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Testi segreti

Ed è così. E’ quando tu hai assaporato tutti i gusti, e ti sei impossessato di tutte le fragranze e di tutti i profumi, e le tue orecchie si sono assuefatte a tutti gli urli e il tuo cuore non ha più nulla da perdere per tutte le lacerazioni subite e sopportate ed ora se ne sta lì ad ascoltare le grida di tutti i silenzi, di tutte le incomprensioni, di tutti gli equivoci e di tutte le attese vane. Quando il cuore non conosce più la lingua degli entusiasmi e resta indifferente a tutti i richiami che in qualche modo hanno ancora dentro qualcosa di vita.

La morte. La malattia della morte. Il sorriso della morte. L’eco – acuta e assordante – della morte. La realtà – l’unica realtà – che è la morte. Tu l’aspetti e se lei viene, tu ti offri a lei con devozione e senza rimpianti.

Dire così è da pazzi? Dire così è da sconfitti, da traditori, da guerrieri senza elmetto e senza fucile? Si può anche concludere così, ma la realtà vera: è così!

Hai corso. Hai lottato. Hai ascoltato. Hai sognato, offerto, amato. E non hai mai pensato che ciò che ascoltavi, sognavi, offrivi e amavi, poteva essere merce da rifiutare.

Ma come potevi pensare a questo?

Tu hai vissuto per realizzare il motivo della tua esistenza. Per dire a te stesso: adesso corro, perché devo correre; adesso ascolto, perché devo ascoltare; e così devo fare con la lotta, con il sogno, con l’offerta, con l’amore.

Non c’è mai una risposta; non c’è mai una spiegazione; mai una soluzione. L’errore sta lì, nascosto nelle pieghe profonde del tuo dentro, e non vedi e non senti. Non vedi e non senti la voce dell’errore, ma vedi e senti il soffio della vita che investe tutti i tuoi organi, avvolgendo di mistero il tuo cuore e la tua mente. Tu non vedi e non senti nulla all’infuori del soffio della vita, perché il trascorrere dei tuoi anni è lento e sordo; perché i richiami della morte sono troppo lontani; perché la tua indifferenza per le sofferenze altrui è impenetrabile, ottusa, gretta.

Tu vai. E anche se non sai dove, vai! Questa è la vita dell’uomo. Questa è la tua vita. E la meta è un grumo di aria nauseabonda, con aperture di respiri striduli e di risa sprezzanti. Non c’è cattiveria in queste aperture; non c’è il riso amaro della conoscenza; non c’è la spietatezza delle sepolture dei cadaveri.

L’aria nauseabonda della meta viene assorbita dai crepacci della tua finta lealtà.

Non c’è lealtà dentro il tuo cuore: ma tu non sai. E continui per la tua strada, convinto che l’eco dei tuoi passi non disturba nessun orecchio. E le buche – sulla tua strada – le salti, tutte, con la facilità della tua elasticità, di mente e di cuore. Nessuna buca è tanto profonda da impaurirti.

Così tu scrivi e vinci la morte.

* * *

Scrivi. Ed è così.

Se vuoi che tutte le buche delle tue tappe, tutti gli intralci delle tue sorprese, tutti gli inganni delle tue finzioni e le scappatoie, le ragioni, le puntellature delle tue falsità siano registrate per essere conosciute, criticate, valutate e apprezzate, occorre che tu scrivi.

Ma sai scrivere?

Scrivere non è formalizzare una relazione dettagliata dei fatti e dei regolamenti. Saper scrivere non è fare una bella descrizione delle tue relazioni sociali e interpersonali, di qualsiasi livello esse siano. Scrivere non è scrivere di giornalismo né di cose tecniche. Scrivere – saper scrivere è saper estraniarsi da tutto, a un punto tale che si può entrare in se stessi senza difficoltà, e così poter scavare, estirparne i segreti, le radici marce. Così, con la prodigiosa escavatrice del saper scrivere, ci si può esporre al mondo in tutta chiarezza, in tutta sincerità e crudezza.

Scrivere significa dire la verità, anche quando la verità può esporre tutto te stesso a una luce buia e assurda.

La verità non è mai capita da chi legge senza voler capire.

Scrivere è non esporre mai fatti, sentimenti, emozioni – sotto una luce ridicola.

Scrivere è saper dire le cose come realmente stanno, in modo tale che chi legge vede, qui e là, un po’ di se stesso; e così assente, acconsente, partecipa, si arricchisce dentro e fuori, e vede le cose in modo diverso da come le ha sempre viste.

Ma chi legge deve esserne convinto, di ciò che legge,

Ed è qui il segreto del saper scrivere. Convincere senza echi retorici, senza urla di pulpito, senza sospiri né lacrime né venti di tempesta.

