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Perdita del patrimonio culturale augustano

Circolo Unione per Inner Wheel
e presso l'UniTre, 2000

L’argomento, che ci riguarda tutti da vicino, è ambiguo, perché suscettibile di approcci diversi. Se fossi un tecnico addetto alla tutela dei beni architettonici, lo affronterei in maniera tale che, dicendo tanto, in effetti potrei non direi niente; mi limiterei a ripetere all’infinito le stesse cose, prometterei le stesse cose. Convincerei l’uditorio e lo porterei a credere che la soluzione di tutti i problemi connessi ai nostri beni culturali è alla porta.

E questo indipendentemente dal fatto che ci siano o meno dei fondi consistenti destinati alla soluzione di tali problemi, fondi che di norma sono inesistenti o insufficienti. Chiamiamolo ottimismo professionale.

Da politico vi farei un discorso non molto diverso, ma con argomenti i quali, dovendo tener conto della realtà politica, quale è per esempio l’assenza cronica di adeguati progetti o fondi, girerebbero questi argomenti attorno al problema come un punto in una spirale che, partendo dal centro, si allontanerebbe tanto dal problema da perderlo addirittura di vista, ma lasciando tutti felici e contenti. In questo chiederei l’aiuto a parole di moda, a frasi come: Nella misura in cui …. In termini di….. che in effetti non dicono niente, ma sono apprezzate dall’uditorio. Chiamiamola arte oratoria.

Ma chi ha letto il PROCESSO di Kafka, oppure IL CASTELLO dello stesso autore, sa come una convincente proposizione stabilita dall’autore, possa essere subito dopo confutata da un’altra affermazione, anch’essa convincente, ed entrambe riferite allo stesso problema, che, come sapete, può avere una sola soluzione: in Kafka, la strana condanna di Joseph K. nel Processo e nel Castello la irraggiungibile disponibilità del signor Klam. Molto tempo fa, questa era un’arte oratoria detta ERISTICA. Ma se tale arte andava bene duemila anni fa, è possibile che oggi non risponda più ai tempi positivistici in cui viviamo.

Io non ho la responsabilità del politico, e nemmeno del tecnico addetto alla tutela dei beni culturali. Sono il cittadino il quale, come voialtri tutti, si guarda attorno e si accorge che qualcosa non va, si accorge di vivere una realtà diversa da come vorrebbe viverla. Ci si accorge che più il tempo passa, più la perdita del bene culturale progredisce, più egli si sente coinvolto, e talvolta reagisce. Allora, se il politico ed il tecnico parlano in positivo, il comune cittadino è portato ad esprimere il proprio pensiero in negativo: cioè, si limita a fotografare la realtà e a dirla così come la vede, così com’è.

Perdita del bene culturale: si noti che un senso di angoscia già emana dalla parola perdita, e non di meno quando essa è riferita anche ai beni materiali in cui e per cui viviamo, beni che fanno parte della nostra cultura e quindi della nostra vita. Ascoltiamo ora questi versi.

Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del Continente,
una parte della Terra. Se una Zolla viene portata via
dall’onda del Mare, l’Europa ne è diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,
o una Magione antica, o la tua stessa Casa.
Ogni morte di uomo mi diminuisce,
perché io partecipo dell’umanità. E così
non mandare mai a chiedere per chi suona la campana:
essa suona per te.

Questi stupendi e suggestivi versi, che ritroviamo nel romanzo PER CHI SUONA LA CAMPANA, di Hemingway, sono del poeta John Donne, vissuto in Inghilterra a cavallo dei secoli 16 e 17, ed esprimono in modo puntuale una convinzione totalmente estranea al credo autodistruttivo che ha caratterizzato la vita dell’uomo in ogni tempo della sua esistenza, dall’ invenzione dell’ascia di pietra alla bomba al neutrone.

Per tali versi, ogni distruzione e morte di un bene culturale, dovunque e comunque avvenga, ci coinvolge, tutti, perché noi facciamo parte dell’umanità. Ci coinvolge la distruzione dei Budda ad opera dei talebani in Afganistan, e ci coinvolge nella stessa misura la distruzione dell’area archeologica di Baghdad (l’antica Babilonia), operata dai bombardieri statunitensi in nome della libertà.

Credo autodistruttivo allora; ma da Caino in poi, anche credo distruttivo. Se per poco dirigiamo l’analisi, sia essa filosofica che sociale, in certi comportamenti umani, quelli diretti essenzialmente a distruggere anche il bene culturale, (vedi via dei Georgofili) si sarebbe allora costretti a dubitare della centralità dell’uomo nell’universo, si sarebbe costretti a dubitare di quel credo che definisce l’uomo un prodotto della spintera, della scintilla divina, fatto a immagine e somiglianza di Dio.

