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Prefazione a
Ritratti in lavorazione
di Giuseppe Vetromile
la
Scheda del libro

Anna Gertrude Pessina
Voci dalla fabbrica e dalla memoria
Gli intellettuali, che hanno
avuto la ventura di percorrere nella sua interezza l’arco socio-storico-politico
della seconda metà del Novecento, sono stati promotori ed antesignani di svolte e di
istanze innovative interrelate coi mutamenti dinamici e radicali di un segmento
di secolo tra i più discussi.
L’incipit di quella che
si può etichettare rivoluzione dei contenuti e del registro scritturale data
immediato dopoguerra e propaga, a mezzo di una letteratura fortemente ibridata
con il quotidiano, l’archiviazione dei parametri codificati, obsoleti e
sclerotizzati. L’operazione svecchiamento relega all’indice cascami di
mellifluità e zuccherosità, per farsi voce ed espressione di un contesto
sensibile alle sollecitazioni di un neocapitalismo dalle più aberranti
prospettive ed aspettative.
Su pagine e pagine di
tradizione letteraria colta e borghese la catapulta di una cultura del
rinnovamento, protesa a riflettere, sulla scia del Vittorini, sulla cosa
industriale e sul cambiamento che essa cosa industriale provoca su
ogni altra specie di cosa.
La provocazione è raccolta da
una miriade di novelli maudit: attizzano il dibattito vita-letteratura
stimolati, negli anni d’oro del boom consumistico, dallo sviluppo
dell’industrializzazione e dal fatto che alcuni, come Giuseppe Vetromile, di cui
intendiamo illustrare la fattiva attività, provengono dal pianeta
fabbrica.
In quanto impiegato Fiat,
il Vetromile sa che l’operaio quanto maggiore valore produce tanto
minore valore e dignità possiede; quanto più bello è il suo
prodotto tanto più egli è stressato, alienato, nevrotico.
Al vaglio della nuova realtà,
il Nostro è tra quanti si consapevolizzano il modus loquendi tra
emittente e destinatario non può ormai ignorare i problemi tecnologici,
psicologici, etico-filosofici della sociologia industriale, scientifica,
democratica. Di qui, per divulgare gli effetti deleteri della meccanizzazione
del lavoro sul salariato, la necessità ineludibile di una comunicazione emendata
da sovra strutture e da artifici bizantineggianti. Senza rinnegare il vichiano
divenire ab aeterno del processo linguistico, il Vetromile, con un
fenomeno di osmosi o di contaminatio, si cimenta a byssare sul sistema
grammaticale e sul tessuto lessicale della sua poesia la nomenclatura della
fabbrica con la connessa griglia di accidenti e precarietà che danneggiano il
suo uomo basso, ancorato ad una vita di umiltà, intrisa
di materia e di regole fisse. Condizionata da algoritmi, asintoti
cartesiani, diodi, loop di silicio, sistemi-robot,
sorrisi-comandati. A corredo atomi di baci, atomi di cuore,
manifesta estensione della chimica e della sua terminologia all’amore.
È l’adozione di uno
sperimentalismo e di una varietà di neologismi oggi entrati di prepotenza
nell’uso del parlato, ma coniati dal Vetromile ed inseriti nella sua vasta
produzione in tempi in cui l’aristocrazia castale della midcult boxava
con la masscult.
