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Lucia Gaddo Zanovello, nata nel 1951 a Padova, dove vive, ha dato alle stampe
nel 1998 ben cinque volumi di poesie, ove sono compresi testi che vanno dal
lontano anno 1962 fino al 1997.
La possibilità che mi è stata offerta di
leggere in maniera ordinata, secondo l’ordine cronologico, queste opere, mi ha
consentito di apprezzarne maggiormente l’effettivo valore, seguendone passo
passo gli sviluppi sia sul piano dei contenuti che su quello estetico-formale. Il volume “La partitura”, che raccoglie le poesie più recenti – scritte
nel periodo 1992/1997 – rappresenta in effetti la summa, la sintesi del
pensiero dell’autrice, alla base del quale credo si possa individuare, quale
minimo comun denominatore con la funzione di cementare e armonizzare le sillogi
– donando loro “forme, numero e sostanza” – una incrollabile fede “nel
respiro della vita | che nutre | attimi di infinite voci | di silenzi estesi |
quanto la solitudine o i dinieghi”.
È il coraggio di chi sa che è
impossibile sfuggire, sottrarsi a quella che è la partitura, il copione
assegnato a ciascuno di noi nel “concerto universale” e tra lo “sconcerto
quotidiano”. È la stessa fede, ad esempio, presente nella raccolta “Nóstoi”,
che abbraccia poesie risalenti al quinquennio 1987/1991. Qui la poetessa invita
ad ascoltare “la voce del ritorno | di una rondine pellegrina | che fedi vide
| e illusioni | planare quiete e cupe | sull’orlo del tempo”. Eppure, non
bisogna temere di intrecciare liberi voli, poiché alla fine le nostre più
segrete aspirazioni riusciranno a “sconfinare | sazie | dove buio | non è più”.
L’anima smisurata erra alla ricerca d’un sicuro asilo. Concetti come il
viaggio, il cielo, il vento, l’eterno ricorrono anche nelle poesie de “La
trilogia del volo”, 1962/1997. Il punto fermo al quale aggrapparsi è la
memoria, “intatta acqua di fonte | specchio al diafano cielo”. Ma il ricordo
potrà essere vivificato se saprà cercare “veri | improbabili frutti o fiori
| da porre nella gerla chiara | della conoscenza”. È un sapere che tuttavia,
anziché pacificare, rende inquieti, insofferenti, oppressi, sicché Lucia Gaddo
dà sfogo alla sua insoddisfazione scoprendo l’arma dell’ironia e della
satira: “Ritagliaci, Signore, | un balcone quotidiano di cielo | per
riprendere fiato | e fa che mai ci cada di mano | la nostra piccozza
quotidiana”.
“In lumine” (1991/1994) apre a riflessioni a carattere
esistenziale: “nell’indifferenza degli addii | senza ritorni |
nell’arroganza dei mai | estesi quanto i laghi notturni | contro le pareti
nude | dei giorni finiti”. La poesia intitolata “Sopra una ragnatela”, con
le sue avvinte memorie minacciate dalle trame intessute da “nuova seta di
ragno” ribadisce l’importanza delle esperienze vissute e sembra richiamare
certe atmosfere tipiche di Eugenio Montale: “un’aurora di campo | finita fra
rane di fosso | e vaga la sera | caduta di luna | fra lucciole brevi | di
bosso”.
“Fatalgìa” (1988/1994) esorta lucidamente a liberarsi dalle
catene, soprattutto di natura psicologica, che limitano e falsano le
sollecitazioni dello spirito. L’autrice sa che l’anima non ha “dimora |
alla tua brace | di timori”.
“La partitura” porta alle estreme conseguenze
le conclusioni di ciascuna delle sillogi precedenti. La fede della poetessa non
è cieca, non consiste in una passiva accettazione delle leggi e dei misteri
della natura. Il destino crudele di leopardiana derivazione “sceglie tra i
fiori rinati alla vita | anemoni senza memoria”; e così anche il mare,
“specchio dell’enigma”, “non mieterà il grembo del richiamo”. Ma non
importa, giacché il “domani era”: “già stavi | prima del viaggio (…)
Domani era nascere ancora”.
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Recensione |
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