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Prefazione a
A vuci di la terra
di Santi Geraci
la
Scheda del
libro
Francesca Luzzio
L’attività poetica di Santi Geraci risale alla sua adolescenza, quando ancora la
sua formazione culturale era in fieri e, sostanzialmente adoperando il lessico
che il poeta latino Orazio usa nell’epistola ai Pisoni,
possiamo dire che non era presente in lui l’ars adeguata perché il suo ingenium
emergesse in tutta la sua grandezza. Solo adesso, sebbene ormai da tempo abbia
acquisito una profonda formazione culturale e rese operative idonee
competenze tecniche, ha deciso di far conoscere ai lettori alcune sue poesie,
attraverso le quali rivela la sua profonda sensibilità artistica. Si è detto
“alcune”, non solo perché la produzione poetica di Santi è molto più ampia, ma
anche perché egli ha scelto di pubblicare non quelle in lingua italiana, bensì
quelle in lingua siciliana. A distinguere una lingua da un dialetto è
l’esistenza di una letteratura in quel particolare dialetto; per questo è
opportuno parlare di lingua siciliana, considerato che in tale lingua è nata la
letteratura in volgare presso la corte di Federico II e tanti autori in tutti i
secoli successivi si sono cimentati nella produzione artistica in siciliano.
Basti citare qualcuno dei poeti più famosi, come
l’abate Meli o il bagherese Ignazio Buttitta, che tanto ha influito sul nostro
poeta, facendogli riscoprire la potenza espressiva del dialetto siciliano e
l’animus e l’anima del popolo siciliano e dei Montemaggioresi in particolare. La
distinzione lucreziana ci pare del tutto appropriata parlando dei Siciliani, che
si caratterizzano nel loro agire per “ l’anima “, ossia per la forte
passionalità, per l’indole istintiva, per il carattere coercitivo, potrebbe
dirsi, che assumono usi e costumi; ma anche “l ’animus”non è secondario, infatti
razionalità e buon senso hanno fatto attraversare al nostro popolo secoli di
dominazioni straniere, senza perdere mai la sua identità. “Calati juncu ca passa
la china”, è uno dei tanti proverbi siciliani che rivelano la saggezza atavica
nel tollerare, nel subire, nell’adeguarsi senza perdersi.
Orbene, Santi nelle sue poesie coglie l’anima e l’animus, ci
fa immergere nello spirito e nelle viscere profonde della Sicilia, dei Siciliani
e ….. dei Montemaggioresi in particolare. Natura e popolo acquistano la stessa
vita, si animano della stessa bellezza e della stessa essenza istintiva e
selvatica, creativa e geniale; e il poeta non può non essere fiero di
essere siciliano, di cantari “allamichi e dulura” della sua anima e della sua
gente e di scrivere in dialetto “nzoccu m’appigghia u pettu e la peddi” (in Essiri sicilianu ), o di affermare con orgoglio che quaggiù si trova di tutto. “
cori scurciati /da ventu di troppu duluri/ ……./ geni senza lustru /…../ fimmini
santi e addannati /……/ artari di santi/ nta strati allavancati, /.……/ ma puru la
me casa / puru li me jita / (in Si veni cassutta), insomma il suo cuore. Santi
pensa con nostalgia al suo paese e lo tiene “agnuniatu nta lu pettu comu ‘n
diamanti raru” e lo pensa” come a “‘n divotu amicu, ca mai e poi mai mi po’
‘ngannari” (in Paisi luntanu). Né mancano in questa “recherche du temps
perdù”, come in Proust, il ricordo di ambienti, realtà e personaggi compaesani;
cosi Montemaggiore Belsito è “u paisi miu / unni ascutai pi la prima vota / ’a grannizza di lu suli e di li stiddi // unni tastai la chiù saggia puisia / di
la terra e di la vita /….../ unni l’universu annaca lu mmensu / e pò sentiri
ancora scrùsciri li campani di li vacchi e di li pecuri / (in Muntimajuri).
Montemaggiore B.to inoltre è il paese in cui hanno iniziato e concluso la loro
vita, forse senza mai uscirne, Sarafinu, u saristanu e Francu u babbu, ma essi
sono destinati a restare immortali non solo nella memoria di chi li ha
conosciuti, ma anche, grazie ai versi del nostro poeta, nella memoria dei tempi
“finchè il sole risplenderà sull’universo”, può dirsi, parafrasando la
conclusione dei foscoliani Sepolcri. In questa nostalgica rievocazione della
realtà paesana non mancano versi dediti alle problematiche socio-economiche di
Montemaggiore Belsito e del meridione in genere, quale quella dell’emigrazione.
