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Variazioni sul tema
Nell’affrontare quella che si potrebbe definire un’antologica, esistono
diverse soluzioni; una di tipo cronologico, un’altra invece globale, e a
quest’ultima si presta la lettura dei testi di Ruffilli, anche se non va
dimenticato un percorso, una via coi suoi mutevoli ma personali
itinerari. Piccola colazione (1987) ci presenta peraltro un autore nel
pieno delle sue facoltà creative, anzi, che va oltre la creatività, per
un’indagine che trae dalle parole il lato non visto, o meglio quello, per dirla
con Rimbaud, che crediamo di vedere. Volendo praticare un punto d’avvio o al
meno di conoscenza di come agisce il Ruffilli poeta, torna utile il testo a p.
163: “La parola, per me, | veniva da distante”; una distanza che quando si crede
di aver raggiunta, sfugge (v. 10). Ma, si sa, un poeta è fatto di stile:
chiunque saprebbe scrivere, ma non in quel modo. D’accordo con Pontiggia
nel prospettare un ritmo (una rima), una “trasparenza lirica” che non è però
lirismo inteso nel senso comune. Per quanto lieve il dettato assume tratti di
una densità espressiva che rende compatibile la versificazione, derogando da
regole canoniche o da immagini accattivanti a ogni costo; perciò più che l’esito
figurativo sussiste la trasformazione in ‘sintagmi’(giusto il riferimento a
Lacan), nel far sì che la scrittura sveli od occulti, a seconda dei casi,
finendo per toccare il significante, ma in relazione con il significato,
e rifiutando le ingannevoli sirene del ‘bello’ sia come forma che come soggetto.
Una peculiarità che trova la sua realizzazione nel tessuto linguistico
destituito da ogni splendore fittizio, per mostrarci invece ciò che proviene dal
pensiero, un veicolo poi concretizzato nella pagina; e dopo momenti ‘neutri’
ecco la fase sostanziale: “Specchio, ritratto | analogia, prova | che c’è,
sotto, la cosa” (p. 169): sta al lettore addentrarsi in quel labirinto interiore
i cui riflessi ci restituiscono l’assenza come parte costitutiva.
Nel
Diario di Normandia appare il paesaggio, le cui componenti sembrano fissare
l’effimero, alcuni particolari o gesti quotidiani, ben presto eclissati sotto il
profilo tecnico o racchiusi in microcosmi (le parentesi) senza interrompere una
continuità psicologica che è alla base della percezione, essendo l’autore
meno propenso a descrivere, inteso piuttosto a captare quei segni
segreti mai conclusi. La già citata consistenza prosegue, come per opporsi alla
lievità del reale nella luce di un fenomeno declinante: “(Controlli, indugi, |
attese a non finire | prima di spiccare | – anche se pare, a | poco a poco,
sempre | più improbabile – | finalmente il salto.)” – i continui ‘rimandi’ si
svelano come scrive il poeta “a poco a poco”.
Per
Camera oscura ci conforta la nota critica di Raboni a proposito del “limite
estremo dell’udibilità” (mentre sull’idea dei segni quali reperti fossili si
dovrebbe aprire un’ampia dilazione analitica). Di fatto, Camera oscura
si colloca in un tempo centrale (1976-1992) e riprende in parte l’immagine
pur se riflessa (p. 75) per un’innata tendenza a defluire dall’oggetto,
benché compreso in una sua identificazione linguistica (p. 77): cosa di più
oggettivo di una foto? Un terzo elemento è la storia, le storie. appartenenti
‘forse’ alla cronaca, ma sono le differenti sezioni di un discorso
prevalentemente atemporale, la non raggiunta identità tra i fatti e i
personaggi; e di conseguenza rimane il senso della sospensione, di ciò
che si dovrebbe compiere; si prenda, per esempio, il testo a p. 91 con incipit
“Lo sa che è” e ci si fermi; solo dopo si capisce, ma il sintagma-verso, preso a
sé, ci apre spazi immaginativi; non è solo la parola traslata, che tuttavia
ricrea in chi legge il materializzarsi di un una coscienza, ma il
frammento circoscritto ad assumere un ruolo nella poetica di Ruffilli, che non
prevarica, ma introduce e permette di pensare; e questo vale per i versi
seguenti. Alla fine ci si chiede: cos’è stato? È qui la cifra saliente del
poeta, da una lingua di “povertà raffinata” (Raboni) sciogliere le potenzialità
che riguardano l’intimo tentativo liberatorio, a fronte di schemi rigidi e
praticamente incorruttibili.
Paesaggi con figure
ci consegna un altro versante. È noto che spesso il poeta è costretto a
dimostrare a coloro che per inadempienza o partito preso non si discostano
dal modello. Qui, se tale è l’assunto, incontriamo spazi cromatici: “Luna piena,
| rosso sangue” (p. 36), o di eleganza icastica: “La terra a un tratto | brilla
d’oro” (p. 47); non a caso si danno questi incipit, ma per lo slancio che
enunciano, sviluppando la trama secondo una logica solo a intervalli
‘costruttiva’ (o indicando piuttosto delle ipotesi); la natura è riportata allo
stesso piano, dove lo sfondo è anch’esso ipotetico, preso più per inciso
che per una volontà precostituita.
Quindi
La notte bianca fa da corollario e impone la sua dipendenza che si
emancipa a ogni passo, coordinando e unendo figurazioni e pensieri talvolta
remoti da quell’inizio. Tirando le somme: “Per ciò che si poteva | e che
non fu” (Mai più). Un rimpianto? Può darsi: l’emozione, ancorché
trattenuta, sta dietro l’angolo, ed è umano il centro di convergenza, al fine di
‘rappresentare’ sempre più una poesia protesa verso l’oltre con il suo
sistema: l’adeguarsi al dato per quanto cognito e alla ‘quotidianità’,
stravolgendoli nel proprio io sino a depotenziarli, aprendo prospettive
che sembrano riconoscibili e sono in effetti la parte in ombra: “(sempre sul
punto | di essere...)” (L’oggetto del pensiero). Si noterà che qui
l’autore intitola le liriche (non si travisi il termine), e a ognuna
concede la propria connotazione, rivelando un fermento che traduce con la
purezza assoluta del non-corpo. Affiora il poeta civile (Violenza) – del
resto già da prima evidente – e cresce il presupposto filosofico, nel rapporto
tra l’individuo e il mondo. Si deve, di necessità, rilevare il ricco formulario
di versi applicati a una metrica dalla sommessa e pur penetrante musicalità. Con
le molteplici ‘variazioni sul tema’ Ruffilli si conferma una dei poeti più
originali del nostro tempo.
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Recensione |
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