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'Nnanze a la
sorte
'Nnanze a la sorte,
uscito giustappunto a cavallo
del secolo (e millennio) scorso segna per certi una versi una svolta nel
processo poetico di uno degli autori di maggior rilievo della poesia
neodialettale italiana (dunque non solo del versante, l'Abruzzo, in cui nasce).
I testi che lo precedono, infatti, sono connotati da un'attenzione pungente e
sofferta ad una storia umana in finir di millennio oscura, cupa e in cerca di un
orizzonte che in qualche modo possa dirla e compierla in una modernità di
ritrovamento e ascolto che sia dapprima etico e civile. A questa parabola segue
piuttosto in queste pagine, soccorrendoci la saggezza critica di Nicola
Fiorentino (che più volte ne ha nitidamente analizzato il percorso), uno
smorzarsi delle tensioni polemiche subentrando "alle voragini delle inquietudini
(..) un mesta saggezza sulla vita e sul destino degli uomini" capace di
sciogliersi dunque in "canto ed armonia" (si veda al proposito la nota del
dicembre 2013 a Le case che ze non chiude sul sito de Poeti del
parco in cui pur nella necessità della sintesi è ben ricostruita la direzione di
questa scrittura). Una evoluzione questa, a nostro dire, però naturale ed
esattamente racchiusa nell'orizzonte tutto interiore di una terra e di una
lingua alla ricerca di un dettato stabile -
per sacralità , per memoria- atto proprio tra i pericoli e le cancellazioni
alla preservazione stessa del tempo , alla sua condivisione nella sola
direzione data tra gli uomini. Ci pare come se una voce nel richiamo di svolte
che non si compiono, di sguardi che non si voltano, fuoriuscisse ancora intatta,
ancora limpida a trar d'impaccio la coscienza, ad imporsi come sola, sempiterna
e nuova formula nella logica di un destino, di una coscienza tra le tracce di un
difficile equilibrio tra grovigli e rovesci di società e di mondi. Ed è una voce
che saggiamente Moretti persegue legandola a un medesimo cammino, quella di una
terra soggetta a rovesci e a sprazzi di luce e quelli di una esistenza nella
disillusione di sere a spegnere le intensità del mattino. Il dialogo è tra
questi due poli, nella dignità umana- diremmo una composta fierezza- di un
apprendimento che viene dalla saggezza di una condizione scavata e riportata al
proprio buio ( anche di parola) . Punto fermo per non smarrirsi nella
terra e a cui Moretti si appoggia,
nella sola appartenenza che può fargli da bussola, è la terra
stessa che compattamente si dipana in lui a farsi esercizio, anima, luogo della
poesia e finanche ovviamente casa nella costanza di un procedere senza
infingimenti che si fa paradigma, che tutto raccoglie nella infinità dei
passaggi e delle ore in quel tempo dove tutto ritorna "e 'ddò' pure la vite
sfèbbre/ e sti cundènde" -"dove anche la vita sfebbra e sei contento (come a
scioglier metafora in "La casa mé s'arepose"- "La casa mia si riposa").
