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Carmelo Ciccia

Gli Scrittori che hanno unito l'Italia

Sintetica rivisitazione della letteratura italiana nel 150° dell’Unità (1861-2011)

Libraria Padovana Editrice / Literary 2010

Edizione revisionata nel 2015

© Tutti i diritti riservati

Poeti e prosatori intorno alle due guerre mondiali

Ada Negri (Lodi 1870 – Milano 1945) fu detta “la vergine rossa” non soltanto per il colore dei suoi capelli, ma anche per l’impegno sociale che espletò nella difesa degli operai e delle donne. Insegnante elementare e poi alla Scuola Normale di Milano, fu anche giornalista e scrittrice molto apprezzata, tanto che fu nominata membro dell’Accademia d’Italia. Fu lei (a cui il poeta l’aveva affidata prima di morire) ad interessarsi di far pubblicare La sagra di Santa Gorizia di Vittorio Locchi dopo la morte di lui. Scrisse anche la premessa ad un’opera di Maria Messina. Inoltre ebbe una lunga corrispondenza con l’intellettuale Salvatore Gennaro (di Paternò, CT, ma trapiantato a Milano, dov’era segretario della Regia Procura), il quale — pur senza conoscerla mai di persona — tenne una serie di conferenze su di lei a Milano e in altre città; a costui nel 1943 scrisse fra l’altro: “Dio voglia che un po’ di concordia regni nel Paese, a sua difesa e salvezza... Siamo nelle mani di Dio”. Fra le opere della Negri ci sono varie raccolte di versi (Fatalità, Tempeste, Maternità, Dal profondo, la silloge d’odi patriottiche Orazioni, ecc.) e prose (Le solitarie, Stella matutina, Finestre alte, ecc.), in cui mostrò echi decadentistici e crepuscolari, facendo risaltare momenti di miseria, di solitudine, di fratellanza e di fiducia cristiana, nella sua vita tormentata di sposata e separata, che per un periodo dovette riparare in Svizzera. Alcuni suoi testi furono musicati dal compositore Pier Adolfo Tirindelli di Conegliano. Ma è la sua poesia Ritorno per il dolce Natale che a scuola particolarmente si studiava e s’imparava a memoria: in essa una madre nella notte di Natale chiede di lasciare aperta la porta di casa perché è convinta che il figlio caduto nella prima guerra mondiale (quarta d’indipendenza) in quella notte santa ritorni in famiglia e si mostri ai congiunti, con la sua ferita mortale al sommo della fronte. Qui la Negri, che si fa interprete del dolore di tutte le madri dei caduti, è aliena da ogni patetismo forzoso: la scena è intrisa di grande compostezza, tanto che la poesia sfiora la prosa, proprio per evitare sdolcinamento e facile retorica. Eppure, quanta dignità nella madre e nel caduto, che dimostra d’essere un vero eroe nel non gloriarsi! Quanta sofferenza, quanta commozione e quali nobili pensieri destava nei lettori una poesia siffatta, la quale dovrebbe ancora essere letta, meditata e recitata! Basta leggere gli ultimi versi:

Scoperta arderà in mezzo alla fronte l’ampia stimmate sanguinosa:
corona di re consacrato, fiamma eterna, divina rosa.
Ma sotto il diadema del sangue egli il capo reclinerà
come chi nulla ha dato, come chi nulla avrà.

