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Echi di riti e miti
Basta il sibilo del vento della terra in cui viviamo a fare
di un sospiro un uragano
Ho
avuto l’immenso piacere di conoscere l’umanità di Daniela Quieti attraverso
letture, mail, commenti, interventi vari sul mio blog, o attraverso piacevoli
telefonate; e la sua sensibilità, la sua voce gentile e giovanile, il suo
patrimonio culturale, incisivo ed arrivante, buttato là con nonchalance, mi
hanno sempre impreziosito di momenti di grande partecipazione emotiva. Altra
emozione quando il 20 di dicembre mi è giunto un suo bel cadeau, un libro di
racconti, che ho letto con grande interesse e con memoria uditiva. Sì!, con la
percezione che fosse lei a narrarmi le sue storie dai sapori arcaici ed attuali
inserite in un paesaggio ricamato di curiosità folcloristiche. Un bell’omaggio
che contiene tutta l’anima dell’autrice, tutti quei battiti cardiaci che si
intensificano con la coscienza di essere, di esistere, e di respirare, a pieni
polmoni, l’aria della grande terra di D’Annunzio: l’Abruzzo. E quello che
commuove e convince di questo testo, di ben 25 racconti, è la trama fresca di
una storia antica che arriva da una scrittura sciolta, familiare, vicina; che ti
prende per mano e ti porta ad apprezzare, a vivere, e a rivivere gusti, gesti,
personaggi e fatti che l’autrice nella Premessa declina in “nostalgie”: “… per
ricordare folclore e nostalgie, curiosità e tradizioni della mia leggendaria
terra… Una storia che parla di arcaici incanti, di malinconia, di grandi
sentimenti, in una parola, d’amore”.
Sì!, perché Daniela Quieti ripesca note lontane, tradizioni scomparse, o che
permangono relegate a poche persone, ma pur sempre vive e presenti nel diario
recondito del suo esistere; e con amore, attingendo da un patrimonio memoriale
folto d’incantamenti poetici, le rigenera di vita nuova, insaporendole dei
profumi della sua arcaica terra. Non per niente in copertina, in maniera molto
appropriata, risalta quel quadro pastorale tanto caro a D’Annunzio. E non per
niente la Nostra, nella citazione, riporta il famoso ed esemplificativo verso
della poesia “I Pastori”: “Ah perché non son io co’ miei pastori?”.
Sembrano parole della scrittrice rivolte al suo suolo. Ci sono, qui, nostalgie,
natura, tradizioni, profumi di “tratturi”, o di solchi rovesciati su pianure, o
di gente serenamente affaticata, o di volti coloriti di campagne, o di Befane o
di altre feste sacre o profane di magiche storie di santi e di fanciullezze. A
dominare ci sono il vento, il sole, i tramonti, gli squarci di azzurro, il
sapore dei cibi; e il tutto si fa poesia; poesia che, come le acque limpide dei
ruscelli traspaiono chiare pietruzze, discopre la spiritualità e la generosità
dell’autrice. Sì!, perché la sua scrittura, trasparente come quelle acque,
schizza fuori tanti sentimenti, anche di ossimorico sapore: di gioia per la
coscienza di essere parte di una storia; e di malinconia per tutto ciò che
sfugge precariamente col correre del tempo. Terriccio fertile, questo motivo,
per una narrazione in sintonia con il fatto di essere umani. D’altronde questo è
il vivere e Daniela Quieti sa che tanti miti saranno fagocitati da un tipo di
società che, forse, dell’arcaica tradizione conserverà ben poco. Ma spera pure
che l’umanità possa rivedere e correggere la sua frenesia; porgere lo sguardo al
bello per amarlo e rispettarlo; girarsi un po’ addietro per ripescare quegli
Echi e proiettarli nel futuro. Ed è per questo che cristallizza il
suo/collettivo patrimonio memoriale su queste pagine e affida loro il compito di
raccontarli, di tutelarli, e preservarli, facendolo con prospettive di largo
respiro. Da qui la sua malinconia. Ma è determinata, anche, da certe riflessioni
su ciò che è, e su ciò che vorrebbe più umano, diverso. Più giusto per il suo
senso spiccato del sociale: “Se solo l’Epifania servirà a diminuire, non certo a
sconfiggere – sarebbe un’utopia – le tante piaghe del mondo, avremo celebrato
nel modo più giusto e generoso lo spirito dell’evento natalizio, quello di
tendere una mano a chi soffre”.