La terra e lingua di riferimento (del gruppo "frentano") è
quella dell'Abruzzo costiero di San Vito Chietino, e più specificatamente, come
avvertito dallo stesso Moretti nella nota introduttiva, di quello spicchio
compreso fra il torrente Feltrino e il rio Canale nei pressi di Valle Grotte
("un'isola di mondo entro un'altra parte di territorio delimitata pur essa da
due fiumi, il Sangro e il Moro, che chiudono le basse colline dell'Adriatico in
piccoli e domestici orizzonti"). Come Alessandro Dommarco, Moretti (di cui
ricordiamo le contemporanee doti di abile poeta in lingua oltre che di prosatore
e saggista che gli vengono dalla sua esperienza di docente universitario con
pubblicazioni a spaziare dal sette al novecento- in particolare sul verismo,
decadentismo e D'Annunzio) si muove allora tra dovuti riporti e rispetti
filologici e soluzioni creative a rendere onore a una parlata, a uno spirito
(una volta di marinai e contadini ) che ben si presta (come rilevato
all'interno ) a "costruzioni d'arte e di pensiero" . Dipartendo pertanto da
una presentazione del proprio paese (dove "ogne sindì èna zuffelate/ de ggele
che tefa rèsse/ mute"- dove"ogni sentire è una soffiata/ di gelo che ti fa
essere/muto") che rappresenta in qualche modo un ritratto di se stesso, il testo
si avvale di una poetica che andrà progressivamente a compiersi trovando nel
rovesciamento dei propri incipit motivo e orizzonte di scrittura. Infatti, negli
occhi l'esempio di un paese che non può perdersi perché sempre nella nebbia, il
timore d'esser restare pellegrino a masticare "parole e tentazioni" è sciolto
proprio all'interno del languore che si fa scavo e punto di rinascita, come il
paese stesso allora (dove "lu vènde cande pe la coste/e rasamùre gna fusse nu
salute"- dove "il vento canta lungo la costa/ e a ridosso dei muri come fosse un
saluto") lui pure infine saldo nella risonanza dell'incanto. Nella realtà che
gli viene da questo mare, da questa campagna, dai segni a dire che corte
restano sempre le stagioni e spesso non riscaldano , l'uomo si misura
con un sogno che
sconfessandolo sovente può spingerlo ad abbracciarne un altro
( "Ma l'àngele de la notte"- "Ma l'angelo della notte"), più chiaro però
facendosi il cammino tra promesse e intendimenti: "à da passa lu mbèrne/pe ggudé
na sgrejje de paradise/ e c'à da calà/pe ddope sajje" ("deve attraversare
l'inferno/per godere una scheggia di paradiso/ e che deve calare/per poi
salire"). Il tutto poi nell'impronta di uno spirito che ha nel rigore legato
alla dignità del lavoro e della fatica di ogni giorno la cucitura antica
dell'esistenza, la sola risposta a noi data insieme all'amore che infatti quello
sforzo custodisce e accompagna e che trova in "Tè le ràdeche fonne st'àrbere"
("Ha radici profonde quest'albero") uno dei testi di riferimento per ripartenza.
Metafora della terra e del cercare rifugio, l'albero protegge ma non consente di
vedere il cielo e tenere dietro alla luna che sale, non consente di servire quel
mondo di cui siamo strumento (vedi proprio 'Nnnanze la sorte"- "Innanzi alla
sorte") e che finiremo comunque col pagare per una strada che si riceve a
credito. Ma "ce sta lu core da fa vvalè"("c'è il cuore da far valere") ammonisce
Moretti nella certezza che l'onestà ripaga, sempre, se si è capaci di attendere.
L'intelligenza sta nell'affidarsi a quel vento che non si è
mai voluto ascoltare, nel restare sereni per quanto possibile con i propri
mugugni. Guardando ad una natura che gli pare godere di distonie, di
sopravvivere tra spaccature e rifioriture impossibili, è la figura del
contadino che sa cavare il grano dove non attecchisce fiore a ergersi ai
suoi occhi nella conferma di una semina che è già buona se è dapprima in se
stessi (che "se more a ll'addejùne"-"si muore se si è a digiuno"). Nella
consapevolezza della difficoltà, di una pace di cui si sconta il più delle volte
l'assenza ("Lu sanga nostre è na dèceme che n'avaste ma' a fa satolle lu diavele.
