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S/VAN/AR/EGGIA

Chi farà la storia (se sarà ancora possibile) della poesia italiana dei decenni ultimi del Novecento e di quello appena iniziato troverà una tale quantità di autori, che hanno esordito appunto dal 1990 in poi, e una tale diversità di poetiche da avere qualche perplessità a iniziare l’opera o non poche difficoltà a proseguirla. Dal frammento al poemetto, dalla verbo-visività all’aggancio di classicità, dal lirismo rievocativo ad una quotidianità restituita al ribasso, da un neoermetismo di metafore e analogie nebulose all’intreccio sul “male di vivere” mai abbandonando la scoperta di Leopardi, dai mali sociali, calati sui viventi non si sa da chi ma vissuti in termini di sconfitta epocale, agli intimismi, a… I più vari sentimenti poetici in metri e ritmi vòlti a sottolinearli ma non a spostarli, tesi sul piano di una consolatorietà, raramente confliggenti con la materia di cui sono fatti, più capaci di aprire stupore dentro la lettura e meno di suscitare nel lettore l’indignazione portata a consapevolezza.

Alcuni autori, almeno fra quelli avvicinati in cartaceo (ché la quantità delle uscite da innumerevoli editori indipendenti e dai pochi editori per dire così storici impedisce assunti e assoluti), fanno eccezione.

Tra questi Gemma Forti che dal 1996, anno della sua prima pubblicazione in poesia (Zeffiro cortese, titolo-paradosso per dire il contrario, un vento ghiacciato e sferzante, per esempio), percorre la strada dell’osservazione acuta dell’intorno reale per restituirne il malaffare, la miopia (di chi dovrebbe avere a cuore la polis), l’assurdo della facciata e la realtà del crollo (“Niente è come appare. / Fitto il velo”, exergo di “Per caso” in S/van/ar/eggia) e del tempo che consuma.

Versi a cascata anche in quest’ultima raccolta che già dal titolo (chiarito in altro modo, nel prosieguo: «svanareggia // è la Comare Secca /che arrota l’unghie / le lima lucida smalta / di nero seppia». Così in “In fondo”, in cui c’è emersione, peraltro, di un “tu per tu”, declinato in personale risonanza con quel soggetto inevitabile e indesiderato) fa incontrare il dubbio delle consistenze e l’interrogativo su di esse, aprendo ogni sezione con citazioni mai gratuite (Orazio e Gramsci, Bismarck e Boccaccio, Buonarroti e G.B.Shaw, la Bibbia e Alan Sorrenti, …) e con riproduzioni di quadri non quietanti di Umberto Luigi Ronco, Francesco Tomei, Mino Maccari, Giacomo Porzano.

A tratti irridendo, a tratti disperando di passi in un dopo («…la marea ribollente / sale sale / in massa nera /avvolgente sudario / intorno /alla più vicina / riva / ove turisti ignari / indifferenti / ballano / in acque calme / ridanciane / piegando la testa a terra / come struzzi / nella sabbia», “Oltre), o dicendo la irrimediabilità di capestri o solo registrando ciò che è lapalissiano («C’era / c’era una volta / un luogo molto bello / sepolto / poi / da smottamenti frane / edifici di cartapesta / a terra», “C’era”); ma anche legando attimi a fili di speranza (“Greta”) lì dove appare un agire altruistico, non compromesso con i poteri deleteri del mondo e della Terra, anzi vòlto a scardinarli, o dove sembra resistere limpidità d’intenti negli umani, gli s/connessi fermi e tenaci ma non statici davanti ai sempre connessi.

Gemma Forti non descrive né narra, come fanno molti connessi “Poets” (masochisti, Felici, Atomi solitari) della poesia omonima. Crea, al contrario, in questa “tragicomica composizione” (Marcello Carlino), con versi concitati lo spazio socio-civile invivibile e mortifero, individuandone ragioni e contraltari, mancanze e negatività, sfiati e riprese di calore. Versi di tre-quattro lemmi, talora lapidari (come i pensieri degli scrittori, pur lontani tra di loro, presi a riferimento per conferma o sconferma del nucleo di verità) come una sentenza: il troppo d’intorno non ha bisogno, espanto come è in chiarezza, di superflue espansioni, mentre il vuoto viene riempito talora da versi-lampo di fugace illusorietà: « (…)Si tocca allora il fondo / sempre più giù / sino agli inferi / nello sprofondo // Nulla di umano / resta // Solo una effigie / bambola di pezza / che contorni esangui / trasmuta / & / discolora» (“Quando una fiamma”).

Recensione
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