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L'útema lune

Scrittura della disillusione, del buio che inabissa presenti e passate memorie nel cerchio di distanze non più raggiungibili, quella di Giuseppe Rosato, poeta sia in lingua che in dialetto fra i più autorevoli del panorama abruzzese (ma anche narratore e saggista- a lui si deve tra l'altro insieme ad Ottaviano Giannangeli la fondazione del Premio Nazionale di poesia dialettale "Lanciano - Mario Sansone").

Una scrittura dunque che si discosta da aperture di luce e rimandi in qualche modo posti a contraltare e barriera di un' inarrivabile e stabile cucitura di sé e del mondo e che allora in una narrazione che partendo da un dialogo con se stesso, nel conto di un'età ormai più che matura, nel registro di una voglia di vivere che viene a mancare, non può che osservarla nell'inerzia di giornate che si fanno infinite. Il discorso vertendo infatti, inevitabilmente, su un tempo che in realtà si rivela eternamente immobile, porta al conseguente smascheramento del nostro modo di percepirlo, nella lucida consapevolezza di una condizione umana al contrario soggetta velocemente a passare, a scomparire.

Il carico del giorno che porta a timide illusioni di notti sollevate, acquietate al tormento, trova piuttosto proprio nel sonno e nel sogno la malia della propria conferma entro ore ancora più lunghe, soffocate dal rovello di un peso avvertito più forte fino alla consegna, ogni volta, ad un mattino sempre uguale a se stesso, senza cambiamenti e ricominciamenti, senza nemmeno più teneri inganni. E non c'è luce, accennavamo, non c'è uscita se non nella parzialità dello spiraglio, dell'appiglio alle parvenze delle figure care di defunti che nel sonno sfilano di nuovo mischiate ai vivi, ai figli soprattutto, mentori di un presente che non li riconosce (almeno ai suoi occhi, cresciuti e indistinti in una oscurità più vasta) e che insieme nell'intreccio di una sostanza impalpabile (nell'evidenza dell'ombra, al tatto vagante della rivelazione, forse la sola vera) in realtà non fanno che incrociarsi giocando a confondere e, ancora, a smentire.

Quei volti tornati bambini che tremolando svaniscono sono la punta dolorosa della spina , della notte appunto che rompendo l' illusione di un risveglio possibile agghiaccia nella incrinatura di una morte piuttosto che può rivelarsi senza albe, mai risanati. Eppure, nella lucida e dolorosa consapevolezza di un pensiero che non si nega, nella poesia di Rosato la cessazione di tutto muove già nel pensiero stesso superato e, dunque, sempre, beffato dal tempo dove anche il ricordo sa in definitiva solo di morte (Ma lu recorde è gne nu campesante - Ma il ricordo è come un camposanto- come dal titolo di un testo). Nel dialogo continuo con la morte, con i suoi morti, la dialettica dunque è tra un tempo che non ha le alternanze del nostro ("e vu dentr'a lu scure, a ucchie chiuse,/a vocca chiuse,chiuse a-èsse dentre.. - "e voi dentro il buio, a occhi chiusi,/a bocca chiusa, chiusi lì dentro") e lo scetticismo di un uomo che nella costanza del cammino e della parola non ottiene risposta. La parola, già, a cui si appella, la vita ancora forse solo, almeno, nella dignità dell'interrogazione ma la parola anche che può ritorcersi (compiuti i doveri d'ogni giorno, con fatica, poi cosa resta? "Qualu misterie te s'ha spalazzàte,/qualu penzère n'hi da penzà' cchiù?"- "Quale mistero ti si è aperto,/quale pensiero non hai più da pensare?"), o sfuggirgli proprio come i figli, senza nessuno che abbia la volontà di ascoltare (in un altro scherzo del tempo che mina le vicinanze) aprendo naturalmente al dubbio. Parlare o restare in silenzio a che serve se il mondo proseguirà come è?

