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"La divina misericordia t'ha
liberato / (:ah mediatica reietta albis sospetta) / di tutto il dolore del mondo
/ che ripiomba integro su di noi" (p. 27). Per quanto conosco basterebbe
questa poesia a dare una fisionomia, un carattere alla poeta Nadia Cavalera, ma
essa, come dice il prefatore: "... prende ancora una volta la parola, non per
soddisfare la ritualità accidentale del solito libro di poesia e svaporare
dentro tonnellate di altre chiacchiere,".
La parte centrale della pubblicazione
è riservata alle opere verbo-visive, purtroppo i limiti della stampa, dimensione
tecnica incisività, non rendono giustizia ad opere che , se viste esposte in
originale, sarebbero di grande impatto emotivo. Prendete "I prestanomi: uomini
senza" (p. 36), ciò che lascia sottintendere la possibile rima nel titolo non
risalta certo come dovrebbe dalle indicizzazioni delle immagini, e il testo,
ordinato a fronte, perde parte del suo vigore, come quello di una canzone
ascoltato senza musica. Poi la visualità accattivante di "Golphe de Genes" (p.
48), con la scrittura che segue le trame dell'antica carta nautica portando lo
sguardo in un dedalo di intrecci che non può che ricondurre ai carügi
dietro all'angiporto,
e che disegnando tante rose dei venti rimanda al carattere dei genovesi, tante
linee sulle quali la parola non è più incollata al soggetto
storico-architettonico, come avviene invece nel testo a fronte, ma si offre
maggiormente ad accostamenti estemporanei ed individuali del lettore-osservatore
(fruitore?), interpretando così molto meglio la complessità insita nel luogo
considerato nell'aspetto che gli è complessivamente proprio (clima odori
costruzioni abitanti avventori). Da tutti gli altri lavori si stacca decisamente
"Adriana" (p. 44), una lunga considerazione meriterebbero i ghirigori a mano in
rapporto alle frantumazioni spigolose dell'immagine e queste in rapporto alla
dolcezza del sorriso frantumato; avrebbe forza sufficiente, questo lavoro, anche
se avesse come testo solo il titolo, ed anche il testo, che è una poesia, nella
pagina a fronte mantiene tutta la sua forza anche disgiunto dalle immagini,
capita raramente anche a certe canzoni nelle quali sia la musica che il testo
hanno sufficiente vita propria anche se separate, molto raramente. Questa mi
sembra la parte più importante e consistente della pubblicazione.
Negli altri testi, in stesure diverse
fra loro, molto è giocato fra il divertissement della parola e l'ironia
della costruzione, le forme sono la considerazione il commento la denuncia e
(haimé) l'aforisma (c'è quello sedicente che sta invadendo sempre più spazi
sempre più confondendosi con la battuta pseudocomica). Nonostante ogni possibile
considerazione ciò che resta fuori discussione è l'impegno umano sociale civile
(vorrei dire anche politico ma non sono più sicuro che sia un complimento) di
tutta la raccolta e dell'intera opera di Nadia Cavalera.
La parte finale, tutta
autobiografica, mi sembra eccessiva. L'autore scrive: "... rappresenta i miei
shock anzi elettroshock, il retroterra personale, indispensabile a conoscersi
per una piena comprensione del mio operato.". Forse pensa che i suoi lavori
non esprimano a sufficienza il tipo di approccio artistico-letterario che è
proprio del suo impegno? Io invece credo di sì. Forse lo fa a vantaggio di chi
pur frequentando l'ambiente artistico-letterario non lo vive nel suo nocciolo
più fusibile ma in questo caso come può essere sicura che ciò possa bastare? C'è
poi il rischio più grande, poiché il limite è incerto, quello di sconfinare
nell'autoagiografia, il che non è da poeti.
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Recensione |
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