Trilussa, anagramma e pseudonimo di Carlo Alberto Salustri (Roma 1871 – ivi 1950) trovò da vivere coi suoi sonetti in dialetto romanesco, ch’egli recitata anche all’estero, come bravo dicitore e attore. Preferì per lo più la favola, magari attingendo ad Esopo, ma con esempi concreti assunti dalla vita d’ogni giorno; e nei riferimenti politici la favola diventa satira. Famoso il sonetto “La statistica”, in cui, se un poveraccio non riesce a comprarsi nemmeno un pollo all’anno e un benestante ne compra e mangia due, nella statistica risulta che ogni italiano mangia un pollo all’anno. Durante il Fascismo non prese la tessera del partito, ma non si dichiarò antifascista; e questo gli consentì di vivere e operare in tranquillità. Quindici giorni prima di morire fu nominato senatore a vita della Repubblica Italiana, ma per le sue precarie condizioni di salute egli mormorò: “senatore a morte”. Portò a maturazione la letterarietà del dialetto mediante un linguaggio vicino all’italiano e quindi comprensibile a tutti. Morì nel giorno anniversario della morte del Belli e sulla sua tomba, nel cimitero del Verano, fece scrivere questi versi:

C’è un ape che se posa su un bottone di rosa:
lo succhia e se ne va...
Tutto sommato, la felicità è un piccola cosa.

Sem Benelli (Prato 1877 – Zoagli, GE, 1949) combatté nelle due guerre mondiali e in quella etiopica. Fu autore di poemi e di drammi, di cui il più famoso è La cena delle beffe; ma qui va ricordato anche per il suo dramma Eroi, in cui esaltò la vita dei combattenti con scene ardenti di patriottismo e di partecipazione: “Muoio,... mettimi a terra... vo’ baciar la terra della Patria...”.

Ardengo Soffici (Rignano sull’Arno, FI, 1879 – Forte dei Marmi, LU, 1964), come gli altri futuristi fu interventista e s’arruolò volontario nella prima guerra mondiale, venendo ferito e ricevendo una decorazione. Visse per qualche tempo a Parigi, mentre poi a Firenze fece parte del gruppo che collaborava alle riviste “Il Leonardo” e “Lacerba”. Riguardano la guerra i suoi libri Kobilek: giornale di battaglia e La ritirata del Friuli. In quest’ultimo, riferendosi all’entusiasmo dei veneti per la bandiera italiana, egli descrive con note toccanti l’amore e la venerazione che l’umile custode del castello di Conegliano (TV) ha per quel simbolo: all’avvicinarsi delle truppe nemiche costui nasconde accuratamente la bandiera del castello in attesa del momento in cui essa tornerà a garrire in giorni migliori, maestosa su quella maestosa torre.

Umberto Saba, pseudonimo d’Umberto Poli (Trieste 1883 – Gorizia 1957), poeta e letterato, per certi versi oscuri, con esiti ungarettiani e montaliani, sembrò aderire all’Ermetismo, l’incipiente corrente letteraria che — prendendo nome dal dio dei misteri Ermes (Mercurio) e dal leggendario mago-mistico Ermete Trismegisto (= “tre volte grande”) — s’espresse in una produzione di difficile comprensione, sulla scia del trobar clus (= “poetare chiuso”) dei trovatori provenzali; ma, sebbene non sia inquadrabile nettamente in qualche corrente letteraria, in effetti egli oscillò fra realismo e decadentismo, quest’ultimo espresso in un intimistico autobiografismo teso verso sé stesso, la propria infanzia, le persone e gli oggetti della propria cerchia. Ecco perché accanto ad immagini brusche nella sua produzione s’incontrano note di dolente umanità. Fu impiegato commerciale, mozzo navale e libraio, per un certo periodo costretto ad esulare a Parigi perché ebreo. Soggiornò due volte a Firenze, dove collaborò a “La voce” e fece conoscenza con importanti letterati. Riscoprì il valore della poesia spagnola, che riprese nelle sue Romanze storiche. Il suo Canzoniere spesso rispecchia la propria difficoltà di vivere a causa della sua razza, stupidamente malvista e perseguitata, come — ad esempio — nella composizione “La capra”:

Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore [...]
In una capra dal viso semita
sentivo querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

