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Leggendo la silloge poetica Vortici di Carlo G. Zizola si
ha l’impressione di osservare l’uomo di spalle che scruta la notte in The
Aerial View di George Segal («Ho spiato l’alba dalle feritoie della notte»,
scorrendo “Feritoie.”) o, per altri versi, l’Uomo alla finestra di
Gustave Caillebotte.
L’autore, infatti, manifesta sin da subito il bisogno di
comunicare al prossimo la propria visione del mondo, visione che, per quanto
particolare e distintiva, fa sentire, d’impulso, il lettore molto vicino al
poeta, nella solitudine o diversità che tutti accomuna.
È nel saper cogliere le mancanze, l’assenza di coesione, le
crepe, le fessurazioni, che Carlo G. Zizola dà il meglio di sé, esponendo anche
le ferite aperte dall’amore.
La natura consolatrice ferve di bellezza, pronta a essere colta;
così in “Una finestra.” …«la luce | è come respiro di neve. || Oggi non ho nulla
da consumare; | sgocciolano solo frammenti spogli. | Ma c’è nell’imbrunire
bellezza di campi. | La vita continua a perdersi | in fiamma veloce, giaciglio e
canto.» E, “A Primavera.”, il poeta scrive: «M’intenerisce il verde a primavera
| dissigilla case avvolte dal sonno d’inverno».
I singoli attimi si isolano dal caos, nel caos, mentre
«L’ardente giovinezza ha sembianze d’autunno | ormai.» (in “Vagando.”). Le
stelle, luci amiche, rendono più accettabili, più accessibili, le carenze del
ragionamento e riducono la sensazione di abbandono: «Si dilegua il peso della
solitudine | nell’abissale distanza | di un enigma di stelle» (in “Attimo
immenso.”); «La notte è deflagrata, | piana sterminata di luci. | Mi inabisso
fino all’annientamento.» (in “Sotto un cielo notturno.”), ma è un annientamento
che, al di là di possibili grigie venature, avvicina per quanto ci accomuna.
Infatti, anche se “Perduto.”, il poeta con orgoglio può dire: «Eppure, sogno».
Momenti di smarrimento si alternano a istanti felici: di colpo
«mi ritrovo paurosamente estraneo a questo mondo», così leggiamo negli “Scrosci
d’acqua”, «e mi assale il cuore uno sgomento secco e dolente»; «Straniero tra
ombre morte, scruto le nuvole, | la loro fissità al richiamo dei venti. || Nuovi
fuochi si accendono | tra sussulti trafitti. | Vita mia che navighi nella notte,
| tutto in noi è maledetto o santo, | e tormento questa verità inutile» (nei
“Fuochi.”).
Malgrado le terribili sfaccettature, “Il sapore dell’esistenza”
si riassume in un «privilegio di vivere». Infatti, nonostante la «nostalgia di
antiche scale | e la vita che pare | lontana e fuggente.», Carlo G. Zizola trova
un rapido rimedio: «ascolto la calma dei monti; | le urlanti bufere | e le
invisibili furie del cuore| sono ormai prive di luce.» (nella lirica dal titolo
“Voci s’odono raccontare.”).
La poesia, al pari della natura, mentre «s’addolora il tempo
specchiato nella morte.», con “Dolci versi d’antico” consente al poeta di essere
nuovamente «Tremante di gioia superstite».
Quando si sarà compreso che la vera eredità è rappresentata dalla terra, secondo
l’ottica personale di Carlo G. Zizola, allora anche la poesia sarà salva, perché
si leverà ancora un dolcissimo canto infinito: «Allora capiremo i boschi | le
loro intenzioni ed il brivido intenso; | abbandoneremo i nostri angusti spazi |
nella smorfia silenziosa della notte, | ed in un sogno traboccante | udiremo
ancora cantare.» (ne “La nostra eredità”).
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Recensione |
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