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Dunque,
l’Arte che vuole?
Nella bandella che firma in
seconda di copertina, Paolo Ruffili parla di Dunque, l’Arte che vuole?
come di “una novità assoluta nel panorama della poesia contemporanea”.
Definizione che mi convince, sì, ma solo a metà, perché a dirla com’è, non è
solo quest’ultimo nato di Cozzoli a essere una novità assoluta nel panorama
della poesia contemporanea, ma l’opera intera di Cozzoli, o perlomeno la più
recente: diciamo quella che s’incontra leggendo le maggiori prove pubblicate
nell’ultimo decennio da questo outsider della bassa cremonese che da più
di quarant’anni, in realtà, beve e assimila visioni da linfe che risulterebbero
urticanti a quasi tutti i poeti “laureati” o à la page, lavorando a una
sua idea inattuale del “fare poesia”, nell’ombra della società letterata, in
quieta, fidente attesa del giudizio dei tempi lunghi o ultimi, che è quello che
conta per lui e dovrebbe contare per tutti, alla fin fine.
La maniera
spavaldamente originale di questo Cozzoli giunto ormai nel centro della sua
intenzione, è rintracciabile, pur a minore, nelle forme brevi che
riempiono di densità il delizioso Cento e quindici cinquine, uscito tre
anni or sono con le Edizioni l’Obliquo. Lì come qui, Cozzoli si conferma poeta
d’ispirazione mistica. Che non vuol dire molto, in sé, in termini di valore, ma
vale come segno introduttivo a una pratica sapienziale del gesto poetante che
punta con decisione al di là del recinto letterario. E quando dico
“sapienziale”, in questo caso, intendo dire non tanto o non soltanto aperta
all’esperienza di Dio, quanto, piuttosto, al modo giusto di cantarne e
testimoniarne profeticamente le manifestazioni nell’epifania della natura e del
suo oltre. Gioveranno e basteranno, io credo, due quartine che traggo dalla
colata relativamente uniforme del libro, fatto, nel suo insieme, da una
novantina di testi, per dare evidenza di alcuni di questi modi, e, più in
profondità, della legge morale e dei presupposti intellettuali sui quali il
temperamento stilistico del poeta ama appoggiarsi.
La raccolta inizia così, in
medias res: “Toc toc: è l’allegoria che alla porta / bussa: “Posso entrare?”
(conciliabolo:/ Che fare? Se apriamo, entra. Cosa di nuovo / avrà da dirci?
Dunque, che facciamo?).” Inizia, dunque, con l’irruzione sulla pagina
dell’allegoria in persona. Cioè a dire, con nientedimeno che la spiazzante, e
perfino irridente (si pensi a quell’ingombrantissimo “Toc toc” in posizione
d’incipit!) riproposizione, in questa era post-eliotiana del disincanto e
dell’inconsistenza, del principio allegorico come chiave e motore del dicibile
essenziale. Cioè a dire, ancora, con un’affermazione piena di domande (quattro
in quattro versi!) che suona come una rivoluzione di poetica esibita
birichinescamente in punta di penna, come, oggi, può osare farlo senza cadere
nel ridicolo, a mio avviso, soltanto un maestro della sprezzatura allenato
all’intensità di un trobar leu agito dall’alto di una felicità mentale
addirittura inconcepibile per gli stenterelli che arzigogolano i loro versi
intorno al piedistallo triste del proprio io. Uno, per intenderci, che oltre a
Dante, del quale Cozzoli è studioso innovativo e illuminante esegeta, e alla
grande tradizione della mistica occidentale (soltanto in questo libro Cozzoli
parla di e, talvolta, con Plotino, Beda il Venerabile, Scoto Eriugena, Spinoza,
Eckhart, Teresa, Suso, Ildegarda di Bingen, Lullo, Pascal, Teofane il Recluso e
Simone Weil e nomina i biblici Amos, Mosé, Giobbe, Giuditta, Neemia, Geremia…),
come Cozzoli ha letto, ragionato e assimilato sia il Caproni di Come
un’allegoria che il tardo Caproni sincopato delle ultime raccolte, e che lo
supera in più sensi, a quanto vedo, in azzardo ludico e strategico. Nella
quartina che contiene in emistichio il titolo del libro si legge invece:
“Dunque, l’arte che vuole? Questo solo: / che si veda quello che si sente e si
senta / quello che non si vede, ma nell’aria, / anche da lontano, già profuma.”
Parole che in ordine a scelta, misura, posto e proporzione danno contezza di un
affilato labor limae di un autore tutt’altro che ingenuo, che insegue
chiarezza, armonia e dolcezza perfino quando protende per vie di sinestesia il
proprio sentipensiero metafisico-morale verso l’idea “massimalista” di un
prossimo inveramento messianico del regno dello spirito. Assai più di un
vaccino, da introiettare come un disinfettante d’ironia (à la Szymborsksa:
“No, non la Szymborsksa questa sera,”) e malafede intellettualistica (“… Finisco
di leggere Bonnefoy,/ un poco in dubbio sulla buona fede/ dei poeti…”) nel corpo
corrotto della poesia contemporanea, mi sembra che la poesia di Cozzoli porti a
noi lettori non troppo disattenti la riscoperta o re-invenzione di
qualcos’altro: del mondo specificamente spirituale della poesia. Praticando dei
modi semplici di poesia, Cozzoli trova la novità della poesia, facendo
cadere un’enorme zavorra di lettere morte sul sedicente Pantheon dell’Italietta
poetante. Di questo occorre ringraziarlo.
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Recensione |
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