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Nessuno sa quando il lupo sbrana
“E’ una favola l’amore, | ce la raccontiamo per stare bene” ci avverte, o avverte
se stessa quasi a proteggersi, l’autrice di questo libricino in una delle poesie
iniziali nella cui interrogazione si racchiude in realtà il perché dell’intera
raccolta:” (..) di chi sono – mi chiedo? | Di quale paesaggio?”. Memoria sofferta
ma necessaria di sé tra ricomposizioni e accettazioni familiari all’interno di
una storia e di una corporeità ferita. Racconto personale che nel dipanarsi
degli anni (da quelli della propria adolescenza fino alle malinconie e agli
azzardi dei ragazzi di oggi) dice però anche molto delle dinamiche generazionali
nel nostro paese dai ’70 in poi. Diviso in due sezioni – la prima “Nessuno sa
quando il lupo sbrana”, la seconda “Così i nostri ragazzi” – il nodo che il testo
cerca in qualche modo di sciogliere, o quanto meno di raccontare, è soprattutto
nell’ambiguità di relazione tra la figura paterna e materna, con la figura
paterna e materna, i cui graffi, le cui reciproche occlusioni consumano tempo e
anime tra desolazioni e colpa, tra solitudini e rabbia.
La Capalbi, nelle
osservazioni di sé ragazzina, non fa sconti, in una registrazione quasi
automatica di emozioni e reazioni, non tralascia nulla, focalizzando la propria
attenzione sulle ripercussioni corporee che nel silenzio delle stanze e nella
ripetizione monotona dei rispettivi domini fissano i diversi protagonisti in
situazioni il cui unico sbocco spesso sembra non poter andare oltre la caparbia
sottolineatura del proprio irricucibile ruolo. Centrale, allora, in questa
scrittura a tratti diaristica del dolore è il rapporto con la madre ed insieme
della madre col padre la cui inadeguatezza subita di donna e di moglie si
riflette (non a caso forse tornando più volte il termine specchio) nel muro di
giudizio e durezza con cui la figlia vede e sente se stessa a partire dalle
urgenze e dai reclami di un’identità femminile che sente anche nel proprio corpo
il veicolo della conoscenza di sé e della propria liberazione.
Così, oltre “la
gara delle ribellioni” nel superamento di confronti impossibili, oltre una
visione che dice dell’uomo e del maschio la diffidenza e il richiamo, questi
versi si offrono in un rendiconto asciutto, teso, essenziale, come un rimontaggio da cui ridarsi sguardo per lo scioglimento delle proprie ossessioni.
Sguardo che si tenta, come dicevamo, proprio dentro un paesaggio la cui misura
nel divenire d’ombra è lo sgomento, a tratti, e l’inappartenenza
nell’oppressione e la dirompenza del limite. Che è poi corda d’ogni vera poesia
se ancora poesia è ricomposizione e spinta da un paesaggio, sua voce e sua
densità profonda (si legga al proposito“Il mare di Foceverde”, brano
esemplificativo in questo senso e rivelatorio di una nudità osservata e colta
in tutti i suoi movimenti, nel
suo movimento ).
Profondità, dicevamo, data con un’abilità di distacco e
insieme, ancora, di urgenza emotiva espressa con sicura efficacia da una
poetessa ormai giunta alla sua quinta prova (e di cui ricordiamo la sua attività
di coordinatrice di un corso di scrittura nella Casa di reclusione vicino
Bollate, Milano). Non diversamente nella seconda parte, in cui l’attenzione si
sposta sulle dinamiche relazionali e sui riti d’amore dei ragazzi di inizio
millennio, “splendidi animali” osservati fra masticature e solitudini, in cui
la scrittura scorre con la medesima forza, senza cedimenti di tono, pur
rischiando di pagare in alcuni momenti una partecipazione che nel fuoco delle
interrogazioni e delle tenerezze (com’è naturale forse) giunge meno accesa. Ciò
non vela, comunque, il lascito con cui questo libro si chiude: non smorzano il
canto infatti i nostri figli, anche se trafitti e mangiati dai confini. Tentano
ancora l’amore scivolando silenziosi, schierandosi “come piccole
costellazioni || liberi”. Ma “senza più chiedere aiuto”, come un verso quasi
meccanicamente ricorda. Ed in questo, ci domandiamo in conclusione, c’è poi
davvero differenza con la generazione materna? O, venendo incontro al testo:
quanto di non detto ancora ci ferisce, e ci confonde dividendoci?
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Recensione |
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