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Quest’opera di Matteo Musacci, per quanto sia inserita nella collana di narrativa dell’Editrice, è poesia. Successe anche con la sua opera prima (“Clio”, Este Edition 2002). Pure laddove, sporadicamente, linguaggio e scrittura assumono coerenza e compattezza narrativa è sempre palese il senso del poetico. Matteo Musacci, diciottenne, s’ispira alla tradizione della letteratura greca ma le sue performance, forse involontariamente, assumono alla fin fine il sapore, i ritmi, della ballata. Anche i personaggi sono quelli classici, evocando chiaramente le muse.

Inoltre una forte filosofia dell’esistenza, connaturata alla trascendenza, inerpica i contenuti per l’erta strada dei miti e del divino. Nei quattro capitoletti che denotano l’opera appare quanto mai evidente il tentativo di ascendere, per le vie della parola, in quegli astrali e/o empirei quartieri: Il fotografo d’anime; La metafisica dell’essere; Sotto l’ombra di un ampio faggio; Il soffio delle fate.

Gli interpreti? Uno scrittore fotografo d’anime che si rapporta ad una donna-angelo. Un cowboy, Joan Dole, che nel far west della scrittura aiuta il lettore a trovare un’assai pratica e spiccia teoretica dell’essere.

La coppia Victor e Sue, che con l’aiuto di un gregge parlante molto assortito (le pecore Molly e Mary, la vacca Susan, il toro Jake, il montone Thomas…), intentano un processo contro lo Stato che intende abbattere un simbolico faggio, causa vinta grazie all’intervento di un trinitario, simbolico avvocato-dio- scimmia.

E Thelaya, rosa del deserto, donna e fata: s’innamora e innamora un uomo, Simon.

Nell’insieme è un continuo dialogare tra alati spiriti, angeli e Dio. Un protratto dialogo d’amore, anche in senso fisico. Lascia sbalorditi la libertà di pensiero e soprattutto comportamentale di cui si fanno portavoci gli anzidetti protagonisti.

Recensione
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