Assisteremmo in tal caso al trionfo della bestia sull’ uomo.

L’uomo, da quando da animale si è evoluto in homo faber, ha sempre costruito, ma ha sempre distrutto. La distruzione talvolta soverchia la costruzione. La mano soverchia la mente, come scrisse tanto tempo fa Democrito di Abdera, il quale enunciò che il progresso è opera della mano e non della mente; eppure la mano paradossalmente è mossa dalla mente.

C’è l’uomo costruttore, e c’è l’uomo distruttore nello stesso individuo; un coesistere di due identità fondamentali, come se la vita dell’uomo fosse governata da principi opposti e irriducibili l’uno all’altro. Per questo è stato inventato (?) il dott. Jekil e la sua antitesi mr. Hide.

Si potrebbe allora identificare nell’uomo, Ophis, il serpente biblico, il quale per autorigenerarsi, per confermarsi un essere eterno nella sua opera di autodistruzione e di rinascita, si morde la coda e inghiotte se stesso.

Si distrugge, si perde un patrimonio culturale perché non lo si conosce, o non lo si ama. A monte Tauro le ruspe hanno distrutto una realtà paesaggistica ed archeologica irripetibile, che faceva parte del nostro patrimonio culturale, ed altrettanto hanno fatto le ruspe in Gisira, e le industrie a nord e a sud di Megara: perché? perché quei patrimoni culturali non erano conosciuti.

Come se il metro, la capacità di ponderare, ci fosse sfuggita dalle mani, e l’incoerenza avesse preso il posto della misura pitagorica.

L’avete presente quel castelletto medievale, costruito nei pressi di Agnone?

Qui la stupidità, la criminalità intellettuale, ha soverchiato di molto la mente, l’intelligenza. Si è persa la cultura della decenza intellettuale. Siamo in presenza di un monumento eretto alla imbecillità umana. Viene da chiedersi: ma nelle nostre università, si studia la coerenza creativa, la conquista dello spazio vissuto, viste nelle tesi di Frank Lloyd Wright? il creatore della bellissima casa sulla cascata? Si studia Le Corbusier?

Di fronte a tali esiti, di fronte a questo annaspare convulso e confuso su temi elementari, scontati, che comunque non tengono conto dello spazio come funzione culturale, non si può chiamare a difesa l’evoluzione naturale del gusto, né il progresso scientifico e tecnico nelle costruzioni che imporrebbero determinate soluzioni. La verità è che non si progetta, ma semplicemente si calcola, senza tener conto della natura, che è il primo bene culturale in assoluto del quale si dovrebbe tener conto.

E allora precisiamo: quei patrimoni culturali erano sconosciuti non perché se ne sconoscesse l’esistenza, ma perché non se ne riconosceva il valore, il loro valore culturale non interessava; in ogni caso perché l’interesse privato ha soverchiato lo status culturale di quei luoghi.

La vita ha progredito, perché dove prima c’erano resti di vita preistorica, greca o romana, spagnola, antiche necropoli, oppure rocce, grotte, falesie geologicamente da tutelare, paesaggi da godere, elementi dell’ambiente naturale, insomma, dove c’era il vecchiume, ora ci sono tante case, belle o brutte non importa, ci sono castelli medievali e casette costruite alla biancaneve e sette nani maniera, ci sono industrie, discariche di immondizie, perché la mano ha operato il progresso enunciato da Democrito di Abdera.

Ci si mette l’uomo a distruggere, ma apparentemente ci si mette anche la natura: parallelismi possono essere visti in certi accadimenti tragici che hanno interessato sia il nord che il meridione d’Italia. E’ crollata la cattedrale a Noto ed è crollata la Basilica di S. Francesco ad Assisi; il fuoco ha distrutto la Fenice di Venezia, ma anche il Petruzzelli di Bari. Ma, che sia stata la mano di Dio a colpire o quella dell’uomo, c’è sempre un giudice che apre un fascicolo, perché la legge prevede così; e c’è sempre un giornalista che si precipita a dire che sul fatto c’è polemica; ma dopo che la mano ha colpito. Dopo che il bene culturale è stato profondamente mutilato o addirittura ucciso. Ma prima?

Prima della mano e del giudice sarebbe dovuta intervenire la mente, cioè la scuola.

