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Creature vere, che hanno conosciuto e vissuto l’estasi dell’amore e della poesia, l’angoscia della miseria e della fame, l’odio della persecuzione e della guerra, diventano i protagonisti di un romanzo, La scienza degli addii di Elisabetta Rasy. Sono Osip Mandel’stam e Nadezda Chazina, vissuti nella Russia della rivoluzione e di Stalin.

Realtà storica, vicende personali e sentimenti, vengono così raccontati – sulla base di un’attenta ricerca di testi, documenti e testimonianze – da una scrittrice sensibile come la Rasy ed assumono i contorni di una storia fantastica. Ma la realtà, spesso, supera ogni fantasia , specie quando essa viene descritta con senso di verità ed efficace taglio drammatico: dalle terribili condizioni in cui vivevano gli scrittori russi al tempo del regime sovietico, all’amore assoluto che lega il poeta Osip a Nadezda la quale diventa “la sua voce… diventa il suo sangue… lei sarà… l’ombra di suo marito, sarà l’ombra della sua voce…”.

Il popolo russo ha sempre amato ed onorato i suoi poeti e li ha amati con la stessa passione e commozione con la quale gli antichi greci ascoltavano i loro aedi. Anche Stalin dimostrò attenzione verso i poeti, gli scrittori e gli artisti in genere. Era ben consapevole che essi avevano un’efficace influenza sui cittadini e per questo li faceva spiare in ogni momento della loro vita anche perché essi potessero sopravvivere senza gravi problemi; telefonava loro personalmente preoccupandosi della salute di ciascuno perché in nessun modo voleva che espatriassero. Poi… molti li faceva uccidere nei sotterranei della Lubjanka o li inviava in Siberia da dove non tornavano più.

Osip Mandl’stam, uno dei più grandi poeti russi del Novecento e Ndezda Chazina appartenevano entrambi alla borghesia ebraica; si sono conosciuti a Kiev nel 1919 in un ritrovo per aspiranti artisti.

Nadezda rimase affascinata da Osip, dai suoi occhi, dalle lunghe ciglia e dal modo di scandire ogni singola sillaba nei suoi versi : “Ho imparato la scienza degli adii, nel piangere notturno, a testa nuda” . Si sono innamorati di un amore nutrito di poesia, perché nella poesia “una parola inaspettata ci viene incontro” e una luce sconosciuta, inattesa illumina entrambi.

All’ascesa di Stalin, Mandel’stam non può più pubblicare versi perché lui “non è un poeta contadino né uno scrittore proletario, né uno scrittore sovietico, è uno scrittore e basta” e ai “non allineati” toccava una dura sorte. Ma Osip, fantasioso, fragile e nevrotico, vive dei suoi versi e non riesce ad accettare una letteratura che sia lecchina del nuovo potere.

No, mai di nessuno fui contemporaneo, | non so che farmene di tanto onore”. E mentre la Pravda scrive con tono accusatorio che le immagini di Mandel’stam “sanno di vecchio, di putrido, di sciovinismo… di non comprendere la letteratura proletaria… di non vedere il dinamico processo di sviluppo…” egli continua a gridare che la poesia, è ricerca di verità. E ne difende la libertà. Il poeta vive allora di elemosine, racimola qualche traduzione e rinuncia a scrivere versi. Rinuncia a scrivere, non a comporre. Osip compone e Nadezda impara i versi a memoria e poi, di nascosto, li trascrive e li nasconde, poiché “la Russia è l’unico paese al mondo dove si uccide per una poesia”, una poesia contro Stalin, però: “… Le sue tozze dita come vermi sono grasse | e sono esatte le sue parole come i pesi d’un ginnasta | …Ha intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile | i servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilioOgni esecuzione, con lui, è una lieta | cuccagna ed un ampio torace di osseta.

Cosa resta di lui? Resta ciò che la moglie, grazie all’insegnamento ricevuto nella lontana infanzia dalle bambinaie francesi – “apprendre par coeur” – è riuscita a tramandare. Tramandare le opere del marito sarà il suo impegno fino alla morte. La memoria appare, in fondo, il nucleo del romanzo, la memoria metatestuale, antiproustiana, dettata dalla volontà di rendere eterno un cammino.

Da Pietrogrado a Tiflis, da Mosca a Gaspr, Osip e Nadezda si lasciano e si ritrovano “in una interminabile liturgia degli incontri e degli addii” fino al viaggio finale in cui Nadezda accompagna il marito al confino di Voronez, un lungo viaggio che sembra definitivamente spezzare la loro unione e “ribadire la scienza inesatta degli addii”. Era il 2 maggio del 1938. Osip morirà otto mesi dopo in un gulag siberiano: aveva quarantotto anni . Poco si è saputo della sua fine.

Nadezda, scrive la Rasy, “negli anni continuò ad ascoltare tutti i racconti dei reduci che avevano visto o credevano di aver visto (…) un uomo simile ad uno spettro.” Tutto poteva essere vero e tutto poteva esser falso: “nessuno che ti guarda, quando sei morto. Poi un buco nel ghiaccio…unico segno di riconoscimento, una targhetta metallica attaccata alla caviglia.” Chissà quante altre storie come questa, milioni di personaggi sconosciuti spariti nel nulla, in quei buchi di ghiaccio. Eppure né il ghiaccio né il nulla possono uccidere l’anima. Toccante l’episodio che la scrittrice narra alla fine del libro: “Quando era a Taskent, anziana e malandata, Nadja aveva fatto amicizia con una donna gentile a cui era morto il marito deportato. Nadja si era meravigliata che quella creatura, vecchia e stanca, continuasse a preoccuparsi del suo aspetto….non voglio che lui non mi riconosca nell’aldilà quando ci ritroveremo, le aveva spiegato la donna. Lei no, non si era mai curata troppo del suo aspetto, e dopo che Osja se ne era andato non se ne era curata affatto. Osja l’avrebbe riconosciuta comunque, aveva la vista di un’aquila anche se assomigliava ad un cardellino. Chissà se l’avrebbero riconosciuta gli altri, rugosa e sdentata com’era, tutti quegli amici, tutti quei poeti che erano andati all’unico paese straniero in cui si va senza “lasciapassare” – prima di Osip, insieme a lui, dopo di lui…”

7 giugno 2005

Recensione
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