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Tra arte e storia
La raffinata scrittura di Anna Banti (1895-1985)

Nella grande varietà della scrittura femminile che, nel ventesimo secolo, ha dato vita ad una letteratura ricca di fermenti e di problematiche, un posto a sé occupa certamente la scrittrice Anna Banti le cui narrazioni, sempre in bilico tra passato e presente, ci interessano ancor oggi, e non tanto per l’attenzione alla condizione femminile, quanto per la raffinata scrittura con la quale l’autrice ha saputo rappresentare, nei vari personaggi dei suoi romanzi, le più complesse situazioni psicologiche.

Chi ha conosciuto Anna Banti la ricorda con sentimenti misti ora di affetto e insofferenza ora di ammirazione e avversione. Certamente era una “donna d’eccezione” e dal carattere elitario.

Scrive di lei Cesare Garboli: “Viveva come una qualunque signora borghese, ma con l’alterigia, la severità, il contegno sprezzante, la solitudine di una regina o di un’imperatrice. Si guardava e si studiava allo specchio, come tutte le donne, ma dentro uno specchio immaginario, fuori dai tempi presenti, fuori dal disprezzato, odiato, insopportabile oggi.”(1)

Era il suo carattere, prima ancora della sua fantasia, a trascinarla verso il passato “a curiosare e rifarsi con il piacere della Storia [….]. Sotto certi aspetti, era una donna sfortunata, e forse per questo così scostante, inavvicinabile, autoritaria; di carattere imperioso, si adattava con sforzo a praticare la diplomazia a cui certi impegni la costringevano; e soffriva in segreto”(2)

Nata a Firenze, da una famiglia di origine calabrese, visse per lungo tempo a Roma e a Bologna, per poi ristabilirsi definitivamente a Firenze. Fondò, con il marito Roberto Longhi, del quale era stata allieva in una terza liceo del Visconti a Roma, la rivista “Paragone” dirigendo per diversi anni la sezione letteraria. La sua innata passione per le arti figurative la portò ad interessarsi agli inediti e a cimentarsi in critica d’arte.

Il matrimonio con il più grande studioso e critico d'arte del tempo, deviò, tuttavia, la carriera di Lucia Lopresti, che proprio su consiglio del marito, incominciò a scrivere romanzi. Così, per non offuscare la luce dell’uomo amato, cambiò il suo nome in quello di Anna Banti, una zia della madre "straordinariamente bella", che ella aveva conosciuto in gioventù e si diede alla narrazione.

Il suo primo racconto, Itinerario di Paolina (1937) piacque tanto ad Emilio Cecchi che non esitò a collocare “questa inaspettata Anna Banti” fra le narratrici “complesse e riflesse” pur temendo per i libri futuri un “soverchiamento delle qualità logiche […] su quelle emotive”.

La sua personalità, decisa e forte, mirava, anche in letteratura, a mete alte e non poté passare inosservata. Si racconta che Bernard Berenson, storico dell’arte statunitense, quando, dopo anni di lontananza, incontrò il collega Longhi, gli chiese con un po’di ironia e cattiveria: “Come ci si sente a vivere con un genio?” Ovviamente anche in quell’ambiente, fortemente maschilista, la Banti era apprezzata e… temuta.

Fu instancabile e pubblicò continuamente saggi racconti, romanzi. Chi oggi legge i suoi testi avverte subito la ricerca del gusto: all’intreccio narrativo ella sostituisce un intreccio di “motivi” coordinati in modo tale da dare l’impressione di sequenze musicali, ove i sentimenti si confondono con il fondo oscuro della realtà. Una scrittura originale, ricchissima di tonalità, capace di orchestrare gli ingredienti più diversi.

Nei racconti Il coraggio delle donne, il romanzo Sette lune e le prose raccolte in Le monache cantano sgorga l’intelligenza che penetra ogni parola e un senso d’inquietudine e di sofferenza rispecchia, chiaramente, lo stato d’animo dell’autrice. Restano indimenticabili fisionomie di donne come Amina, Ofelia, Lavinia (Lavinia fuggita è considerato uno dei racconti più belli del Novecento) e c’è la percezione che la scrittrice persegua modi pittorici: ogni volto è accarezzato da una fantasia mesta e tutti ricordano Modigliani.

