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Il verso pulito, anche quando esce dagli schemi tradizionali e diventa libero rimane verso; diverso al suo interno e nella costruzione d’insieme, gioco facilitato dalla breve distanza su cui si corre il libro, a volte sorprende il lettore; come nella zampata con cui l’Autore si firma in calce alla raccolta: “innanzi. Sii tenace in te, pazïente.”. Scarica senso su “innanzi” come non avesse più nulla da dire, poi chiude fra “tenace” e “in te” rafforzando l’imperativo e successivamente cesura all’interno “pazi-iente” cadenzando di lentezza il termine, scimmiotta il finale sdrucciolo degli altri versi della strofe e recupera il tempo del dodecasillabo. In alcuni casi riesce a spiazzare e a rimandare a capoverso il lettore rispettoso, al quale è sfuggito il ritmo. Lo sa il Banchini della quarta di copertina, che dissimula con l’espressione tra il fanciullino e il birichino dietro le bottiglie dell’acqua minerale, e tuttavia non riesce a trarre in inganno il Geppetto di lungo sorso.

La terminologia sembra intonata alla miniatura medievale della copertina, ma in realtà si tratta dell’evoluzione di un linguaggio arcaico, la quale pare avvenuta senza condizionamenti, come se lo scrivente facesse parte di una comunità staccatasi in tempi lontani dalla civiltà che l’aveva prodotta e successivamente evolutasi in modo autonomo; una società meno tecnologica e più meditativa, più sognatrice e meno corpulenta. Così “i solchi nudi di biade” non richiamano diossine, né “Le nubi nere,” ed i “campi squallidi.” non fanno pensare a scorie nucleari quanto invece ad un deterioramento dell’anima; e non si potrebbe giurare che lo scrivente conosca la polvere nera. La città non pare più frenetica di come doveva apparire nel 1200 a chi viveva abitualmente dove era la sospensione delle attività in attesa dell’inverno a rendere deserte le spiagge, non la fine delle bolge ferragostaie che presagisce gli autunni caldi, dove l’autunno invece presagiva l’ottobre della Libra. Dunque un poeta che scrive da una vallata lontana e protetta, una poesia tra fantascienza e fantasia; sarebbe bello crederlo, ma non è possibile: “vetri”, questo termine che ricorre due volte data il poeta nel novecento. Infatti “verticali geometrie” non s’addice alle vetrate di cattedrali gotiche quanto alle facciate di grattaceli. Per questo l’attento lettore odierà il poeta.

Fronte al testo, la versione francese di Jean-Marie Le Ray; un lavoro certamente non superficiale né agevole. Il pesante ed irrispettoso atto d’arbitrio in cui consiste ogni traduzione, in questo caso non pare teso a riproporre l’oggetto in altra lingua nella sua forma e sostanza, bensì a proporre qualcosa di diverso che dell’oggetto mantiene il senso.

Recensione
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