Ad insegnare ai ragazzi cosa è il bene culturale, quale approccio è necessario per capirlo, rispettarlo, amarlo, tutelarlo. Educazione al bene culturale quindi. Meno guerre napoleoniche, meno guerre risorgimentali, meno guerre dei trent’anni e dei cent’anni, meno guerre delle rose, e più contatti con la natura, più verifiche sull’ambiente naturale. E qui, fortunatamente, ritengo di poter parlare in positivo. Vi è noto infatti che la scuola augustana, dalle elementari alle medie superiori ha cominciato ad osservare l’ambiente, criticamente, attraverso un programma di esplorazione del territorio all’interno e al di fuori delle mura cittadine. Ha la politica la capacità di andare umilmente dietro ai ragazzi?

C’è un bene culturale da tutelare, che non viene distrutto dalla mano, ma purtroppo dalla mente; e qui per la sua tutela non serve il giudice. Il meridionale che emigrando vuole dimenticare le sue origini, le sue radici, il suo dialetto, il suo stesso nome che spesso viene cambiato, Russo che diventa Rossi, il suo modo di vita che è cultura, scelta questa non fatta neanche dagli emigranti che fuggivano disperati in America, in Argentina, in Australia, i quali non hanno mai cercato di spezzare l’onfalos, il cordone ombelicale, che li univa alla propria terra. E’ confortante che giorni addietro a S. Biagio ci si fosse ricordati della comunità augustanese di Boston, la quale ha mantenuto inalterato il contatto con le sue radici.

E non dimentichiamo quei cervelli eminenti, che talvolta, fortunatamente non sempre, fuggono altrove, lontano dal meridione, perché incompresi o ignorati, disgustati dal favoritismo, altro male endemico che ci contraddistingue. Anche quei cervelli eminenti sono cultura, che il meridione ha perso e continua a perdere. La mediocrità che prende il posto dell’eccellenza. L’homunculus politicus che prende il posto dell’ homo sapiens!

Il meridionale che oggi vuole dimenticare il proprio dialetto, il modo di vita, che non sa più cosa significhi faretta, o sattania, tutte quelle manifestazioni esteriori che un qualsiasi studio etnologico suggerisce invece di mantenere vive nel cervello, nella mente, e nelle mani. Ogni parola che si perde, è un frammento di noi che muore.

Il bene culturale: chi è costui? direbbe don Abondio. Infatti, cosa è il bene culturale?

Si hanno le idee confuse, distorte, sul bene culturale. Spesso è l’estetica che viene posta a misura del bene culturale. Quella casa è bella? e allora è un bene culturale. E’ un rudere? e allora è da demolire. Demoliamo allora i castelli, che sono ruderi, le mura, che non servono più alla difesa. Come si può notare, sono queste una legge ed una misura sconcertanti, che generano angoscia.

Cosa è allora il bene culturale in questo vasto ambito chiamato Mondo? E’ semplicemente il retaggio, l’eredità che ci perviene da miliardi e miliardi di esseri umani vissuti prima di noi, i quali tra una distruzione e l’altra, hanno anche avuto il tempo e la volontà di creare qualcosa che gli eredi non hanno il diritto di distruggere, comunque ci sia pervenuto. Ed è anche e principalmente la natura, così come si manifesta, nella sua selvaggia bellezza, naturale interezza.

Ma l’uomo della strada non capisce questa necessità.

L’uomo della strada non capisce perché una estensione di territorio come la Gisira, o come la foce del Mulinello, oggi ridotte a letamaio, andrebbero tutelate in quanto ritenute naturalmente, paesaggisticamente, archeologicamente bene culturale, bene di tutti, universale, non capisce la necessità delle riserve naturali. E’ tutto terreno sprecato, dice, museizzato aggiunge il politico, se non possiamo costruirvi bei condomini con tante casette color rosa circondate da un robusto ed alto muro di cemento e da una bella ringhiera in ferro, alta e robusta, sulla quale ci si può piazzare uno dei sette nani o un leone stante, o un cubo in equilibrio instabile; ma quella ringhiera, che non serve a fermare i ladri, ci isola simbolicamente dal resto dell’umanità. Stiamo perdendo la cultura del buon vicinato. Non abbiamo appreso niente dalla cultura anglosassone, che è essa stessa cultura, quindi universale.

Colpa della personalità, non della cultura, perché spesso quell’uomo della strada è uno stimato professionista con un apparente solido bagaglio culturale.

Si dice che la personalità venga modellata dalla cultura, ma non è mai stato dimostrato che la cultura venga influenzata dalla personalità, anche se lo si pensa.

