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La gioia e il lutto
la pina maturità
Con la cautela che si deve alle opere di poesia - e alle prime letture -, credo
di poter dire che con La gioia e il lutto Paolo Ruffilli ha raggiunto la sua
piena maturità poetica: il che non significa, sia inteso, che non possa
progredire ancora. E allora leggiamo subito il frammento di pag. 22: “A forza di
salire / per quanti mesi e anni / le scale della vita, / si va imparando / con
l'esperienza / il rito del cordoglio / e l'arte di morire / senza inganni: /
coltivando gli ultimi / istanti, al capezzale, / celebrando l'atto / finale
dell'uscita e / cercando di restituire / con l'argomento / dell'intelligenza /
senza orgoglio / dignità all'insufficienza / degli organi, al danno / della
funzione cerebrale / e alla distruzione / progressiva / di ogni centro vitale”.
Prima di dire altro, osserviamo che già questa minisequenza ci dice
qualcosa del modo di poetare di Ruffilli, cioè il rapporto per lui necessario
fra gravità del tema e semplicità, appena inalzata dalla luce intellettuale,
della lingua.
Come i precedenti Diario di Normandia (ma questo "in movimento") e
Camera oscura (per la quale Raboni ha potuto parlare di "romanzo
famigliare"), anche quest'ultimo è un "diario" privato e (tragicamente) amicale,
da cui scaturiscono voci interne o - ch'è lo stesso - di un al di là mentale; e
dove i testi in corsivo segnano, meglio che pause o stacchi o contrappunti, i
momenti di più secca meditazione (quasi che già il corsivo indicasse,
iconicamente, scarnificazione).
Non è male muovere dai dati formali, essi stessi non dissimili nella sostanza da
quelli delle raccolte anteriori, poiché Ruffilli è un poeta non manieristico, ma
semplicemente fedele a se stesso (si faccia eccezione, in particolare, per i
continui uncinamenti parentetici, e insomma le doppie quinte, di Piccola
colazione). Dominano i versi brevi o medi, con centro nel ventaglio tra quinario
e settenario, ma la loro funzione, contro le apparenze, è del tutto
antimelodica; la spezzatura (con inarcature anche, e non raramente, sulla e) e
quasi la casualità delle misure dominano sul carattere centripeto delle unità
versali. E tuttavia è proprio la sequenza ininterrotta di versi medio-brevi a
contrastare la potenziale continuità prosastica del "diario".
Inoltre, Ruffilli è tipicamente quello che i tedeschi chiamano un "poeta di
pensiero", ma il pensiero non si svolge, appunto, per continuità e grandi
arcate, ma per frammenti e contrazioni, prese d'atto e rilanci: e come pensare
altrimenti oggi, e in un secolo che ha visto in filosofia la vittoria dei
pensatori per aforismi e minisaggi?
Non molto diverso, a guardar bene, l'uso della rima, che essendo fitta e
dichiaratamente "facile" non ha, in linea di massima, un ruolo espressivo,
raggrumante, ma - se così si può dire - di "appoggio" alla dizione e quasi di
punteggiatura.
La realtà, per Ruffilli, è in fondo tale solo se pensata dal soggetto. E questa,
detto per inciso, è una delle ragioni per cui egli non può essere affatto
omologato ai "lombardi", che nelle "cose" credono. C'è sì qualche ritorno di
Rèbora, come specialmente a pag. 36 ("...che scava selvaggia / attorce ed
impiglia / fa brace ed agghiaccia / accresce e consuma..."), ma se è realtà è
realtà deformata; e si veda anche a pag. 12 ("...tracolla deraglia ecc.").
Insomma Ruffilli ha bisogno ogni tanto di Rèbora come di qualcuno che lo renda
più aggressivo, che gli acceleri i battiti del cuore, altrimenti lenti. Come già
indicato da Raboni c'è poi fra le righe, e molto di più, Caproni, l'outsider, il
narratore melodico ma insieme antimelodico, presente non solo per via del tipo
di versificazione, come in questo brano: "Vi ho salutati, / tutti, senza
parlarvi. / Vi ho ringraziati. / Siete stati / la forza e la ragione / nei miei
affanni..." (pag. 23). E sempre nell'ombra si aggira Leopardi, e si può anche
risalire più indietro (si veda "amante amato", a pag. 17).
