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Albe e ne albe

Ci sono testi che per forza del dettato ed autenticità del sentire e del coinvolgere si offrono, fin dalla radice, come restituzioni preziose della terra in cui nascono, vivi e inquieti spiriti di una natura che ciclicamente ripete se stessa tra cancellazioni di memoria e sgomenti di fede. Entrando subito nel merito, a mio dire, sono lo sgomento e la fede infatti gli assi portanti di questa seconda prova di Mario D’Arcangelo dopo l’esordio di Senza tempe nel 2004. La terra – e la lingua che la racconta – sono quelle dell’area teatino-frentana di Casalincontrada; le urgenze quelle di un mondo che non riconoscendo più i suoi misteri rischia di interrompersi tra le asettiche – e pericolose – neutralità del moderno. Si muove allora questa poesia, o per meglio dire, si fissa, ricomincia sempre dove l’uomo nel suo recinto misura se stesso: gli affetti familiari, la devozione agli avi e alla casa, la cura della terra che viene dal lavoro e dall’amore in quel solco che fa, compie l’umano.

E’ una poesia di presenza pertanto quella di D’Arcangelo, a protezione o contro gli sfaldamenti di una natura che più non corrisponde a chi ne va interrompendo spirito e liturgie (l’uomo a sé sconosciuto in una civiltà dimentica delle proprie geologie di ascrizione). Presenza che è data per genealogia con le forme di una creazione che sopravvive e si manifesta nelle sue epifanie genitrici anche per e nella parola, la consegna, di chi prima di noi ne ha incarnato meraviglie e fatiche; gli avi, dicevamo, luogo essi stessi di un mondo da apprendere nelle corde delle sue rispondenze, prossimità fedeli sospese tra devozione e ritorni. Così se è vero, come avverte nella prefazione Fiorentino, che qui il tempo è “un tempo di abbandono, di perdite, di smarrimento”, è anche vero che il processo che questa crisi innesca può rivelarsi anche come tempo dell’opportunità alla luce dei suoi affidamenti e delle sue ripartenze, mantenendolo aperto e radicato nel dialogo con una terra che non smette mai di reclamare nel riconoscimento le proprie fondazioni. Perché nell’assenza delle condivisioni, nel silenzio e nell’indifferenza delle case, dove ” chi vo Criste / ognune se lo prehe”, l’alba vegliata da D’Arcangelo rischia altrimenti di rivelarsi una non alba, una infinita e aggressiva atemporalità di separazione che ci rigetta (e che la bellissima copertina nelle striature del suo cielo non chiarisce). Motivo, questo, posto fin dal primo brano a scansione del testo in quel riapprendimento che viene dall’azzeramento dello sguardo a cui il mistero per espansione e coinvolgimento si riafferma, riconoscendosi e osservandosi l’uomo all’interno di un medesimo destino di meraviglie e finitudini là dove anche la lingua ci incontra e fa vivi: “ Na voja stasejàte de chenosce, / nu sense sbahuttùte de lu monne”.

L’attenzione, allora, è al rimando che ne conferma il legame nell’affidamento domestico di se stessi, al punto di cerniera che ne rinsaldi o recuperi il segno. Una poetica degli elementi, dunque, una verità di sapienza – fatta anche di gesti e di riti – in cui antichità e prossimità convergono, incontrandosi o scontrandosi in una coscienza del reale sì severa ma sempre orizzontalmente rimessa ad una terra cui deve l’ascolto. Accostata con disponibilità umile, con rispetto, la terra risponde – riconosciuto l’uomo nella sua duplice identità di fanciullo e faber – si lascia ricomporre sprigionando ancora le sue preziosità e i suoi miracoli. Qui, nella pietà che ci investe, nello strazio delle separazioni, il poeta sembra stringere il centro di tutte le direzioni – di spazio e di tempo, di incanti e di memoria – il percorso trovando compiendo nel passo, nel sacco dove sui sentieri di orme grandiose raccoglie e preserva le gemme di una storia che richiede pronuncia. E racconto, dentro al paesaggio con Zanzotto ci verrebbe da dire , in cui le montagne e gli uccelli si fondono, pazienti a raccontare, a raccogliere tutte le lacrime (mute, quasi di pietra) insieme a tutti i sogni, e alle storie del mondo. Ma, il racconto del mondo ha bisogno di fede, dalla fede e dal Racconto nascendo. D’Arcangelo cristianamente lo sa, lo tiene a mente, soprattutto a partire dalla seconda sezione, “Aspettanne l’aurore” dove più forte è la veglia e la preghiera nel dialogo con la terra da cui nasce e a cui si rivolge, in un assenso che se in buona parte dei testi è dato spesso dal confidamento paziente – e mite – del cuore e da una speranza che cerca comunque di scuotersi dall’immobilità della paura, nelle quattro poesie dedicate al terremoto dell’Aquila si fa più urgente trovando il punto più alto di interrogazione sull’orlo di un’anima atterrita, ferita, mutila.

Di fronte a una terra che da fonte di vita s’è rivelata morte, nel buio più buio, nel delirio di lupi e di uccelli maledetti, la parola si leva verso un cielo più alto a cui è rimesso ogni appello nel conforto del pianto, ogni angoscia nei gesti da cui si riparte. Restituzione dolorosissima della gente d’Abruzzo, sulla cui dignità, sulla cui lotta non c’è rimando di “sone a stu lembe/ de ciele scerite, de vuce e campane azzettite”. Eppure, proprio qui, in chiusura di testo sembra spiegarsi l’eco dell’allodola che in “Rechiame” si scioglie nella misericordia delle attese (“la terre arenasce a lu cante”). L’uomo non è che partecipazione a quel coro, ci viene ricordato, incontro a ”la lume ch’allume le cile e le sunne de glorie”; nel disegno che pienamente ci svela e ci compie solo se per umiltà e in riconoscimento riposti. Questo forse il bene vero di un libro di cui possibilmente si raccomanda, per meglio disporsi alle sue scosse e ai suoi affetti ,una lettura a voce alta.

Recensione
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