“A vuatri, oi acchiana lu me cantu / figghi spatriati in continenti / pi
travagghiari / e abbuscarivi lu pani pi li denti /, ci dice Santi” (in Figghi
emigranti), ma nello stesso tempo invita a non dimenticare le proprie origini
perché “li radichi di la nascita / su l’ali ca vi fannu vulari”. Il restare
sentimentalmente legati alla propria terra, tuttavia non significa non allargare
la propria visione al mondo e alla realtà circostante, non acquisire
consapevolezza delle tante e altre problematiche che affliggono la società
attuale, come ad esempio la denuncia della corruzione, per cui i suoi simili al
poeta sembrano “rroggi nfudduti / tilivisuri addumati / àrvuli stuccati” (in
Li me simili). La gente si lega alle cose materiali, vuole possedere tutto hic
et nunc, dimenticando nel prosieguo dei propri giorni, il senso vero
dell’esistenza. Né manca la tematica ecologica che fa sostenere al poeta,
attraverso la personificazione degli alberi, che “chiàncinu l’alivi, chiàncinu
/…….. / e dicinu: / sta terra nun sciaurìa chiù di terra / sulu di / sulu di fumu
e di munnizza /…../ sulu di schilitri di palazzi….” (in Chiancinu l’alivi),
insomma il poeta assiste a poco a poco ad una metamorfosi Kafkiana della natura,
al vuoto di valori a cui consumismo e globalizzazione stanno conducendo
l’umanità “a picca a picca”. Lo sguardo verso il mondo esterno non esclude la
considerazione del proprio mondo e dell’io, così alla tematica memoriale e
sociale si affianca quella esistenziale. In tale ambito bellissima è la poesia “Amuri duci” non solo per il suo contenuto che esalta “l’oggetto del suo
desiderio” in tutto il suo splendore, soprattutto attraverso paragoni con
elementi della natura e la proposizione dei sentimenti che suscita, ma anche per
la tecnica compositiva, che rivela sia la tendenza anaforica che in genere
caratterizza lo stile dei versi di Santi, sia la specificità della
strutturazione di tale componimento che, di fatto, può considerarsi una ballata
costituita da quattro mutazioni e due volte che come un ritornello dividono in
due parti il canto. Le mutazioni sono formalmente affini perché si fondono tutte
sul paragone “Amore così dolce / come……/ Amore così bella / come…../ etc.…..” e
propongono una visione serena dell’amore; le volte, invece, pur non riproponendo
le stesse parole, come è tipico in tali componimenti di origine trecentesca,
presentano tuttavia la stessa concezione dell’amore come forza sconvolgitrice
dei sensi e della mente, ponendosi pertanto quale entità ossimorica rispetto
alla fulgente descrizione dell’oggetto dei desideri: “ti cantu / quannu mi
sfunni / u pinzeru e la sustanza / …….. / ti cantu / quannu m’arrivugghi / nta
lu sangu e nta ll’occhi”.
Ma l’amore Santi non lo vive solo per la donna, egli
ama ogni elemento della natura, animato quasi da uno spirito francescano che lo
induce a considerarsi fratello di tutti, ma anche, nel canto “Sono fratello”, di
nessuno. Ma il sentirsi in contemporanea fratello di tutti e di nessuno, ci pone
di nuovo ad un sentire antitetico, che accosta pienezza e vuoto, socialità e
solitudine, vita e morte e, di fatto, in altri testi la dicotomia ossimorica si
scioglie e ad emergere è il senso di estraneità dal contesto in cui vive (in Caru cumpagnu), è il vuoto esistenziale che lo induce ora a cantare, come Totò
e, molto prima, G. Parini, la morte, come unica vera giustiziera, la quale tratta
tutti allo stesso modo (in ‘A morti ), ora a cantare come Montale,
l’impossibilità del dire e del poetare (in Nun m’addumannati) e il sentirsi,
come quest’ultimo poeta o come Rebora scarto,
rifiuto, osso di seppia che solo nel mare può galleggiare e trovare salvezza (in Allamicu du mari) o, infine, lo induce a constatare il “panta rei”,
il divenire costante del mondo e delle cose, però direi più tragicamente quasi
che in Eraclito o in Pirandello, perché lo scorrere non implica diversità, per
cui “dopo niente è più come prima”, ma per Santi tutto nel divenire è sempre
uguale a se stesso, sicché la lirica “‘A strummula eterna” più che essere una
dichiarazione di relativismo gnoseologico, è una dichiarazione di sartriana noia
o di sveviana inettitudine, di incapacità, insomma, di aderire al reale che, in
tale condizione psichica, appare sempre uguale a se stesso.
Il
poeta Geraci dedica anche alcune liriche alla definizione della sua arte e della
poesia in genere. «La vera poesia» afferma, «sa cogliere il
mistero della vita e il silenzio di Dio» (in S’ia puisia), pertanto, se
tale, sa coinvolgere e parlare a tutti; il poeta, a sua volta, può creare vera
poesia perché è un fanciullino che, come afferma Pascoli, guarda con animo
ingenuo se stesso e il mondo (in A li picciriddi) e, attraverso l’espressione
del suo poliedrico sentire, come sostiene anche Aristotele, non solo purifica
l’umanità esplicando una funzione catartica (in Scantativi), ma realizza se
stesso, perché il poeta vive per la poesia e trova in essa le ragioni stesse
della sua esistenza: “‘A me arti ia / la me acqua, lu me pani / tuttu chiddu ca
m’annorba/ nta la vita e nta la strata” (in ‘A me arti).
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