Sì, nella grande scrittura ci possono essere echi, urla, lacrime e venti; ma tutti gli echi, tutte le urla, tutte le lacrime e tutti i venti portano il lettore – inevitabilmente – alla vera gioia, alla vera riscoperta di se stesso, alla vera sofferenza, alla vera ricchezza della mente e del cuore. Mai un soffio di retorica. Mai una sbavatura di carattere. Mai una debolezza.

La vittoria è il canto finale dell’apparente sconfitta; e l’apparente sconfitta conduce alla chiarezza di ogni presa di posizione, di ogni traguardo raggiunto: anche con le urla, anche con le lacrime, anche con gli echi stonati del cuore, anche con i venti che portano nell’aria odori acri, acidi e nauseabondi.

La vittoria porta alla visione certa della morte. Ma la morte non fa paura.

* * *

Sul cammino di Marguerite Duras, nel profondo dei suoi Testi Segreti, nell’incompiutezza delle sue sommosse interiori ed esteriori, nelle sue urla e nei suoi silenzi, nella presenza – ossessionante e inconfondibile – del mare…

In questa presenza, che per Marguerite Duras ha sempre rappresentato il movimento di tutta la sua vita, raccogliendo nelle onde inquiete tutti gli echi, le urla, le lacrime e i venti di tempesta della vita.

Il mare è Marguerite Duras.

Scrivere, per distruggere i fantasmi del domani. Scrivere, per restare in compagnia della morte, per distruggere la grandezza dei delitti di ogni tempo, per entrare nel mondo irripetibile della “purezza”, catturando i segreti della mente di chi vuol vedere fino in fondo la chiarezza dei perché della vita. Scrivere, per spogliarsi di tutte le complicità che devono essere messe in pratica per non dimenticare, per dissolvere gli incubi, le paure degli errori… ma di quali errori?

Scrivere per superare, infine, l’errore dell’amore.

E non solo.

Per cancellare l’orgoglio, la miseria, l’ingiustizia, il degrado sociale e razziale, la malvagità di chi si è messo al servizio della droga, di chi decanta il sadismo della propria agiata condizione sociale, di chi affonda nel liquame della prostituzione la propria depravazione spirituale. L’ombra delle emozioni non dà tregua a nessun passato e a nessun presente. Per il futuro, c’è la dolcezza della morte.

Scrivere, per cogliere l’attimo del nulla, che è il tutto ed è il segreto della vita.

L’incomunicabilità, la dissolvenza, l’imprevedibilità. Poi tutto ricomincia da capo.

Tutto ricomincia da un urlo e l’urlo può essere generato dalla gioia, dal dolore, dalla passione di un cuore abbandonato che non può dimenticare, eppure riscopre se stesso in ogni istante della vita, in ogni rapporto di amore, di desiderio, di tradimento.

E’ l’urlo di un cuore che non potrà mai fare a meno di amare e non potrà mai fare a meno di dimenticare e di respirare il vento distruttivo dell’amore.

Vita come amore, vita come urlo di potere, di rapina, d’inganno, di piacere e di godimento. Nella vita non c’è mai tregua, non c’è mai riposo.

La vita è un’assenza e la tensione dei rapporti umani, alla fine, trova l’acquietamento nel grande vuoto – buio, dimenticanza, alibi, fuga e altre mete, altre strade, altre conoscenze – dell’assenza.

Può accadere il cambiamento totale di una vita? La risposta è: la morte. La conoscenza della morte; la compagnia della morte; il richiamo amico della morte. L’immobilità si afferra e si sotterra; ciò che conquista è amare; amare fino al punto di non avere paura della morte.

Scrivere, per evadere dall’immobilità del tutto scontato. Scrivere per decidere di fare il salto: non importa dove, non importa con chi, non importa quali potranno essere le conseguenze del salto.

E’ un attimo, e già tutto cambia.

La vita è una lunga storia che perde pezzi lungo il suo cammino, poi li ritrova, poi li riperde. Ma dei pezzi, perduti e ritrovati, la vita non potrà mai dimenticarsene. L’assenza dei pezzi: di questo può dimenticarsi. Ma dell’assenza dei pezzi lei può dimenticarsi, quando questa assenza rappresenta l’espressività dell’ignoto, del non detto, dell’ovvietà e della quotidianità.

Lo scrivere va oltre le ovvietà; lo scrivere entra nell’immaginazione, nei delitti, negli incubi dell’impossibilità di vivere una vita ordinaria. Scrivere non ha confini; scrivere non resta circoscritto agli agi di una vita comoda e senza problemi. Scrivere estrapola la materia base del vivere della coscienza umana.

E i tabù sono le esperienze, buone o cattive, della vita.