E.A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta (Napoli 1884 – ivi 1961) assunse tale pseudonimo in onore del precedente patriota Alberto Mario. Sebbene fosse impiegato alle poste, dove conobbe la telegrafista Matilde Serao, fu anche poeta, paroliere e musicista, ma anzitutto patriota, il quale chiamò Italia una sua figlia e poi donò alla patria un centinaio di medaglie d’oro da lui ricevute e la fede nuziale. Scrisse e pubblicò numerose canzoni, serenate napoletane, opere teatrali e altro ancora: famosa è la canzone Tammuriata [123 “Tamburiata, sonata di tamburi” (dialetto napoletano).] nera (parole di Edoardo Nicolardi e musica di A. E. Mario), scritta in occasione della nascita di bambini neri da donne napoletane unitesi a soldati americani. Ma egli è rimasto nella mente e nel cuore degl’italiani per “La leggenda del Piave” (da lui scritta subito dopo la sconfitta di Caporetto e da lui stesso musicata), che gli procurò moltissime medaglie d’oro, decorazioni e onorificenze. Il ritornello “Non passa lo straniero!” era insieme convincimento e ordine dei soldati a sé stessi. I primi versi sono incisi sul ponte della Vittoria a Belluno e la seguente prima strofa è incisa su una grande lapide posta accanto al monumento erettogli a Santa Croce del Montello, frazione di Nervesa della Battaglia (TV):

Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio;
l’esercito marciava per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera!
Muti passaron quella notte i fanti,
tacere bisognava e andare avanti.
S’udiva intanto dalle amate sponde
sommesso e lieve il tripudiar de l’onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero.
Il Piave mormorò: "Non passa lo straniero!" [...]

Pietro Jahier (Genova 1884 – Firenze 1966), figlio d’un pastore valdese, con rigida formazione religiosa e lontano dal Fascismo, fu collaboratore delle riviste fiorentine “La voce” e “Lacerba”, nonché collaboratore o fondatore d’altre. Scrittore e patriota, fu combattente nella prima guerra mondiale e diresse il giornale di trincea “L’Astico”. Era in contatto coi principali letterati del momento. Fra le sue opere risalta Con me e con gli alpini, un misto di prosa e di versi, in cui esaltò con sincero trasporto gli umili combattenti. Pubblicò anche saggi e sillogi poetiche.

Maria Messina (Alimena, PA, 1887 – Pistoia 1944), autodidatta, visse in varie località italiane, anche a causa della sclerosi multipla, per la quale dovette affrontare diverse peregrinazioni e che con progressiva paralisi la portò a prematura morte. Fu una narratrice verista e patriottica in lunga corrispondenza col Verga, che l’apprezzava; e pubblicò con importanti case editrici dell’Italia Centro-settentrionale. Però il suo verismo — notevole nelle sillogi di novelle (in cui si notano somiglianze col Verga) — nei romanzi si permea di psicologismo e soprattutto di femminismo, sullo sfondo d’ambienti modesti e di difficoltà esistenziali dovute all’emigrazione e ad altri problemi sociali. Casa paterna, la sua più riuscita novella, è stata sceneggiata e trasmessa dalla televisione. Già sepolta nel cimitero pistoiese della Misericordia, ora riposa in quello di Mistretta (ME), comune di cui era la madre e di cui la scrittrice è stata dichiarata cittadina onoraria. Si ricordano le sillogi di novelle Pettini fini ed altre novelle, Piccoli gorghi, Le briciole del destino (con premessa d’Ada Negri), Il guinzaglio, Personcine, Ragazze siciliane; i romanzi La casa nel vicolo, Alla deriva, Primavera senza sole, Un fiore che non fiorì, Le pause della vita, L’amore negato; i libri per l’infanzia I racconti di Cismè, Pirichitto, Cenerella [124 Cenerella (e in dialetto siciliano Cinniredda) sta per Cenerentola.], I racconti dell’Avemmaria, Storia di buoni zoccoli, ecc. In Cenerella l’eponima protagonista, che aspetta un suo fratello prigioniero degli austro-ungarici, si esalta al passaggio dei bersaglieri: “Sentiva di amarli tutti, quei bersaglieri che passavano, come amava Domenico. Essi offrivano la loro giovane vita, il forte cuore, alla Patria, per difenderla [...] C’erano dei garofani sulla tavola: quelli del venerdì che aspettavano di essere disposti nei vasi in salotto. Cenerella afferrò il mazzo e lo lanciò fuori; mentre i rossi fiori si sparpagliavano nell’aria, prima di cadere, mormorò piano, con le mani giunte, come se pregasse: — O Italia! Italia bella! Evviva!”. Con la rivalutazione fattane da Leonardo Sciascia, alcune sue opere sono state ripubblicate da un’importante casa editrice di Palermo.