L’arte della Banti riesce a cogliere l’anima femminile proprio nel momento in cui sente tutta la sua pena di stare al mondo. Non a caso i personaggi preferiti dalla Banti sono donne. La donna per lei è simbolo di una condizione umana da definire e difendere da assurde convenzioni.

Donne del presente e donne del passato, ma sempre con lo stesso pathos, con la stessa ansia.

La scrittrice ama viaggiare su due sensi contrari: da un lato ripercorre il realismo ottocentesco di Manzoni, Verga, Balzac e dall’altro quello novecentesco del quale assorbe e metabolizza i fermenti. Anche con la Storia la Banti ha avuto un rapporto singolare e, a tale proposito, il Garboli scrive: “La Banti si getta sui documenti, li studia, delimita un campo d’azione, e di lì in poi l’immaginario devasta, violenta, infierisce, fa esistere e intreccia psicologie, persone, destini (…) La ricostruzione si complica d’interessi che fanno trionfare la psicologia, la fantasia, l’io, … come in Artemisia e in Noi credevamo, dove si direbbe che gli scenari siano stati dipinti con tanta cura, con tanta arte, non solo per dare realtà ai fatti immaginari che vi sono ambientati, ma anche, e forse più, per disperderli, e aggiungere alla polvere e alla caducità della Storia un’altra negazione, un’altra perdita, la vanità delle nostre immaginazioni e delle nostre favole” (3)

Il cosiddetto “realismo magico” è ripreso dalla Banti con più forza, ritorna quasi a sensazioni originarie, dove le ragioni e i motivi della vita si perdono e ne subentrano altri, incontrollabili e capricciosi.

La statura intellettuale di questa scrittrice si può misurare dalla lettura di Artemisia, romanzo considerato il suo capolavoro: è la storia della pittrice secentesca Artemisia Gentileschi: scritta una prima volta intorno al ’44 , fu poi riscritta nel ’47 in seguito alla perdita del manoscritto durante le distruzioni della seconda guerra mondiale. Ma furono quelle tragiche circostanze a dare al lavoro, a guerra finita, un poetico sfondo di memoria. Il romanzo si discosta dai soliti schemi (del romanzo in genere e del romanzo storico) e prende l’aria di una libera fantasia. La narrazione procede come se l’autrice, attraverso la memoria, stesse componendo sulla tavolozza un quadro, con pennellate precise, ma rese a sbalzi ad intervalli scanditi dagli impulsi del ricordo. Nella Roma del Seicento, la figura di Artemisia si dilata, smorza i propri contorni ed assume i simboli di una coralità totalizzante.

Dopo Artemisia seguirono molte altre raccolte di racconti e romanzi ; si ricordano soltanto La camicia bruciata, Il bastardo, Le mosche d’oro, Noi credevamo.

Oggi i suoi libri sono introvabili, se non nelle biblioteche, ad eccezione di Noi credevamo, riedito da pochi mesi negli Oscar Mondatori, in occasione della presentazione del film di Mario Martone, presentato a Venezia e ispirato appunto all’omonimo romanzo di Anna Banti.

Nel film, più che nel romanzo, si sono voluti sottolineare alcuni punti, spesso controversi dagli storici, come il ruolo de La Giovane Italia e dei mazziniani, l'indiscusso contributo dato dal Sud agli ideali del Risorgimento, il contrasto tra i sabaudi e i rivoluzionari, “le radici del divario economico/sociale nord-sud”.

Pubblicato nel 1967, Noi credevamo è stato – ingiustamente – ignorato da quella stessa critica che, circa otto anni prima, aveva salutato con entusiasmo Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e che, nel giro di poco tempo, avrebbe decretato il successo de La Storia di Elsa Morante. Difficile spiegare, però, la mancanza di successo di Noi credevamo, anche perché Enzo Siciliano, lo stesso anno della pubblicazione, su “L’Espresso “ scrisse un bellissimo saggio riportato oggi nella postfazione: “….La bellezza di questo libro non sta nella compattezza di scrittura, che pure esiste indiscutibilmente, o nella mimesi lievemente ottocentesca che lo colora – potresti dirlo un volume di memorie scritto da uno sconosciuto compagno di Settembrini. Ma sta nel sentimento feroce di negatività che lo anima da cima a fondo. (…) In questo libro è raccontata un’idea del destino scandita fino all’osso. (…) Esso dimostra che la storia corrode i valori: cioè che l’umanità nel suo stesso progredire è affetta da una malattia, da cui è impossibile immunizzarsi. ( …) un libro che stimola senza lusingare in nessun modo il lettore. Non lusinga neppure chi vorrebbe sentirsi consolare in certe sue delusioni ed amarezze di oggi con ammiccamenti a ieri…”

