| |
Il tempo che trasforma
Ad
ogni sua uscita, Patrizia Fazzi riesce sempre a sorprenderci: avendo presentato
tanti anni or sono la sua opera prima ed avendo seguito passo passo la sua
parabola, l’ho vista crescere nella consapevolezza di una poetica che è venuta
configurandosi come una continua sfida, una vero e proprio nobile duello fra la
parola e l’immagine, fra la parola e la suggestione di infinito che sorge dalla
contemplazione della natura, fra la parola e la musica fino al raggiungimento di
qualcosa che non è più poesia sulla musica, o sull’immagine, ma musica e
immagine tout court!
Con questo ‘novum
libellum’ Patrizia rende esplicito, anzi fa in certo qual modo emergere un
filone per così dire ‘carsico’ che era sottilmente latente: il senso dell’umana
fragilità di fronte all’irreparabile scorrere del tempo; argomento certo non
nuovo, ma trattato con singolare ed originale potenza emotiva. L’operazione è
ardua e per essere credibile a se stessa, Patrizia ha bisogno di ripercorrere
certi sentieri già battuti, riproponendo più a se stessa che al lettore certi
capisaldi della sua emozione lirica e del suo pensiero profondo, giungendo di
fatto a comporre di sua mano la propria antologia! Il libro è una vera e propria
summa della poetica di Patrizia Fazzi e delle sue tematiche favorite.
La cosa che più mi ha
intrigato è il titolo del libro: questo “tempo che trasforma”. Già cosa
trasforma? Chi trasforma? Tempora mutantur, proclama Cicerone, e tutti lo
sanno e lo ripetono come un mantra, ma non tutti sanno che l’apodittica
esternazione continua: et nos mutamur in illis. Ebbene, l’Autrice,
imbevuta com’è di cultura classica, sembra farsene in qualche modo la vestale,
ma prendendone ostinatamente le distanze col sostanziale rifiuto di riconoscersi
in illis! Il tempo trasforma e le cose cambiano, gli atteggiamenti e i
giudizi cambiano: non cambia il nido di memorie, il nucleo profondo annidato,
abbarbicato nel cuore e nell’anima dell’Autrice che tutto contempla con antica
saggezza e tutto riconduce alla disarmata, incondizionata direi, ammirazione per
il bello, contemplando con sereno, di più, gioioso distacco, come quando si
guarda un panorama col cannocchiale alla rovescia, quell’inquietante e
misteriosa mescidanza di gioie e dolori che è l’essenza della vita. Il sole
d’ottobre può illudere, ma ciò che incombe è – cito parole potenti che rimangono
dentro - l’ansia che il filo si spezzi (p. 110), l’alito gelido / che
d’un tratto illumina a giorno / il declinare del tempo (p. 111),
l’erba che si allaga e il cuore che trema all’atto di girare la curva
(p. 111).
Il libro vira
inesorabile verso una sotterranea, palpitante richiesta di aiuto che può venire
soltanto dalla bellezza, quella bellezza che è però in ultima analisi ‘apàthe’,
inganno, come ci viene suggerito dagli abissi del tempo. Non è certo per caso
che l’Autrice, nella “Autoprefazione” si offre al lettore come uno specchio
bipolare, un volto lunare - cito testualmente – che da una parte
della pagina mostra l’anima di chi l’ha creata e dall’altra ti affaccia
sull’orlo di un giardino inatteso, uno spazio di tutti e di te, spero anche alla
soglia del bello (p.19). E qui Patrizia Fazzi, mentre il tempo
trasforma le cose, porta ad estreme conseguenze quella
sorgiva naturalezza con cui ha sempre trasformato il pensiero in pura musica,
senza fargli minimamente perdere di peso e di sostanza. Mi è capitato un’altra
volta di sottolineare l’essenzialità
immaginifica e lirica di certi merletti di parole impreziositi dal tono
apodittico e resi perentori dalla forma epigrammatica: in questo libro Il
tempo che trasforma, l’indagine sull’esistente mette un po’ da parte
l’aspetto gioioso, la naturale propensione a trasformare immagini e colori in
musica di sillabe e fonemi, per farsi veicolo di atteggiamenti più
universalmente pensosi, nella consapevolezza del dolore come pietra di paragone
dell’esistenza che è, in fondo, miele amaro dei giorni e vuoto dei
dies perduti che ci si può solo illudere di trattenere nei penetrali della
memoria!
Il cannocchiale, rimesso nel verso giusto, consente di contemplare con
serena disposizione d’animo le ‘lacrymae rerum’, le condizioni della grande
disfatta e della magnanima resa. Ecco i versi che chiudono la raccolta: Sento
la vita dirigersi / lieve ed inesorabile / verso il suo traguardo. / La strada è
in discesa / ma il motore fa fatica. / C’è silenzio nel cuore; / un’eco sorda
sale dai battuti sentieri. / Mi resta il respiro di mio figlio / e qualche parola
detta e scritta / con amore. Bellezza, dunque, che illude, e inganno che
fino all’ultimo si può fingere di ignorare.
| |
|
Recensione |
|