Sia la cultura che la personalità sono in effetti due isole lontane l’una dall’altra migliaia e migliaia di miglia, ma allineate sullo stesso parallelo. Se con un colpo di bacchetta magica riuscissimo ad avvicinare le due isole fino a farle coincidere, avremmo raggiunto lo scopo.

La personalità, modellata dalla cultura, modellerebbe a sua volta la cultura.

Ma oggi come oggi, questo miracolo è affidato alla deriva dei continenti, cioè all’utopia.

Da buon cristiano devo però credere; credere che il miracolo possa essere operato dalla scuola la quale, saggiando la personalità dell’alunno, può interferire nel suo sviluppo e indirizzarla nel senso giusto. Quindi siamo tornati alla scuola. La quale non a caso è detta maestra di vita comunque la si voglia giudicare, o politicamente organizzare o frantumare.

I nostri beni culturali, quelli di casa nostra, quelli che dovrebbero richiamare il turistica: quali sono, dove sono?

Tentiamo di elencarli: sommariamente.

Abbiamo prima di tutto il bene culturale più importante, la nostra vera identità collettiva, quella comunale, che è essa stessa cultura. Siamo augustanesi, e non è poco. Non ha profonde radici la nostra identità, ma è lo stesso un frammento di cultura da tutelare. E non servono le leggi.

Ammettere allora che la nostra identità comunale è emersa dal buio di una incerta e confusa storia con le deportazioni da Centuripe, da Elicona Montalbano e da Catania perpetrate dal sanguinario Federico II di Svevia, può infastidirci, ma non può essere ignorato e non può svilirci. Rinunciare ad avere come padre fondatore l’ imperatore Ottaviano Augusto, che in effetti non è nostro padre, non significa rinunciare alla nostra identità. E’ lodevole cercare il proprio genitore, specialmente quando si dispone storicamente di una incerta e confusa paternità. Si legge in storici della vita di Federico II, quali ABULAFIA ed HORST per citarne alcuni, anzi non si legge che l’imperatore abbia mai visitato Augusta. Uno strano padre quindi. La storia è storia, come ha detto recentemente il prof. Giuseppe Messina in una lezione tenuta in quest’ aula, malgrado certi sedicenti storici, in ogni tempo e in ogni parte del mondo, abbiano cercato e cerchino di modellarla sul loro metro personale.

Perché la vera storia è verità. Noi siamo gli eredi di un popolo deportato, coagulato attorno agli interessi superiori di Federico II di Svevia identificabili nel castello, ed ammettere ciò, riconoscere la nostra mutilata identità, è cultura.

Come ha scritto Giovanni Satta, citando Polibio, se alla storia si toglie la verità, quel che ne resta è un racconto inutile.

In ogni caso, nessuna teoria del mutamento culturale può eliminare il sostrato da cui la nostra identità, quella vera, storicamente riconosciuta, procede. Anneghiamo giornalmente i nostri desideri repressi in un medioevo crepuscolare, nel suo profondo e per noi incognito humus, lì dove i personaggi veri, compreso Federico II di Svevia, che certamente non era un santo, appaiono inventati. In mancanza di un padre vero, che ci abbia amato e non deportato, ci aggrappiamo alla ricerca di una identità fittizia, stanca, alla quale noi stessi alla fine non crediamo.

Stiamo perdendo il bene culturale chiamato storia con la S maiuscola.

Altro bene culturale, la cui perdita talvolta è irreversibile, è il territorio, ovvero il paesaggio.

Abbiamo il bene culturale chiamato mare, lo Ionio, verde come nessun altro mare a dire di Tomasi di Lampedusa, oggi inquinato anche da centinaia di migliaia di sacchetti di spazzatura che qualcuno, impunito, nell’ indifferenza generale, scarica a mare in qualche punto imprecisato della costa siciliana. Abbiamo un porto e due golfi, a includervi quello di Brucoli, i quali raccolgono reflui industriali, e incontrollati scarichi di fogne, e quindi sono perennemente inquinati, malgrado la legge, ma più della legge il buon senso, il dovere civico quando esiste e lì dove esiste, vieti di inquinare. Può il turista, qualora si decidesse ad attraversare i ponti, sopportare questi sconci?