Mario Puccini (Senigallia, AN, 1887 – Roma 1957) fu combattente nella prima guerra mondiale, collaboratore d’importanti giornali e riviste e raffinato scrittore, che, respingendo il dannunzianesimo in voga, guardò al Verga e alla narrativa russa. Dalla stessa guerra prende le mosse il suo romanzo più famoso, cioè (Il soldato) Cola, o ritratto dell’italiano, ricco di verità e umanità. Altre sue opere sono: Foville, Come ho visto il Friuli, Davanti a Trieste, Dov’è il peccato è Dio, Ebrei, La prigione, Comici, La terra è di tutti. Il suo diario Caporetto, iniziato da ufficiale subalterno della brigata Veneto durante la suddetta guerra col titolo Dal Carso al Piave, più volte rimaneggiato e uscito postumo soltanto nel 1987, nel descrivere passo passo la ritirata italiana, da una parte esprime un grande patriottismo, sottolineando con sentito rimpianto la bellezza e feracità delle varie località dovute abbandonare a quelli che lui definisce barbari (nonostante la più volte ribadita appartenenza d’esse alla madrepatria Italia), dall’altra evidenzia le difficili condizioni di militari e civili, oscillanti fra pessimismo e ottimismo: il tutto in una prosa ricca di passione, di commozione e di poesia, in cui affiorano anche le eccellenti qualità dell’osservatore e del pittore.

Sulla linea d’Angiolo Silvio Novaro, ma con tanto più sentimento, si colloca “La gioia perfetta” di Diego Valeri (Piove di Sacco, PD, 1887- Roma 1976), col suo famoso inizio Com’è triste il giorno di maggio / dentro al vicolo povero e solo! / Di tanto sole neppure un raggio; / con tante rondini neanche un volo... Una sola poesia è bastata ad immortalare questo poeta, peraltro autore di varie opere apprezzate, perché d’essa ci affascinavano e tuttora ci affascinano non soltanto la musicalità, ma anche lo scenario e soprattutto quel sincero insegnamento finale: Basta un bimbo, un fiore, una culla / per formare una gioia perfetta. Fu docente di letteratura prima francese e poi italiana all’università di Padova; e successivamente a quella di Lecce. Fu antifascista e per questo dovette prima appartarsi alla Sovrintendenza alle Belle Arti di Venezia e poi riparare in Svizzera. Ebbe rapporti d’amicizia col Croce e con altri intellettuali, specialmente con quelli che come lui collaboravano alla rivista fiorentina “Nuova antologia” e fu assessore comunale di Venezia, città in cui si ritirò. Fra le sue opere, oltre a diverse raccolte di poesie (fra cui quella diffusissima per bambini Il campanellino), ci sono anche traduzioni di poeti stranieri, saggi e prose d’arte.

Scipio Slataper (Trieste 1888 – Monte Podgora, GO, 1915) trascorse la sua breve vita viaggiando in Italia (Firenze) e all’estero (fra l’altro insegnò ad Amburgo). Collaborò alle principali riviste fiorentine e fu in contatto con vari letterati, fra cui il Papini. Scrittore e patriota, irredentista e interventista, s’arruolò volontario nella prima guerra mondiale e morì in battaglia. Lasciò traduzioni d’autori stranieri e curò nostri classici. Fra le sue opere risalta Il mio Carso, riuscita rievocazione in prosa altamente lirica del suo ambiente, della sua infanzia, delle sue aspettative.

Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto 1888 – Milano 1970), poeta, narratore, traduttore e saggista, fu rattristato da vicende dolorose, quali la morte d’un amico e quella d’un figlio bambino. Quando lasciò l’Egitto, si trasferì a Parigi, dove frequentò importanti poeti e artisti di quel momento, francesi ma anche italiani colà residenti. Interventista, s’arruolò volontario nella prima guerra mondiale e combatté sul Carso, di cui conservò un amaro ricordo. Finita la guerra, si trasferì vicino a Roma e aderì al Manifesto degli intellettuali fascisti. Fu docente universitario in Brasile e a Roma, e venne nominato membro dell’Accademia d’Italia. Memorabile è la sua recita dell’Odissea alla televisione. Fra le sue rinomate sillogi poetiche ci sono anzitutto II Porto Sepolto e Allegria di naufragi, scritte entrambe sul Carso, con indicazione di località e data sotto ogni titolo, e poi Sentimento del tempo e Il dolore. La sua poesia colpisce con la folgorazione di “Mattina” (M’illumino / d’immenso), la sinteticità di “Stasera” (Balaustrata di brezza / per appoggiare stasera / la mia malinconia), la sentenziosità di “Sono una creatura” (La morte / si sconta / vivendo) e la scheletricità di “Natale”(Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo / di strade...); poi richiama l’attenzione sull’assurdità della guerra, come in “Fratelli” (Di che reggimento siete / fratelli?...), nella citata “Sono una creatura” (Come questa pietra / del S. Michele...) e in “San Martino del Carso” (Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro...); infine incanta con la dolorosa umanità di “Giorno per giorno” (“Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto”): e il tutto dà l’impressione d’un grande uomo e grande poeta, il più grande poeta ermetico, a cui per assurdi motivi ideologici e quindi ingiustamente non fu assegnato quel premio “Nobel” elargito ad altri meno meritevoli. Fra i vari premi ebbe l’“Etna-Taormina” e una medaglia d’oro del Governo per i suoi ottant’anni. È sepolto nel cimitero romano del Verano.

Mario Pichi (Conegliano, TV, 1889 – Monte S. Michele, GO, 1915) fu mistico (che stava in meditazione sul francescano monte Verna), scrittore e patriota, che s’arruolò volontario nella prima guerra mondiale e morì in battaglia sul Carso a soli 26 anni. Pubblicò una raccolta di novelle dal titolo Quale sarà l'ultimo? e il bozzetto drammatico Le due testine di frate Luca, mentre postumo uscì il libro Bozzetti drammatici, novelle, quadretti, piccole fantasie, pensieri.

Vittorio Locchi (Figline Valdarno, FI, 1889 – capo Matapan, Grecia, 1917), impiegato comunale a Venezia, fu un acceso interventista e combatté sul Carso; però la morte lo carpì poi in una battaglia navale. Lasciò varie opere in versi, ma famoso è il suo poemetto La sagra di Santa Gorizia, in cui con atteggiamento religioso celebrò e santificò — a causa delle sofferenze d’essa e dei combattenti per essa — una delle città-simbolo dell’irredentismo italiano, liberate e annesse alla madre patria col sacrificio di tanti martiri, fra cui per Trieste Nazario Sauro e per Trento Cesare Battisti [125 Purtroppo a cavallo dei secoli XX e XXI il nobile nome dell’irredentista Cesare Battisti è stato infangato da un omonimo criminale (pluriassassino e condannato all’ergastolo), col quale l’eroe non dev’essere assolutamente confuso.], Damiano Chiesa, Fabio Filzi e altri, impiccati o fucilati dagli austriaci.