Ma tutto vola via, aldilà del possibile, oltre i confini del detto e del fatto, oltre i disagi del non detto e del non fatto.

C’è un limite tra la vita ordinaria e la vita immaginaria? Non c’è risposta, il limite non ha senso e tutto il resto è pura fantasia.

L’implacabilità del desiderio; l’indissolubilità della dipendenza; l’imponderabilità dell’assurdo; la fatalità dell’osservare; lo studio infinito di un movimento prima dell’azione finale. Tutto è derelitto, tutto è impreparato alle sorprese della vita.

Tutto è perdizione: perché non scrivere di perdizione? Tutto è scenograficamente perduto. Occorre riprendere – dai corridoi scenici della vita – gli impulsi, gli intrecci, i pensieri, le intenzioni, gli scopi trovati, perduti, ritrovati e ripromessi. Tutto è trovato, tutto è perduto, tutto è ripromesso: l’eco delle risa tocca ogni angolo dei corridoi scenici della vita.

Finché qualcuno ti chiama e tu rispondi. Così è vita; così è la vita; e, forse, così è anche l’unico scopo della vita. E tu ti accorgi di tutto ciò, perché dal lungo e misterioso richiamo di una voce sconosciuta, tu estrai tutta l’eccitazione del piacere; e nello stesso tempo ti assale, anche, la paura che questa eccitazione può finire all’improvviso.

Scrivere è descrivere la passione dei sensi e la paura di perderla.

Scrivere è descrivere la noia, l’attesa, il deserto dell’esistenza. Ed è anche rompere la noia, l’attesa, l’aridità del deserto, immettendo fatti che vanno al di sopra di ogni scontata normalità. Al di sopra di ogni testimonianza. Al di sopra di ogni impenetrabilità, realtà, irrealtà, indagine, chiarezza, certezza.

Scrivere è anche andare aldilà dello scrivere stesso. Perché scrivere non ha tempo, non ha stagione, non ha luogo dove posarsi, non ha pensieri ben definiti e certi.

Scrivere è toccare con mano certa l’incertezza della verità e la realtà dello sgomento.

* * *

Testi Segreti, l’opera di Marguerite Duras che ossessiona l’anima, la mente, la psiche. L’opera che sintetizza vita e pensiero della scrittrice. L’opera della sua sofferenza, della scoperta di tutta se stessa, della spiegazione e della chiarezza di ciò che l’autrice vuole dalla vita: aprire, tutta, la porta delle sue determinazioni.. Dire al mondo intero quanto sia difficile chiarire ogni cosa di se stessi. Eppure il mettere, aperta totalmente davanti al mondo intero, la propria identità – la propria segreta identità –, è ciò che ogni essere umano ha il dovere di fare.

Marguerite Duras pensa così, scrivendo Testi Segreti.

E’ la grande utopia dell’esistere. “… Lei dice che vorrebbe essere picchiata… vorrebbe morire. Dall’immensità giunge una nebbia… altri sentieri, in altri luoghi… L’uomo insulta, percuote… il corpo si lascia colpire… è abbandonato al di là di ogni dolore… Poi vedo questa gente naufragata nel silenzio”.

Parole forti e brevi che scivolano via da – L’uomo seduto nel corridoio , il primo dei tre titoli dei Testi Segreti.

Lo scrittore deve scrivere tenendo a mente di scrivere per un film. Così facendo non scrive per se stesso, ma coinvolge il mondo intero. Ecco allora i propri segreti trasportati dallo scrittore negli animi degli altri. Poi tutto resta come sempre: lo scrittore scrive di se stesso servendosi degli altri.

“Voi non guarderete in macchina. Voi dimenticherete di essere voi”. “Voi siete il solo a rappresentare voi stesso presso di me… ciò che succederà. Voi, che siete in ogni istante per me, il tutto di voi stesso”.

“Il cinema non può registrare ciò che voi fate in questo momento. Procedete. Tutto si compirà a partire dal vostro spostamento lungo il mare”. “Siete usciti di campo, fotografate la vostra assenza. La vostra vita si è allontanata, resta solo la vostra assenza”. “Ho fatto un film della vostra assenza… Guardate in macchina, la cinepresa capterà la vostra ricomparsa”.

“Già avete dietro di voi un passato… Siete in pericolo… voi assomigliate a quello della prima inquadratura. Dimenticate ancora di più”.

“Nessun altro al mondo potrà fare ciò che state per fare: passare qui per la seconda volta per mia esclusiva volontà, e davanti a Dio… Non cercate di capire la vita, state per morire alla vita di voi stessi”.

“Non vi amo più, e non amo che voi… ancora”. “In quale storia ci siamo smarriti. E solo per via di questo film che so… so che nessuna immagine potrebbe prolungarlo”.