Una scelta di codici inversi;
un itinerario volutamente sliricato: vede la luce nel grigio della fabbrica;
cresce sui rulli della catena di montaggio; si adultizza sulla mappa di
memoria del computer; matura sull’internauta. La più che
trentennale esperienza di dipendente, dapprima Alfa, in seguito Fiat,
consente a Pino di metabolizzare, dell’habitat lavoro, le caratteristiche
ambientali e socio-psicologiche fino a tradurle nell’immediatezza del messaggio
versale, altalenato tra l’oggettività dell’osservare, che non snatura turbamenti
e trasalimenti, e momenti di fusionalità amicale. Specialmente quando gli
altri, con cui il poeta ha condiviso lotte scioperi problematiche di
assemblee con i luminari del lavoro che tentano fiabe, lo hanno
fagocitato con filigrane di pensieri. Spontaneo sbozzarne ritratti se si
cavalca la stagione in cui la presentificazione dell’ieri fisionomizza una
cripta di passato da cui è pressoché improbabile distanziarsi. Allora le
vicende di un dì esalano l’acre-dolce della malinconia e
in bocca si assapora l’amarognolo delle cose perdute, pronte a vivificarsi e a corporizzarsi con blitz nella memoria. Ovattata da un nebulo si
approssima la retrospettiva dell’a ritroso,sbobina fotogrammi di
giorni sempre uguali, ne estrapola e traspone sul panorama poetico flashes
di figure in lavorazione. Volti anonimi per il lettore, non per l’autore:
intercettandoli nella routinizzazione della loro operosità di servizio e con il
fardello delle preoccupazioni consustanziate, li
umanizza dimostrando, malgrado la spersonalizzazione introiettata, che anch’essi
hanno tratti fisiognomici delineati, identità propria nella mente oltre che
nell’immaginario del Vetromile.
Nota distintiva degli
acquerelli un bisogno latente di individualizzazione, soggettivizzazione,
indivisibilità dell’io, incasellato nella teca su cui spicca, con il vivismo
grafico del neretto, del corsivo, del tondo, l’antefatto proemiale, sintetizzazione ed abbrivio di quanto suggerirà il frammento in rima. Trovata
originalissima: insieme con il nome, il numero di matricola, la data e l’ora
della composizione a pie’ di pagina, ogni storia si connota con brochure
che incornicia il protagonista in uno spazio che pulsa vita.
Tale Salemme, magazziniere
integerrimo, costante, preciso, cumuli di turnazioni spese a
rifornire pezzi di ricambio, / in cambio di un sorriso o un pianto
firmato.
Un’esistenza abbrutita dalla
macchina inchioda il signor Empedocle C., addetto tecnico, alla vecchia
valvola d’ottone, sfornita di guarnizione. Di sera se ne va
solo lungo i sentieri della sua amica luna, prototipo della spossatezza,
del solipsismo dell’uomo copernicano e contemporaneo.
Storie! Storie come tante,
senza principio e senza fine; storie di ieri, di oggi, di sempre; storie come
quelle di Ginestra C., donna delle pulizie. Lontano dalle favole lava
lavandini! e gabinetti nella ditta F. Non è tutto. Nata
negli affollati letti del quartiere, Ginestra, recita la sua carta-prefazio,
andava raccogliendo / … messi e provvigioni indecorose / per integrare il
suo piccolo salario / di finemese. Un prostituirsi, insomma, legittimato dai
bisogni coattivi della quotidianità; un barcamenarsi tra mercimonio ed istinto
di sopravvivenza. Il fato, per lei avaro di bellezza e prodigalità, la
schiaffeggia, marginalizza, cosifica. Non a caso si chiama Ginestra, umile,
fragile, flessile come il fiore di cui porta il nome. Forse, tabula rasa
di sentimenti, è contenta dei deserti interiori; forse, anche lei,
renitente a forme di ribellione, ma forzosamente trasgressiva e
decodificata,vuole, come gli uomini del Vangelo, piuttosto le tenebre che la
luce.
Anni-luce intercorrono tra
Ginevra e Maria, così segretaria, suggella il Vetromile nella scheda di
presentazione.
Maria si sposta con
disinvoltura fra gli anditi vetrati / anodizzati / e tra la hall
e l’ufficio del direttore / sublima lettere modello /
rimediando un labile sorriso. È ineccepibile. Votata al lavoro, ha
castrato la sua femminilità, ha rinunciato all’amore. Automatizzata,
lasciandosi alle spalle il canto della luna e delle stelle, non sa quanta
poesia può esservi / nel dolce cuore d’una donna /
segretaria che il tempo non ha mai/ per amare. Altra dalla Carla
Dondi di Elio Pagliarani. Creature agli antipodi: l’una affetta da doverismo
maniacale, l’altra di anni diciassette primo impiego
stenodattilo, con l’obbligo di pulizie alla TRANSOCEAN LIMITED. Sua prima
cura la mattina prelevare dallo sgabuzzino la scopa e il piumino.