Si chiede infatti in un brano a metà testo (Sta vulije de dì chi sa che ccòse- Codesta voglia di dire chissà che cosa). A che serve soprattutto se l'intreccio del pensiero non può che sbattere contro il solito muro di insondabili malinconie e la consapevolezza di una esistenza segnata dal male e dal dolore? E come detto da una morte che incalza nei versi, seppure sovente proprio nella benignità di salvaguardia dal male stesso ( esemplare in tal senso Quanta bbardèsce se muré na vòte-Quanti bambini morivano una volta- in cui i morti precoci almeno un tempo se ne andavano nell'innocenza mentre adesso la morte più che mai pare condotta dal maligno) quando non piuttosto nella metafora della propria- e altrui- secchezza di uomo che non guarda più all'opportunità del giorno che viene (come tutte le cose che piano piano in silenzio iniziano a inabissarsi:"e tu remaste sole, n'ombre appene/assòpr'a lu respire, a chi sa quala/lontananza, a 'spettà'"- "e tu rimasto solo, un'ombra appena sul respiro, in chissà quale/ lontananza, ad aspettare").

Nel cortocircuito del tempo in cui si dipana il libro , il divenire appare dunque bloccato alla propria catena di pene e di dubbi (anche su se stesso e le cose effettivamente compiute) per cui, pur nell'invocazione dell'illusione del domani, tutto in realtà resta fisso a un eterno passato, a un eterno ieri di fatica. Qui, in quell' amarezza del disfacimento di cui acutamente parla Franco Loi nella prefazione, si leva nella coscienza la consapevolezza, nel riconoscimento, di vedere nella morte anche - esattamente come il padre - una soluzione alle angustie di sempre seppure nella dolenza della negazione di qualsiasi buona fine per l'uomo (inghiottito nel nulla senza "cchiù crescenze e nné mancanze" - senza "più crescenza né mancanze"). In tutto ciò, comunque, Rosato non ha cedimenti finendo così col rafforzarsi entro quella serena disposizione o disperazione (per dirla con Saba) che viene da uno scorrere che comunque ci cancella, restando nella "fermezza di chi tuttavia non si lascia travolgere" come ancora in modo più che illuminante ha da sottolineare Loi che ci ricorda inoltre come in questa poesia i luoghi della privatezza nella " frammentazione angosciosa del vivere industriale e cittadino" finiscono col moltiplicarsi risolvendosi appunto in quella che qualcuno come riferito definisce "maledizione del pensare".

Solo l'amore ai suoi occhi è restato, resta giovane e nel suo volto di fanciullo, il paese non più che un'ombra; solo l'amore ha il potere della salvezza e del sorriso in una chiusa segnata dalla neve e da rumori di campane sotto un cielo avvertito sempre più distante e che attenta nell'angoscia del suo inabissare nei ricordi (il buio- subito, soprattutto- e le raffiche del vento nelle prime paure gettate ragazzini tra le ginocchia delle donne di casa). La lotta contro la tentazione dell'abbandono, allora, nella modernità di una scrittura che ha la sua visione tra le pieghe inquiete di un tempo rarefatto tra le impossibilità dell'animo e imperscrutabilità del suo mistero è l'eredità alta di questa poesia che non si nega pur nel procedere dolente, e a tratti caustico, delle sue sconfessioni. Un libro, dunque, che proprio a partire da questo ha il bene raro dell'accompagnamento, dello strattonamento all'interno di un orizzonte dubbio, d'ombra recisa che sa richiamarsi- e ricordarti- oltre la singola lettura nella misura di uno specchio che quotidianamente non può, non vuole, non accetta infingimenti. Libro, poetica, in conclusione che nello "spiccato sentimento del paesaggio" sottolineato da Giovanni Tesio nella sua prefazione a Conversari (Carabba 2014) demitizza partendo intelligentemente dal privato (anche se non potrebbe essere altrimenti) utopie e slanci di un'era e di un pensiero che proprio nella negazione vanno a cancellarsi.

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