“Sapere che qualcuno non sapeva di vivere e di cui io sapevo che viveva… e non sapevo neppure che fare di me stessa”.

In questo secondo titolo – L’uomo atlantico , la cinepresa viene manovrata dallo scrittore per trafiggere l’anima dell’universo.

Terzo titolo – La malattia della morte .

Il non saper amare. L’impossibilità di amare quando si ha amato nel momento sbagliato; quando il cuore non poteva ancora conoscere l’amore (ma c’è, forse, un momento preciso perché il cuore ami?). Il cuore ama, il cuore ha amato, il cuore ha amato troppo e troppo in fretta e nel momento sbagliato.

Da quel momento nessun amore come quello è più possibile. Ed è la morte.

L’autrice dice: “Che cosa volete esattamente provare, tentare la cosa, conoscere questo, abituarvi a questo, a questo corpo, seni, profumi, bellezza, rischio dei figli, a questo volto, pelle, a questa coincidenza tra questa pelle e la vita che essa ricopre…

Provare… Che cosa? Ad amare. Che cosa ancora? Dormire sul sesso acquietato; là, dove tutto è ignoto. Piangere là, in quel punto del mondo. Anche me vorreste? Sì”.

Per non sentirsi più solo, l’essere umano vuole possedere totalmente un altro essere umano.

Ma così, non c’è felicità.

Perché il desiderio di allontanare quell’essere umano non dà tregua e la malattia della morte aumenta sempre più.

La malattia della morte, il non saper amare, il non saper offrire, il non saper creare una storia che abbia una fine che vinca la morte stessa.

Chi è portatore di questa malattia, sa che è portatore della morte. Dunque, colui cercherà sempre un corpo da possedere, per poi piangere su quel corpo perché vuole sbarazzarsene.

Questo portatore possiede perfino il tempo che occorre al corpo in suo possesso. E piange. Così il corpo dice al portatore: “Voi piangete su voi stesso come lo farebbe uno sconosciuto”.

Sì, dice la Duras, voi, portatore della malattia della morte, siete uno sconosciuto di voi stesso. Voi non vi conoscete e non volete conoscere nessuno all’infuori di voi. Voi vorreste che chi sta con voi sapesse perfino perché piangete.

Voi mettete il vostro pianto al di sopra di ogni cosa: il vostro pianto riempie il mondo per intero.

Ma il corpo che voi volete possedere vi sfuggirà. Perché quel corpo potrebbe cessare di vivere da un momento all’altro. Voi non avete mai amato un corpo, mai desiderato, mai guardato. Cosa volete? Forse, voi, volete uccidere quel corpo. Perché, in fondo, voi conoscete soltanto la grazia del corpo dei morti.

La grazia del corpo dei morti.

Ecco la vostra scoperta; ecco il vostro segreto. Voi scoprite che in quel corpo che voi possedete fomenta la malattia della morte. Qualsiasi parte del corpo voi toccate, quel corpo si chiude, procurandovi fremiti di sofferenza. Quel corpo vi sarà sempre estraneo.

Quel corpo che voi possedete dorme, sogna, si sveglia, si offre a voi, si riaddormenta. Un estraneo! Non c’è felicità, non ci sarà mai pace. Voi piangete e le vostre lacrime svegliano il corpo.

“Perché piangete?” chiede il corpo.

“Voi dovreste saperlo” dite voi.

Il corpo risponde: “Perché non amate”.

Voi affermate: “Non amo”.

“Mai?” dice il corpo.

“Mai!”.

Il corpo dice: “Voglia di uccidere un amante, tenervelo tutto per voi… contro tutte le leggi… contro tutti i precetti della morale”.

Voi ripetete: “Mai!”.

Il corpo chiede: “Mi si può amare?”.

“No… a causa della morte” rispondete.

Opacità, apatia, menzogna.

“Voi avete voluto uccidermi” dice il corpo. “L’ho capito dal vostro sguardo nel sonno. Perché?”.

“Non so… non ho la capacità d’intendere la mia malattia”.

Il corpo dice che lui non sapeva che la morte si potesse vivere. “Voi piangete per non poter imporre la morte. Non piangete, non ne vale la pena”.

“Voi dite: “Sono perduto. Ho sempre potuto essere libero di non amare. Adesso non so in che cosa sono perduto”.

Il corpo dice: “Spero di non sapere mai niente… nel modo in cui sapete: che viene dalla morte, che viene dalla mancanza di amare… Il giorno incomincia. Voi non incominciate mai”.

* * *

Questa è la realtà della morte, secondo Marguerite Duras. Non incominciare mai. Non incominciare mai ad amare. O meglio: avere paura di incominciare ad amare. Per non ascoltare – mai – il grido pazzo dei gabbiani affamati.

Recensione
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