A levante dell’abitato avevamo la marina di levante, una delle più belle e interessanti scogliere calcarenitiche gialle d’Italia, la pietra giuggiolena, che ha permesso di costruire il paese di Augusta, e l’abbiamo destinata da criminali a discarica di inerti e di rifiuti: interi arredi casalinghi, dai letti ai materassi alle cucine, dalle lavatrici ai salotti, vengono impunemente scaricati a mare, su una delle scogliere più belle d’Italia. Tutti i materiali di scavo di Augusta sono stati scaricati e vengono tutt’ora scaricati su quella scogliera. Fogne di calcestruzzo svettano sulla scogliera, spargendovi liquami, nella totale indifferenza. Eppure vengono commessi reati. Si ammazza la natura. Quale natura possiamo offrire al forestiero che volesse godere delle nostre plaghe? Siamo convinti di allargare il paese, lo spazio vitale, il lebensraun direbbero i tedeschi, ma dimentichiamo che il mare, quando perde il suo equilibrio, che si è costruito in milioni di anni, se lo cerca di nuovo e state sicuri che lo ritrova, anche a spese dell’ uomo, come hanno fatto recentemente i fiumi nel norditalia. Ha detto il papa in questi giorni: se l’uomo si fa tiranno della natura, questa prima o poi si ribellerà. Ma siamo preparati a capirlo il papa?

Questi episodi distruttivi della natura hanno dei cicli, che gli specialisti chiamano storici, talvolta centenari, ma si ripetono, come le glaciazioni. Abbiamo cicli ricorrenti di calma assoluta nel mare, prevedibili nel breve tempo, le secche di gennaio per esempio, ma abbiamo anche le mareggiate storiche, di massima traversia, che possono far danni. Allora ci sarà un giudice che aprirà un fascicolo ed un giornalista che annuncia l’insorgere di una ennesima polemica. E si dimentica che soltanto l’ingegnere idraulico può dialogare positivamente con le acque. Ed in ogni caso, anche turi pirruccio e vannuzzo sanno che la tecnica moderna permette di costruire strade su pilastri.

E la cultura del mare? Abbiamo decine di chilometri di costa, ma neanche un metro da utilizzare per fare il bagno, se non sfidando i rigori della legge e di tutti coloro che si sono appropriati delle spiagge chiudendo ogni possibile passaggio, anche quello pubblico. Agnone se lo son presi i lentinesi, ma è anch’esso inquinato per le innumerevoli fosse a perdere. I necessari vincoli imposti dall’ autorità militare, i limiti entro i quali agiscono le industrie, poco o affatto controllate, l’ inquinamento generalizzato del territorio costiero, le frane, i molteplici cancelli che chiudono anche strade pubbliche di accesso al mare, come recentemente ha pubblicato un quotidiano locale, ci costringono tutti su poche decine di metri di scogliera superinquinata a Santalena, anche lì comunque a recitare la parte dell’abusivo, vista la presenza anche lì del divieto di balneazione. Una massa di gente alla ricerca di un metro quadrato di scogliera, ecco a cosa ci siamo ridotti, noi che viviamo sul mare e poco ci manca che ci crescano le branchie come i pesci. Sconosciamo il nostro territorio litoraneo, ormai! l’abbiamo forse perduto. Quali plaghe litoranee possiamo offrire al turista? Il quale certamente non verrebbe ad Augusta per sorbirsi un buon caffè in un bar, o farsi una mangiata di pesci nel locale dove si mangia bene.

Avevamo le saline, ad est ed ovest dell’abitato, oggi dimesse per la poca resa economica prima e poi perché inquinate dall’industria. Lì dove prima i cacciatori indisturbati sparavano alla fauna stanziale e migratoria, oggi l’area fortunatamente è stata scelta da colonie di volatili, quali folaghe, cormorani, aironi ecc. Buona parte delle ex saline è stata fagocitata da bei condomini, ma ancora oggi, a distanza di decenni, non si riesce a capire che uno sfruttamento dell’area, sia ad est che ad ovest dell’abitato, in termini di valorizzazione turistica, sarebbe necessario ed utile per il paese; altrove, vedi Vendicari, ed altre riserve naturali quale ad esempio quella dell’Anapo, sono protette e date in gestione a cooperative di giovani, e vengono frequentate dai turisti.