A ècche se more cchiù che lu cambà"-"Il sangue nostro è una decima/che non basta
mai a far sazio/il diavolo. Qua si muore/ più che vivere") è il coraggio a
compierci, il non recedere dalle interrogazioni avanzando dove gli altri
potrebbero fermarsi (pur nella durezza di una coscienza che sa oltre i sorrisi e
le speranze la morte, pur delle volte non potendo che "'spettà,/'rentanate gna
povere crïature"- "aspettare/ rintanati come povere creature"). Da questo
rispetto, che è anche sacralità del tempo e dello spazio che ci attraversa,
nasce il riconoscimento al modo stesso della terra che continua a compiersi
perfettamente nei suoi elementi naturali ( vedi la bella immagine nel
bruciare dell 'estate della cicala che digiuna, canta , sosta e poi
torna a sfuriare ) e che pur non cessando di incutere
oscurità e timori lo sprona ad andare più in alto "'ddó' se po vedé da ll'adde/
tutte la vallate" ("dove si può vedere dall'alto/ tutta la vallata"), a non
ascoltare solo quel lamento di crepa- come di voce smarrita- che può far sentire
il rimorso come di " mill'anne n-golle" (di "mille anni addosso"). Sempre il
giorno può spiazzarci, anche nel bene. Alla vampa del giorno che incendia può
seguire la pioggia benedetta della sera e, in un mondo che non aspetta, il
tramonto nel suo ritorno, nel silenzio, spargere silenzio in ogni dove (anche la
luna torcendosi come candela ritrovando la strada). Ma bisogna essere forti,
come detto, e con giudizio pronti ché non solo le case ma anche gli uomini hanno
bisogno d' aria fresca- e pulizia- per restare ancora in piedi e camminare
davvero in una conta da cui ripianando nel cuore i muri senza scavare fossi in
terra e in cielo (nel rischio di un inferno che viene nella sua somma) è
possibile detergersi ad una visione della vita e del mondo che non cessa
nonostante tutto di eternarsi( "l'addore de randìnie e de jnèstre/ se scéngele
addó' passe lòi brihande" - "l'odore di granturco e di ginestre/si sparge dove
passano i briganti"). Nella scommessa la montagna va scalata ed ognuno ardere
nel destino di fuoco che lo impronta, tenendo presente l'arsura e il gelo del
viaggio, prendendo rischi nel viaggio. Di contro, però, è bene sottolineare
all'interno di questa coscienza della condizione umana, anche l'umiltà di
un'asprezza che sa nella desolazione tutta l'incapacità e l'infermità che
inevitabilmente ci racconta , uomini la cui luce illusoria non riesce a
illuminare nemmeno quel po' di strada che gli si fa avanti ("Sopr'a sta terre
nû seme a mbrèste,/e la vrasce ch'essìma fa da arde/ è propie quélle/che cchiù
aremmuréme" - "Su questa terra siamo a prestito,/e la brace che dovremmo
ardere/è proprio quella/che più spegniamo") e senza sapere mai se verranno le
stelle. Tutto cambia o finisce in un pozzo, si premura a ricordare, ognuno
passando la mano (lui stesso non più riconosciuto da tutti al paese) in un tempo
che connota di pena (come sull'orlo del campanile in "Tè cculà sta nùvele de
bbummasce"- "Sta gocciolando questa nuvola d'ovatta") facciate e strade.
Qui sul finire del libro allora il tono si stringe tra due
registri, quello del sudore e del respiro necessario fatto il dovuto e quello
dell'affondo in una malinconia che tende a risolversi però in pace, in un nodo
di ricordi pronto ad abbracciarlo in un'acqua di parole e cari scomparsi cui
come un uccellino ritornare sgombrando l'anima.
Casa di buona gente in
cui il tempo pur superandolo non ha che per lui tenerezza. Un testo allora
questo, in conclusione, in cui Moretti nella temperie di un'età confusa prova a
reiscrivere ombre e oscurità di direzione in quello che Massimo Pamio
definirebbe stemperamento del male all'interno di un destino personale, e
universale, e legato alla terra preda sovente di minacce e vanità e timori ed
ora trasfigurato e fatto carico e offerta per partecipata e, come più volte
sottolineato, rimessa fatica. Il buio attraversato nel canto dunque ci appare
come il miglior lascito di questi versi che si avvalgono di quel misticismo
magico rilevato ancora da Nicola Fiorentino e che ha nell'incontro tra
spazialità e stati d'animo uno degli strumenti principe delle proprie
interpretazioni. Il tutto quindi a riprova di una scrittura che ha nella fedeltà
al valore illuminante dell'interrogazione oltre che sacralità parte della
risposta.
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Recensione |
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