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Buonanotte occhi di Elsa

Il titolo: augurio, saluto (anche in senso ironico, pur mancando il punto esclamativo), interlocuzione silente con un mito (Elsa, donna-simbolo di alterità, nel caso, e non la moglie di Aragon) o allocuzione? Le sezioni (“Amare i paraventi”, “Favole al telefono”, “Corde nel vuoto”) esplicano la domanda d’inizio o vi aggiungono sospensione? Le poesie agiscono il differimento semantico del titolo?

Michele Ortore, dentro la poesia contemporanea di questo primo decennio di secolo nella dinamica del soggetto e dell’oggetto per lo sguardo diversamente esperienziale, dentro la classica nell’uso di figure retoriche – figure più nate da immediatezza che da riflessione, senza scale di meriti o demeriti, ché la poesia si forma e vive su e da più fianchi, lo si sa –, “gioca”, in variazione metrica e ritmica, a fare dei suoi versi adesione (alla) e uscita (dalla) favola del fermo-immagine sul presente.

Presente in allegoria di pertinenze e impertinenze, con finestre, viste spazianti sull’universo tutto, con i buchi vissuti, sentiti positivi per la luce che risale all’evidenza, e i pieni, avvertiti pesanti per la libertà da cercare oltre l’intorno, oblativa facilità di finzione, oltre una “Dead Line”. (Titolo di una sua poesia. Una molla spinge Michele Ortore ad esotismi linguistici, non del tutto giustificati a mio parere, benché ripresi da autori e-o da modalità correnti: Your Girl dall’omonimo lavoro teatrale di Alessandro Sciarroni, Dauer im Wechsel da Goethe, Black Hole dalla scienza, Question Time dalla pratica delle interrogazioni viva-voce-video nelle aule parlamentari).

In Buonanotte occhi di Elsa, il poeta si sorprende, consapevole nella cognizione, degli avvenimenti e degli eventi, avvolto, se non pressato, dal quotidiano panorama eletto a paradigma. Li sviscera, li contorce, li seziona, ne fa motivo, con tratti di ironia più o meno scoperta (Il barone di Münchausen, emblematico nella sua corporeità, si dà gustosissimo) del suo viaggio poetico.

Con esperienze de visu o scovate e reinventate da letture. La riflessione, poi, va a cercare nel tessuto e nel vissuto non tanto una ragione, le ragioni, quanto la consonanza tra un supposto e un risultato (come in “Corde nel vuoto”, utopia calata nell’immaginario di strada, biscia, stella, lampadina, cicala: «(E poi si canterà in giaculatoria: / “Teoria, teoria, perché l’hai portata via?”, “Giaculatoria”)», snodata tra un apparire e un essere («Sei molto più complesso di un no, / e molto più ambiguo di una fuga di spalle», “Molto più complesso”, significata nella scomparsa amicale), tra il concepito ideale e il suo venir meno (in “Polvere di statue”).

Solo esemplificativo il richiamo di alcuni titoli. Dalla relazione realtà-astrazione, dal binomio sincratico che ne scaturisce (in bilico, talora, sulla possibile oscurità di registri versali singolari come lo scafo di poseidonia scalatrice, talora aggrappati ad un già detto (montaliano) come le sponde aguzze dei cocci di bottiglia, qualche volta sfrangiati su una patina sentimentale elusiva come lo sconforto dell’erba tagliata da poco), il poeta sambenedettese diluisce nel suo primo libro di poesie un pensiero disforme dall’usualità, scompaginato nel sociale, proiettato in un altrove.

E coniugato sul desiderio in diversità, su un desiderio di infinito. Che sia, che possa essere. Che, forse, potrà essere raggiunto, seme del carrubo che abbia a non finire ché finirebbero il pensiero e il mondo, il loro sconfinamento, il loro poietico “più in là”.

Recensione
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