Avevamo il bene culturale racchiuso nella parola pulizia; ci vantavamo di avere strade pulite, giardini pubblici puliti, territorio pulito. Era cultura. Era un nostro bene culturale, perché derivava dalla cultura del rispetto dell’ambiente. E i forestieri, i turisti della domenica, venivano ad ammirare i nostri giardini pubblici. Abbiamo seguito il suo evolversi e il suo dissolversi attraverso una serie di parole, la cui successione è sintomatica: MUNNIZZARU, SCUPASTRADA, SPAZZINU, NETTURBINO, OPERATORE ECOLOGICO. L’assessore alla nettezza urbana è diventato assessore all’ecologia. Ma oggi? Malgrado l’ evoluzione semantica del mestiere, ovunque si guardi, fuori e dentro l’ambito cittadino, ci si accorge che la pulizia è un lontano ricordo. Ed è sconcertante, angosciante, che noi si conviva con tale realtà senza che si reagisca, e la si ritenga normale, ed è ancor più sconcertante che tempo fa un politico si vantasse con me di aver censito non so quante centinaia di discariche abusive, mentre avrei voluto che si fosse vantato di averle eliminate definitivamente. Il censimento lo fanno già i cittadini, quelli che alla pulizia ancora tengono. Ma, signori, se questa è la realtà, essa non può essere attribuita ad altri se non a noi stessi. Per questa realtà non possiamo imprecare contro il governo ladro.

Avevamo due fiumi, il Molinello ed il Marcellino, già celebri nell’età classica, i quali hanno dovuto cedere l’acqua alla grande industria, per cui hanno perso la loro dignità di fiume e si sono ridotti a mendicare la parte meno nobile del rigagnolo o della fiumara. Il microecosistema di quei bacini idrici, come si intuisce in quello che hanno scritto i nostri concittadini Michele Bombaci e Giuseppe Rizza, in tal caso è andato a farsi friggere.

E che dire del Canale di Brucoli?

Il Canale è unico in Italia. Quanti di noi lo sanno? Tale prerogativa fu vista nel 16° secolo dal Fazello, il quale scrisse:

Questo fiume adunque ha la sua foce di rupi alte e sassose, della qual sorte io non mi ricordo avere mai veduto bocca alcuna di fiume né in Sicilia, né in Italia”.

E geologicamente, cosa dice la geologia, per la penna di alcuni professionisti non augustani?

Il Canale di Brucoli sembra un fiordo, anche se in miniatura, ma di origine non glaciale. Si preferisce pensare che esso costituisca una tipica rya invasa dalle acque marine in misura tanto maggiore, quanto maggiori sono stati, nel corso dei secoli, sia l’innalzamento eustatico del livello del mare, sia la sommersione di natura tettonica”.

In altre parole, l’attuale trasgressione Flandriana.

Quindi il Canale di Brucoli, che non è un fiordo, è l’unica rya d’Italia, dove rya in Spagna (dove le coste a ryas sono frequenti), è una valle fluviale fossile sommersa per sollevamento del mare. Quanti nostri ragazzi lo sanno, se la cultura locale insiste a chiamare fjordo il Canale?

Il Canale è stato sempre al centro dell’attenzione di gente di cultura non augustani. Basti ricordare l’Houel, che lo risalì in barca e vivacemente, puntualmente lo descrisse nel suo Voyage. Basti citare il Consiglio Ponte, che vi descrisse la sorgente di acqua sulfurea. E gli studi relativamente recenti del D’Arrigo, pubblicati su Rivista Marittima.

Oggi, che noi vogliamo turismo, dovremmo vergognarci a presentare al visitatore il tanto celebre Canale, ridotto ad un incontrollato parcheggio di barche, con il conseguente problema il quale, superando l’aspetto paesaggistico, rimane legato comunque alla sicurezza durante le ricorrenti piene del Porcaria. Ma quando dai vari enti preposti è stata firmata l’autorizzazione ad ostruire il Canale, unico caso in Italia e forse nel mondo, dov’erano i nostri ingegneri idraulici? Dov’era a balneare la nostra classe politica?

Altro bene culturale che pian piano stiamo perdendo, del quale comunque non stiamo godendo, se non si interviene in tempo: il patrimonio, l’immenso patrimonio archeologico presente sul nostro territorio, il vastissimo e vario patrimonio che ci perviene da coloro che ci hanno preceduti, coloro che ci hanno affidato in custodia questo territorio già dalla preistoria. Tentiamo velocemente di farne un inventario, che sarà comunque incompleto.

Il Castello di Augusta, che i forestieri ritengono nostro, e noi siamo costretti a dire pubblicamente, come ha dovuto fare Tullio Marcon, che non è nostro, per i motivi che tutti sappiamo.