Giuseppe Villaroel (Catania 1889 - Roma 1965), oltre che uomo di scuola, fu critico letterario e saggista (Divagazioni letterarie e Il secolo dei panni al sole), narratore (Giufà [126 Cfr. Martoglio.], La donna e il vortice e Via Etnea) e poeta (La bellezza intravista, Ingresso nella notte, L’uomo e Dio e Quasi vento d’aprile). In queste poesie inizialmente s’accostò al D’Annunzio e ai crepuscolari, esprimendo anche una certa sensualità, mentre poi espresse una pensosa religiosità, ricca di calore umano. Scrisse anche l’opera per ragazzi Cocoriello Testadura, storia d’un simpatico ragazzo zuccone.

Vincenzo Errante (Roma 1890 – Riva del Garda, TN, 1951), di famiglia siciliana, fu docente di letteratura tedesca nelle università di Pavia e Milano, nonché poeta, saggista e traduttore. Fra i tanti saggi sono notevoli Il mito di Faust e La lirica di Hölderlin; fra le traduzioni, quelle di autori latini (Catullo, ecc.), tedeschi (Goethe, Novalis, Schiller, Rilke, ecc.) e inglesi (Shakespeare). Fu grazie a lui che il poeta di lingua tedesca Rainer Maria Rilke (Praga 1875 – Montreux, Svizzera, 1926), al quale è soprattutto legato il suo nome, tanto da costituire un felice binomio con quello di lui, divenne familiare in Italia, con le sue traduzioni — musicali e dannunzianamente cesellate — in cui appariva lui stesso primo maestro di poesia, profondamente immedesimato nel tema e negli stati d’animo trattati, come ad esempio in “Paesaggio invernale” (inclusa in Prime poesie):

Respirano lievi gli altissimi abeti
racchiusi nel manto di neve.
Più morbido e folto quel bianco splendore
avvolge ogni ramo, via, via.
Le candide strade si fanno più zitte:
le stanze raccolte, più intente.
Rintoccano l’ore. Ne vibra
percosso ogni bimbo, tremando.
Di sopra agli alari, lo schianto di un ciocco
che in lampi e faville rovina.
In niveo brillar di lustrini,
il candido Giorno là fuori si accresce,
divien sempiterno Infinito.

[127 La lunga parola altissimi (da leggersi lentamente) e le otto vocali i del primo verso guidano lo sguardo verso il cielo, che chiaramente diviene Infinito nell’ultima parola dell’ultimo verso a significare la tensione spirituale di tutta la lirica.]

Emilio Lussu (Armungia, CA, 1890 – Roma 1975), scrittore e politico, fu interventista ma antifascista, fondatore del partito sardo d’azione, aderente al gruppo “Giustizia e libertà” e al partito socialista italiano di unità proletaria. Come deputato del Regno d’Italia, partecipò alla cosiddetta secessione dell’Aventino per protesta contro l’uccisione del collega Giacomo Matteotti. Esule in Francia, partecipò poi alla Resistenza. Quindi fu deputato della Repubblica Italiana e ministro senza portafoglio. Oltre a saggi storico-politici, fra cui Marcia su Roma e dintorni: Fascismo visto da vicino, lasciò il resoconto d’Un anno sull’altipiano [128 Quello d’Asiago (VI), dove si combatté aspramente.], in cui descrisse la terribile vita sua e degli altri combattenti della prima guerra mondiale: opera che lo rese famoso specialmente per la dolente umanità dimostrata e per la grande commozione suscitata col descrivere la crudeltà della guerra e della disciplina militare ad oltranza.

Giani Stuparich (Trieste 1891 – Roma 1961), scrittore e patriota irredentista, studiò a Praga e a Berlino, e quindi si trasferì a Firenze, dove col fratello Carlo collaborò alla rivista “La voce” e conobbe altri letterati. Fu mazzianiano, s’arruolò volontario nella prima guerra mondiale e venne decorato con medaglia d’oro. Tornata la pace, prima insegnò nei licei e poi divenne soprintendente dei musei e gallerie triestine. Partecipò anche alla Resistenza. Oltre ai saggi, fra le molte sue opere pubblicò i memoriali Colloquio con mio fratello, Guerra del ‘15. Dal taccuino di un volontario, Scipio Slataper e i romanzi Ritorneranno e Simone.