Anna Banti dà voce al nonno settantenne, don Domenico Lopresti di idee repubblicane e garibaldine; un gentiluomo calabrese orfano di un padre di ideali “rivoluzionari”, ma di famiglia retriva e borbonica. Egli trascorre dodici anni nelle carceri borboniche di Montesarchio e Montefusco, dove conosce, tra gli altri, Poerio e Castromediano, partecipa all’impresa dei Mille e assume, nell’Italia unitaria, la direzione delle Dogane calabresi.

Con un lungo racconto in prima persona, totalmente incentrato sul suo protagonista, in cui brillano per vivezza solo pochi altri personaggi, in gran parte legati alla vita personale di Lopresti, Anna Banti, accompagna il lettore in un percorso di disillusione che è quello di un italiano che ancora non vede l'Italia che ha lungamente sognato e di un “vecchio giovane” che pur anelando il distacco, ancora soffre aspramente per non aver raggiunto i propri ideali e che con durezza ancora si rimprovera i propri errori. Il titolo infatti racchiude il senso di amarezza di Lopresti e degli uomini che con lui hanno combattuto per nobili ideali; come a dire “noi credevamo di combattere per la libertà”, “noi credevamo nella repubblica”, "noi credevamo che finalmente ci sarebbe stata vera giustizia”, “noi credevamo di offrire un futuro migliore a coloro che amavamo”.

E… invece?…tutto è rimasto come prima…

L’opera infatti mette in luce problemi che ancora sono le piaghe del nostro Paese come la connivenza del potere politico con la malavita, la disparità sociale, la difficoltà di diffondere un vero senso di democrazia.

L’ultimo romanzo Un grido lacerante è considerato autobiografico. La protagonista è una scrittrice, Agnese Lanzi, moglie vedova di uno studioso. La vicenda sembra somigliante a quella di Lucia Lopresti che, dopo aver ritrovato un manoscritto del marito Breve ma veridica storia della pittura italiana, torna indietro di trenta anni e, mentre legge quello scritto, rivive scene che provocano in lei profondi turbamenti. Un moto di gelosia l’avvince e scrive il romanzo d’un fiato, come in trance. Alla fine la Banti chiarisce al lettore (e forse vuol ribadire a se stessa) il proprio rapporto con il tempo e con la Storia. Così si legge: Molte cose la gente immagina e crede sull’inevitabile declino della vecchiaia: ipotesi spesso sbagliate. Non è vero, per esempio, che la memoria dell’età tarda non registri il presente, i giorni e i fatti recenti, per rivolgersi soltanto al passato. Ora, l’esperienza personale di Agnese (è Lucia?) negava questo luogo comune. Per lei il presente era scontatissimo, un presente previsto, una specie di futuro indovinato, digerito, senza sorprese; mentre il vero passato rimaneva inerte, nella sua cassaforte, da cui poteva toglierlo a volontà, pezzo per pezzo, a capriccio, e senza soverchie compiacenze. In altre parole, lei non credeva al tempo, elemento disturbante, nocivo all’essenza della vita umana, la quale era tutta un divenire. Si sapeva che lei amava la storia e a volte glielo rimproveravano: ma, pensava, la sua storia era in continuo movimento, non quella fissata dalla tradizione e inchiodata dai documenti. Presente e passato sono un istante da catturare e stringere come una lucciola nella mano. Non ci riesce chi vuole.

Note

(1) Cesare Garboli, Anna Banti e il tempo (in “Pianura Proibita” Adelphi, 2002)
(2) Cesare Garboli, op.cit.
83) Cesare Garboli, op. cit.

Materiale
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