Un bene culturale chiamato castello, che viene centellinato a rate e a pezzettini, per scopi i quali, seppur lodevoli quali possono essere manifestazioni pubbliche, conferenze, ma limitate nel tempo e nello spazio, ebbene, non è un bene culturale del quale si possa dire che sia fruibile. E’ fruibile un castello del quale il turismo possa disporre, per intero, in ogni momento, i cui spazi non siano da definire, alla politicomaniera, contenitori culturali che non significa niente, ma spazi fruibili, percorribili e basta. Biblioteche, pinacoteche, sale convegno, sale conferenze, sale concerti, teatri, musei, spazi affidati ai giovani che vogliono fare cultura. E ad Augusta ce n’è di ragazzi che vogliono fare cultura seriamente. Lo vediamo nella biblioteca comunale, che si è svegliata da un lungo letargo grazie a Marcella Fichera e senza voler screditare le precedenti responsabilità.

È, un castello, quella tessera del grande mosaico culturale sul quale leggiamo il passato, ma è anche un puzzle sul quale ognuno di noi può collocare un tassello; ma la condizione è che il castello sia vivo, nelle sue strutture, fruibili, capaci di produrre reddito, non solo culturale ma anche economico. Il castello di Lombardia ad Enna, quello di Milazzo, l’Ursino di Catania, il castello di Adrano dove esiste un bellissimo museo. E invece noi, nel nostro castello, che non è nostro, non possiamo entrarvi, se non quanto qualcuno, chiunque esso sia, decide in autonomia che sì, facendo un po' di coda, possiamo entrarvi, per quel giorno, per un breve itinerario, e sempre che ci sia lo spazio sufficiente a contenere in quegli spazi ridotti anche i nostri corpi.

Non più contenitore culturale, quindi, ma contenitore di massa.

Come se qualcuno, dentro o fuori Augusta, padrone assoluto del castello, si degnasse per sollecitudine o perché sollecitato, ma a suo insindacabile giudizio, di elargire benignamente il favore. Il re si è degnato, si diceva tanto tempo fa. Il re si è degnato di abbeverarsi a questa fontana, di dormire in questa locanda, di pisciare dietro questo muro.

E allora, visto che non possiamo entrarvi sempre, nel nostro castello, come invece si fa in quello di Milazzo ed in quello di Enna, e in tutti gli altri castelli d’Italia non sottoposti a particolari regimi, facciamoci una passeggiata lungo la stradella che costeggia il castello a levante, e vedremo come già le mura si piegano, si spezzano, vengono frantumate dagli alberi di fico e dagli eucalipti, cadono, rovinano, tendono a smottare verso il mare, compresa la stessa stradella sulla quale stiamo camminando, che non è antica ma modernissima, ed anch’essa smotta, forse per simpatia, verso il mare in quanto costruita a regola d’arte sul niente.

E ancora il Castello di Brucoli, che è un immondezzaio, e anch’esso non si può visitare.

Ed i forti Garzia e Vittoria, i cui tetti crollanti sembra abbiano destato l’attenzione della responsabilità, ridotti questi forti a parcheggio/immondezzaio di navi in disarmo o sotto sequestro, che oggi fortunatamente l’autorità militare sta eliminando, ma anch’essi non si possono visitare.

E la torre Avalos, che tutti sappiamo che c’è, ed il nostro approccio al monumento si ferma lì, perché torre Avalos, come gli altri monumenti che abbiamo elencato, è inaccessibile, è tabù. Eppure sappiamo che la Marina Militare ha dismesso i suoi interessi sul monumento, il quale potrebbe essere immediatamente aperto al pubblico, ma non per tenervi conferenze ma semplicemente per essere visitato.

E la ricetta di Malta, che fortunatamente conosciamo per quello che ne ha scritto e graficamente rappresentato Tullio Marcon, e per quello che vediamo dalla strada, ma non possiamo visitare.

E ancora la basilica del Murgo, nostro sviscerato vanto perché voluta dal c.d. nostro fondatore Federico II di Svevia, che tutti sanno che c’è ma pochi sanno dov’è, cos’è, com’è e di chi è.

Abbiamo anche Adonài, un piccolo gioiello incastonato nell’ex incantevole paesaggio di al giazirah; ma quanti augustanesi, a parte gli abitanti di Brucoli, lo conoscono? Quanti augustanesi sanno che Adonài è uno dei più antichi cenobi di Sicilia, che l’agiografia ha nobilitato ed i ladri hanno spoliato di tutto, quadri, arredi sacri e profani, mobili, manoscritti, libri, di tutto insomma; e nessuna autorità, per quanto mi consta, ha mai risolto il mistero della sua completa spoliazione.