Carla spiuma i mobili / Aldo Lavagnino coi codici traduce
telegrammi… / e una signora bianca ha cominciato i calcoli / sulla
calcolatrice svedese.
Un raffronto analogico per
similarità di tematiche e sliricizzazione del livello aulico della poesia,
ripudiato a sostegno di un parlato cromatizzato da volt, marcatempo,
anditi anodizzati, luceteca e dagli etimi virtuali bit, failure,
input, interrupt, resettare, time-out. Un lessico
condensato, ma soltanto registrato per stemperare questioni che investono
teoremi esistenziali.
Poeta dell’identità
vita-letteratura, il Vetromile sa decrittare nell’uomo-robot, pur nel pieno
della debilitazione fisica e psichica, oasi di disalienazione, frazioni di
secondi che gli schiudono sentieri meno impervi, addolciti da un sentire intimo
e segreto, antidoto alla catena di montaggio e alla disumanizzazione dei ritmi
di produzione martellanti. Dipana l’altro polo della scrittura vetromiliana: non
raschia il metafisico o il trascendente perché la sua musa, disertate le pendici
del Parnaso, trae linfa dal contingente con apostasia di arzigogoli alchemici.
L’impressione che se ne ricava è di cointeressenza: come nelle precedenti
sillogi, pubblico e privato nei Ritratti in lavorazione si intersecano
sulla traiettoria dell’essenzialità, spoglia di edulcorazioni e sdilinquimenti
sentimentaloidi.
Attraverso la parabola che
dal 1979, anno della pubblicazione de Il deserto, conduce agli albori del
III Millennio, il Vetromile passa dal boom dell’industrializzazione alla
crisi dell’industria: coincide col trattamento pre-pensionistico. Si amplia, con
gli impegni culturali, il delta da consacrare alla poesia; dilata l’area del
pensare e del meditare, si fa completo il godimento della famiglia, della casa
vissuta, durante lo standard del lavoro, con la sindrome del mordi e
fuggi. Al pari disserrano i labirinti della memoria: antifrasticamente al
Leopardi, ha un lungo corso da compiere la cineteca dell’ieri per
ritrovare, con l’andare indietro del cuore, le passate cose che si
animano e danno vita, antemurale alla difficoltà di adattamento ad una
effettività di incertezze con l’angoscia di notti prolungate da un sonno
intermittente,gretto, affinché non intervenga / - improvviso e
sibillino - il colpo del destino a cancellarci dalla memoria del
pianeta. Pensieri lugubri, insoliti, indubbiamente imputabili all’incupire
generazionale; alla contezza di avviarsi sul viale del tramonto: dardeggia fuoco
il disco del sole; ingombra di bilanci e consuntivi l’ultimo quarto del cammino;
smorza il cantico dell’uomo basso e si approccia ad
uno spartito su cui consuonano note di tono esistenziale: derivano dall’ipotesi
di un domani dall’equilibrio instabile, dal senso di fugacità e
provvisorietà; dallo spettro di un’inarrestabile corsa verso l’altrove.
Opacizza la sagoma del casamento di metallo e fumo: il monito è
andare / a bruciapelo ad aprire i cancelli della fabbrica:/ il mito
degli ingranaggi addentellati / e delle pulegge che trascinano a
inusitati / spazi di sole, non ha più senso né vigore.
L’angolo osservazionale si circoscrive a persone e a cose, sotto la spinta di un
ilozoismo inedito. Accade, lontano dai frastuoni assordanti, di scoprire di star
bene con sé stesso e col proprio pigiama; si almanacca sull’inviluppo
di calore che viene dalla casa, sulla vestaglia vuota di te, ai
piedi del letto.
Casa, antitesi di fabbrica:
sostituisce, nella seconda sezione dei Ritratti, matricola e nominativo
del soggetto scolpito nella fissità in libris. Casa, luogo dove il poeta
si inventa viaggi che esplorano i sogni e dai sogni ritornano al transeunte per
continuare a scrivere su un taccuino ancora intonso altre pagine, per
cercare altre cose nell’universo dell’a ritroso con il
battito dell’andare indietro del cuore.
Così, compagna
mortale, la poesia conseguirà altra vita. | |
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