Titta Rosa, pseudonimo di Giovanni Battista Rosa (L’Aquila 1891 – Milano 1972) fu poeta (Poesie di una vita), narratore per l’infanzia presente nelle antologie scolastiche (I giorni del mio paese, I racconti della fortuna, L’avellano, La figlia del pescatore, ecc.) e giornalista. Studioso del Manzoni, scrisse anche opere di critica letteraria e testi scolastici.

Riccardo Bacchelli (Bologna 1891 – Monza 1985), scrittore e giornalista, fu co-fondatore della rivista romana “La ronda” e membro dell’Accademia d’Italia, di quella dei Lincei e di quella della Crusca, il quale svolse un importante ruolo culturale. S’arruolò volontario nella prima guerra mondiale. La sua vasta produzione letteraria — in cui si trovano echi del Manzoni e del Carducci e a cui hanno attinto il cinema e la televisione — comprende poesie (Poemi lirici, ecc.), drammi (Amleto, ecc.), romanzi (Il diavolo al Pontelungo, Il mulino del Po, I tre schiavi di Giulio Cesare, Lo sguardo di Gesù, ecc.) e saggi storico-critici (La congiura di Don Giulio d’Este, ecc.). Ridottosi in miseria, beneficiò d’una legge di sovvenzionamento dei letterati illustri approvata appositamente per lui. È sepolto nel cimitero di Bologna.

Carlo Stuparich (Trieste 1894 – Monte Cengio, VI, 1916), trasferitosi a Firenze col fratello Giani (che poi ne rievocò la memoria), collaborò alla rivista “La voce” e conobbe vari letterati. Scrittore e patriota irredentista, s’arruolò volontario nella prima guerra mondiale come ufficiale dei granatieri, ma si uccise quando stava per essere preso prigioniero dagli austro-ungarici. Ebbe una grande cultura, improntata anche ai valori dell’Europa Centrale, e nel suo forte idealismo fu un ammiratore della natura. Lasciò saggi, poesie e lettere, poi raccolti nel volume Cose e ombre di uno. [129 Sul monte Cengio rifulse il valore dei granatieri di Sardegna, che in un’epica lotta si sacrificarono per liberare il Veneto. Fra di loro ci fu il granatiere Saverio Ciccia (1893-1978, padre dell’autore di questo libro), preso prigioniero dagli austro-ungarici su quel monte e deportato in Austria, il quale ebbe due decorazioni al valor militare; e poi, come tutti gli altri combattenti di quella guerra, ricevette anche le onorificenze di cittadino onorario di Vittorio Veneto e cavaliere dell’ordine di Vittorio Veneto.]

Corrado Alvaro (San Luca, RC, 1895 – Roma 1956), combattente e ferito nella prima guerra mondiale, fu scrittore e giornalista che diresse sia pure per poco tempo il quotidiano napoletano “Risorgimento” e viaggiò come inviato di grandi giornali. Dopo le Poesie grigioverdi, con ricordi e sentimenti di guerra, si diede ad una narrativa ispirata ai costumi e miti della sua terra, conseguendo grande notorietà con Gente in Aspromonte, cui seguirono altre opere, quali L’uomo è forte, Incontri d’amore e una trilogia di romanzi con cui deplorava il consumismo. Lasciò anche drammi (Ultima notte di Medea) e saggi (Itinerario italiano). Firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti, ricevette importanti premi letterari e fondò il Sindacato Nazionale Scrittori. È sepolto nel cimitero di Vallerano (VT).

