato negli Stati Uniti “Tête a tête” (Harper Collins), la storia degli amori piccanti della coppia di intellettuali più famosa di Francia del dopoguerra J.P. Sartre – Simone de Beauvoir. Presto uscirà l’edizione francese (addomesticata?) per le edizioni Grasset e due film per la TV francese sulla vita di J.P. Sartre (“L’âge des passion” e “Les amants du Flore”).


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