Dunque, realtà pensata. E quindi dominano, come già dichiara il primo brano qui
citato, gli astratti; mentre il massimo di "cose" che (e qui diversamente da
Caproni) Ruffilli può concedersi è questo: "...il fumo delle sigarette...il
verduraio...le sue cassette...ogni frutto e ortaggio..." (pag. 21). Ma anche in
questo luogo ci sono offerti, appunto, i generi ("frutto e ortaggio") e non le
specie o gli individui, e se di quelle cose il poeta si riempie la mano, lo è,
subito dopo, delle loro "forme perfette". Pochi versi sotto spunta poi la
"nebbia", e non è l'unica volta, con le relative sinonimie o metonimie (ad
esempio, "lattiginoso").
Per pensare poeticamente, è chiaro, Ruffilli ha bisogno che la realtà sia messa
fra parentesi, stilizzata in categorie, ritirata in qualche modo nella mente che
la classifica appena i suoi dati concreti fanno capolino; pensare comporta
chiudere gli occhi, braccare mentalmente, per poi sostarvi, le essenze e i
destini dei fenomeni; e infatti, a pag. 48: "Per tutto quello / che non vedo /
io credo / qualcosa resterà", ed è una delle sequenze migliori della raccolta,
nonché - significativamente - l'ultima.
Ma per quante vie si può comprovare l'evidenza che questo è un poeta della linea
"metafisica" o mentalistica, e non di quella postsimbolista o orfica. Una è per
esempio quella delle metafore, che qui non volano alto ma basso, come s'è visto
subito nel salire le scale di A forza di salire. La realtà non è dunque trascesa
per via di immaginazione libertina, ma di pensiero, al cui servizio si pone,
costringendosi, l'immaginazione.
Forse vale per questo libro, con un'accentuazione fortemente privatizzante, uno
degli exerga che l'autore aveva adoperato a suo tempo per Camera oscura, un
pensiero dei grandi Minima moralia di Adorno: "L'elemento storico, nelle cose,
non è che l'espressione della sofferenza passata". Ma già perfettamente
significativo è il titolo stesso, nella sua bipolarità. Purché lo si interpreti,
o così mi pare, nel senso di un'oscillazione o compresenza fra i due opposti
sentimenti indicati, o meglio ancora ponendo come primo il secondo termine e
facendolo seguire da una freccia che, nel tempo e idealmente, si dirige verso il
primo, diventato non solo secondo ma terminale. Del resto Ruffilli ha scritto a
tutte lettere, a pag. 41: "Perché il lutto / chiama la vita, / non altra morte"
(e subito sotto: "Che tutto cada / morto / per essere risorto... E' il trionfo /
della vita perpetuata / mentre si è sepolta..."). Come acquattato, il poeta
sembra distrarsi dalle cose concrete, metonimie della vita, ma per parteggiare
più concentrato per la vita.
Con un po' di approssimazione e metaforicità, ma non troppe, si può dire che
questo libro di poesie, o diario poetico, è soprattutto un'elaborazione poetica
del lutto. Il che vuol dire anche (si veda ad esempio alle pagine 41 e 45-46:
"Senza la morte, no, / non ci sarebbe / né sorte né destino"...), non solo
scommettere per il futuro ma affermare che il presente, negli individui e nelle
generazioni, in tanto vale in quanto anello di una catena che prosegue. Che ciò
sia detto in poesia, e senza apparati ideologici dichiarati, entro un'epoca del
più sfrenato puntinismo (e dunque anche totalitalismo, perché solo quanto nulla
si sviluppa può essere dominato), un'epoca della più assoluta sfiducia nei
concetti stessi di futuro, e cioè di continuità della specie e dei singoli
attraverso la trasformazione in un altro che però ci è organico: ebbene, questa
posizione mi sembra, già al di qua dei sostanziosi risultati poetici che ne sono
generati, il maggior segno di nobiltà de La gioia e il lutto.
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Recensione |
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