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“Ho voluto tradurre la straordinaria poesia di Caproni perché la ritengo
fresca, intelligente, e ritmica in tale misura da confinare non di rado con la
pura musica”. Queste le parole con cui Ned Condini, nella Prefazione a The
earth’s wall, commenta il proprio tentativo (felicemente riuscito, per
quanto ogni traduzione – come si sa – si regga sempre sul filo di un precario
equilibrio) di tradurre un’ampia rosa di componimenti (circa novanta) scelti
all’interno dell’intero corpus poetico di Giorgio Caproni, scrittore
italiano, scomparso nel ’90, tra i più squisiti che annoveri il Novecento.
Dopo gli importanti risultati raggiunti, anche in termini di prestigiosi
riconoscimenti internazionali, dalle sue traduzioni di Mario Luzi, John Marston
e Jane Tassi (per tacere d’altri), Condini – che è scrittore, traduttore e
critico letterario di origini italiane, trasferitosi da quasi trent’anni nel New
Jersey dove, oltre che allo scrivere, si è dedicato per molti anni
all’insegnamento – sceglie di sospendere temporaneamente la sua produzione
creativa originale (che annovera, ad oggi, due romanzi e varie raccolte
poetiche) per aggiungere un tassello importante nel mosaico americano, purtroppo
ancora incompleto, che ritrae i grandi della letteratura italiana contemporanea.
“A me,” dichiara, “come a chiunque di coloro che, sin dalla fine degli anni
novanta [si rammenti che, proprio nel 1989, usciva in Italia la seconda edizione
Garzanti dell’opera generale di Caproni] abbiano preso a considerare Caproni
come uno dei migliori poeti italiani del XX secolo, una traduzione delle sue
opere in America – paese in cui è pressoché sconosciuto – è sembrata urgente”.
E così, da Come un’allegoria (silloge di poesie scritte fra il 1932 e
il 1935) a Erba francese (1978), passando per alcune pietre miliari della
nostre lettere come Il seme del piangere (1950-1958) e Congedo del
viaggiatore cerimonioso (1960-1964), sino ad arrivare a qualche esempio
tratto dalle Poesie postume (1943-1995): la sapiente finezza di Condini
ha saputo mantener saldi, seppure in un’inedita veste, la venerazione per la
musicalità e il gusto per la rima intrinseci nella poesia di Caproni –
“venerazione e gusto,” come afferma lo stesso traduttore, “corroborati da
preziose varianti e invenzioni metriche, enjambements, ellissi, allitterazioni,
note basse e prolungate”. Tale ottimo risultato è stato possibile grazie ad un
orecchio particolarmente sensibile nell’afferrare ogni sfumatura presente nella
vasta partitura caproniana, e ad una lingua duttile, versatile, capace di
muoversi sempre a proprio agio nel tentativo di riprodurre – o, per meglio dire,
ricreare – la vasta gamma di toni che connotano la poesia del livornese, toni
che variano dal solenne al recitativo, dal registro umile a quello ricco di
accenti euforici, dallo stile colloquiale a quello epigrafico, dalla dimensione
domestica a quella metafisica.
Giustamente lo scrittore Jendi Reiter sottolinea che, “laddove una mera
imitazione dell’originale schema rimico sarebbe apparsa forzata, il verso libero
di Condini sceglie di dispiegare le sue assonanze e le sue rime diffuse per
veicolare i temi melodici che scorrono attraverso l’opera poetica di Caproni
come attraverso una sinfonia”. Non si tratta infatti di un lavoro rigidamente,
pedissequamente fedele all’originale, né di un mero tentativo di “trans-ducere”,
ossia di portare al di là (dell’Oceano Atlantico, della lingua italiana,
della nostra cultura...), i concetti e i temi cari all’universo immaginifico
caproniano: Condini ha posto mano ad un’opera di vera e propria reinvenzione
linguistica e stilistica, in cui – secondo anche quanto sostiene Irma B. Jaffe,
professore emerito presso la Fordham University – “le immagini e il linguaggio
di Caproni sono riflessi con tutta la loro sottigliezza, creando non una
semplice immagine specchiata, bensì un’originale opera d’arte poetica”.
Per stessa ammissione del traduttore, ciò che nel poeta italiano ammalia, ciò
che seduce l’orecchio, penetrando poi nell’intimo, deriva dalla carica
innovativa, “metaforicamente primaverile”, presente nei suoi versi, dalla loro
attualità, dalla loro dissimulata sapienza filosofica (Caproni era ammiratore di
Schopenhauer e Kierkegaard), dalla magia ritmica e melodica del linguaggio con
il quale sono costruiti. “Mai ostentato, bensì naturale e quasi istintivo,”
commenta Condini, “il tono di Caproni è impreziosito da un’eleganza geometrica,
una sorta di armonia cartesiana, che rende il suo verso popolare
aristocraticamente genuino. L’audacia dei sentimenti e la tessitura metrica sono
avvolte da una tenace passione nei confronti dell’esistenza, nonché da un
sofferto rispetto della letteratura per la vita, da un rispetto della parola per
la verità”.
Se andiamo a riprendere quell’interessante volume di Ferdinando Camon, edito
del 1965, intitolato Il mestiere di poeta, potremo leggere come lo stesso
Caproni fornisca una vivida, precisa fotografia del proprio modus operandi e
della propria poetica, mettendo bene a fuoco il nocciolo del suo essere e del
suo divenire: “L’unica ‘linea di svolgimento’ che vedo nei miei versi,” dichiara
il poeta nell’intervista, “è la stessa ‘linea della vita’: il gusto sempre
crescente, negli anni, per la chiarezza e l’incisività, per la ‘franchezza’, e
il sempre crescente orrore per i giochi puramente sintattici o concettuali, per
la retorica che si maschera sotto tante specie, come il diavolo, e per
l’astrazione dalla concreta realtà”. Su questi piani opposti – ma reciprocamente
integrantisi – del gusto e del disgusto, dell’amore e dell’orrore, si è mosso
con talento anche Condini, capace, con quest’opera, di operare in un nuovo
idioma quella straordinaria sintesi di temi e toni cui appassionatamente tese,
in più di mezzo secolo di cammino artistico, la poesia di Giorgio Caproni.
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Recensione |
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