E naturalmente Megara, momento positivo, una delle più antiche e interessanti colonie greche siceliote, la patria di Epicarmo, motivo di gemellaggio con Mégara Nisea, vanto di noi augustanesi, che mai vi abbiamo speso un soldo, e che pochi augustanesi conoscono, benché sia l’unico monumento archeologico oggi accessibile, godibile nella sua interezza, sul nostro territorio. Ma se alla turista vien voglia di far pipì, dove la fa? E le zecche, chi le controlla?

E l’archeologia preistorica, i siti preistorici dal Paleolitico superiore su su fino alla colonizzazione Greca? Quei siti che ci dimostrano come il territorio di Augusta non sia stato scelto e popolato con le deportazioni dugentesche, ma molto tempo prima?

Non voglio includere tra i nostri beni culturali la colimbetra dedalica per almeno tre motivi: primo, perché non credo, ed oggi confermo il mio pensiero, che la colimbetra dedalica si trovi sul nostro territorio; significherebbe forzare la storia, già inquinata dalle azzardate ipotesi del Fazello; di conseguenza, non posso includere tra i beni culturali un’opera che, come il cavaliere di Italo Calvino, è inesistente; secondo motivo, perché manca il riscontro archeologico, che come sappiamo, se esistente, è stato neutralizzato dalla presenza invadente e distruttiva dell’ industria; terzo motivo, perché la colimbetra, diventata in Augusta non si sa perché un casus belli, ha perduto da lunga pezza la sua funzione culturale: in poche parole, è diventata una nostra categoria mentale, alla quale ci siamo aggrappati con i denti e con la fantasia più sfrenata.

Perdita del patrimonio culturale augustano dunque. Questo è il tema della serata. E desolatamente ci si accorge che si perde lentamente anche la cultura di far cultura, la vera cultura. E questo è tragico!

E allora si pubblicizza una serata medievale dentro il castello con musiche medievali, dove il pezzo forte è rappresentato da Summer Time di Ghershwin, e di musica medievale, nemmeno una lauda, neanche a pagarla a peso d’oro; costumi medievali federiciani del trecento toscano e del quattrocento veneziano, che con la Sicilia e con Augusta fredericiana non hanno niente a che fare, e ci si è dimenticati che i nostri antichi vestiti, o costumi, odorano della foggia siceliota, bizantina, araba, normanna, spagnola, francese e chi più ne ha più ne metta, ma non del trecento fiorentino. Ci si è dimenticati che Elio Salerno nelle sue Sfilacciature del dialetto augustanese accenna al c.d. capputtuni, che avrà origini augustane e certamente non toscane, ma che nessuno indossava in quella sfilata. Niente impedisce di credere che nel duecento e nel trecento augustano si indossassero prototipi di cupputtuni e bunache.

Si potrebbe discutere per ore ed ore, ed arrivare sempre alla stessa conclusione: pochi ad Augusta conoscono i suoi beni, i suoi valori culturali; se altri li conoscono, non li capiscono, oppure li ignorano; o ancora, se qualcuno conoscendoli cerca di valorizzarli, di favorirne la tutela, trova muri di gomma che vanno dalla ottusa burocrazia alla indifferenza quasi collettiva, anche quando la gente, gustando la piazza, l’agorà, il panem et circensem davanti alla torre bugnata del Castello, un luogo questo da nessuno conosciuto e amato se non da pochissimi eletti, si è trasmutato in massa, una massa di gente che del Castello ignorava tutto, ed il cui valore culturale alla fine gli era indifferente, solo un po' di curiosità fra una musichetta e l’altra, fra un discorso di buoni propositi e l’altro, uno di quei discorsi ripetuti all’infinito nelle pubbliche adunanze. Veniva ripetuto nell’agorà l’eterno rito, il vecchissimo rito mediterraneo di esaurire nella piazza, nell’agorà, il fine ultimo dell’esistenza.

Ma lì intanto, sotto la torre bugnata, fra luci e canti, fra tarallucci e vino medievali, si ignorava che in un angolo del Castello era degnamente esistito e degnamente rappresentato un bene culturale chiamato Museo della Piazzaforte, del quale si può dire, come per l’araba fenice, che tutti sanno che c’è ma nessuno sa oggi dov’è, o dove sia diretto.

Poche isole di intelligenza, poche persone, sia fisiche che giuridiche si muovono per la cultura, e tra esse sono da includere i Clubs di Servizio, i quali, muovendosi negli ambiti definiti dai rispettivi statuti, riescono ad inserirsi positivamente nella vita reale, nel tessuto di questo strano continente di indifferenza quasi collettiva che nel bene e nel male amiamo e chiamiamo Augusta: e a queste persone, credetemi, dobbiamo rispetto.

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