E
la memoria si fa forza in questi racconti, si fa immagine. Tante realtà, vissute
in altri tempi – forse in tempi dove gli uomini erano più vicini, pur nelle
sofferenze o nelle ristrettezze – una volta decantate e rimaste a lungo a
riposare, ora si fanno concrete, attorniandosi di un nostalgico delicato
sentire; ci parlano degli affetti e della grande influenza che ha e ha avuto
l’Abruzzo sulla storia culturale e letteraria della Nostra. Perché anche quando
la scrittrice affronta lavori più vicini ad una ricerca filosofico-speculativa
o poetica, vi trasferisce sempre quella semplicità e quella umanità che,
spruzzata di un certo sapore di taedium vitae, ha immagazzinato a contatto della
sua terra. E sciorina, quasi con spavalderia, tanto è il suo amore e il suo
orgoglio di essere abruzzese, i prodotti enogastronomici tipici della sua
regione: dal farro di Abbateggio, al pecorino di Farindola, dalla mortadella di
Campotosto alle “sise delle monache”.
Ma
la sua narrazione, più che provocare acquolina in bocca, suscita stupore e
curiosità, e tanta voglia di visitare quelle terre così ricche di vicissitudini,
incantesimi e tradizioni pastorizie: una civiltà contadina rinnovata e disposta
ad arricchirci di avventure umane. La magia del solstizio d’estate, La festa
di San’Andrea, L’olio di San Bernardino, Il poeta e il pozzo su su fino
all’ultimo brano Feste in piazza tra sacro e profano, dove la scrittrice
aspetterà “le struggenti note e i suggestivi versi delle canzoni popolari della
sua terra…”, sono tanti spezzoni di una interiorità che, calda e genuina, tende
a realizzarsi in vertigini paniche, in suoni, in storie, in volti riscoperti e
collocati in un mondo da cui Daniela Quieti proviene, verso cui è estremamente
protesa e a cui è strettamente vincolata con tutta la sua anima.
“Settembre, andiamo – riporta la scrittrice – È tempo di migrare”: comincia
così, con quello che viene considerato uno dei versi più belli della letteratura
italiana, la celebre poesia di Gabriele D’Annunzio “I Pastori” dedicata
alla transumanza”. Ricorre ai versi di D’Annunzio, onore e gloria della sua
terra, a quella voce immensamente naturista; ricorre al suo simbolismo che sa
farsi fisico in metamorfosi di Ermioni in arbusti viridiscenti e aulenti di
boschi e di pinete oltre che abruzzesi, di memorie tirreniche, come quelle di
Marina di Pisa. Ma qui il poeta è tutto della scrittrice, e non ci distraiamo, è
tutto del suo territorio. Ed è proprio in questo racconto che la Nostra riesce a
respirare un’aria che la rende satura di sensazioni e fiammate nostalgiche da
permetterle di tradurre l’anima in un lirismo più vicino alla poesia che alla
prosa. I pastori, la stagione fredda, le greggi dell’Abruzzo, il tratturo, i
“riposi”, i “tholos”, la Majella, quest’aria di transumanze antiche non sono
più solo tratti di un poeta che comunica la sua grande contaminazione artistica
e naturalistica, ma anche quelli di una Quieti che fa suo il vate e lo mischia
ai colori e ai sapori della sua selvaggia campagna, generosa di tante arcaiche
voci, per ridarlo al foglio verniciato di un sentire nuovo, zeppo di emozioni, e
di grande carica nostalgica. È poesia! La stessa che si sprigiona da I giorni
della merla e le fiammelle della Candelora. “‘Mamma mia, che freddo fa!’”
Alzo il cappuccio del piumino e infilo i guanti. Cerco di ripararmi dal vento
gelido rasentando i muri delle case. La città è semideserta. La gente è
rintanata in casa e, sicuramente, sulle colline circostanti, sta cadendo la
neve”. Quella neve che, forse, ricopre tanti racconti di un Abruzzo dimenticato.
Ma a primavera la neve si scioglierà e non è detto che Daniela non sia lì pronta
a disgelarli e riproporceli nuovi e rinati.
Non molto tempo fa, stilando la recensione ad una poetessa, ebbi a concludere:
“Basta il sibilo del vento della terra in cui viviamo a fare di un sospiro un
uragano”. Così conclusi e credo che sia una giusta conclusione anche per questi
racconti che ti restano appiccicati addosso come i tratturi delle loro montagne.
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Recensione |
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