Giovanni Comisso (Treviso 1895 – ivi 1969) fu giornalista e scrittore (ma anche avvocato, commerciante e libraio). Interventista, s’arruolò volontario nella prima guerra mondiale e poi fu legionario col D’Annunzio. Finita la guerra, come inviato speciale di giornali fece numerosi viaggi e ne descrisse le esperienze nei suoi libri, per i quali s’avvalse principalmente delle sue avventure sul mare, producendo spesso una gradevole prosa nostalgico-memorialistica. Fra le sue opere: Il porto dell’amore, Al vento dell’Adriatico, Gente di mare, Giorni di guerra, L’Italiano errante per l’Italia, Le mie stagioni, Il mio sodalizio con De Pisis, Un gatto attraversa la strada, La mia casa di campagna, La donna del lago, Diario 1951-1964. È sepolto nel cimitero di Treviso.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896 - Roma 1957) a chi gli chiedeva che professione svolgesse rispondeva seccamente: “Il principe”. Infatti era duca di Palma di Montechiaro e principe di Lampedusa. Finito il liceo, s’iscrisse all’università di Roma, in legge, ma non riuscì a laurearsi. Chiamato alle armi nella prima guerra mondiale, fu fatto prigioniero e internato in un campo di concentramento. Dopo cominciò a viaggiare, favorito dalla conoscenza di varie lingue (francese, inglese, tedesco, russo, spagnolo) e a leggere molto, preferendo fra i francesi Stendhal e fra gl’inglesi Shakespeare.

E fu Giorgio Bassani che dopo la morte di lui, quando si rinvennero anche racconti e saggi dello stesso scrittore, scoprì e pubblicò il romanzo Il gattopardo, il quale fece epoca, grazie anche al premio “Strega”, al film di Luchino Visconti e alle numerose traduzioni all’estero.

Lo storiografo Silvio Bertoldi così scrisse nel suo libro Dopoguerra: “L’Italia non aveva riconosciuto in tempo il suo maggiore scrittore contemporaneo. Il primo, dopo la guerra, ad avere con la sua opera un trionfo mondiale.” [130 Silvio Bertoldi, Dopoguerra, Rizzoli, Milano, 1993.]

Questo romanzo, che si snoda dal 1860 al 1910, coglie una famiglia dell’antica nobiltà siciliana — quella dei Salina che ha come stemma un gattopardo rampante — al momento del trapasso dal regno dei Borboni a quello dei Savoia. Perciò avvenimento importante è lo sbarco dei Mille con tutte le ansie che esso apporta nella nobiltà. Il protagonista del romanzo, don Fabrizio, grazie anche alla preveggenza di un suo nipote da lui adottato come figlio, il quale aveva detto testualmente “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, riesce ad inserirsi nel nuovo stato di cose e a mantenere il suo prestigio, tanto da essere proposto alla carica di senatore del nuovo regno, carica da lui decisamente rifiutata. Ma nel frattempo si fanno avanti gli spregiudicati, i volgari, gl’ignoranti facilmente arricchiti: saranno questi il nuovo ceto dirigente. Don Fabrizio quindi assiste con rassegnazione al fatale declino del suo ceto, che si consuma fra balli, banchetti e spensieratezze varie.

A parte la vicenda amorosa in esso inclusa, questo è un romanzo storico che non si pone semplicemente sulla scia di quello manzoniano, ma vuol essere una critica al modo in cui fu attuato il Risorgimento in Sicilia. E da ardito profeta lo scrittore prevede che dopo il lusso e l’alterigia dei nobili subentreranno i latrocini, i saccheggi e la sanguinarietà di sciacalli e iene.

Profetismo e pessimismo ritornano nel colloquio del principe Fabrizio (sotto cui si cela lo stesso autore) col famoso colonnello Pallavicino (cap. VI), quando questo afferma che alle camicie rosse si sostituiranno altre d’altro colore, e poi di nuovo rosse, ma per fortuna ci sarà lo Stellone a guardarci (buona stella o elemento dello stemma della Repubblica Italiana?).

Il romanzo, oltre che storico, è anche lirico, psicologico e autobiografico. Icastica è la costruzione dei personaggi (don Fabrizio, Angelica, padre Pirrone, don Ciccio Tumeo e altri), belli sono i paesaggi e profonde le meditazioni. E tutto ciò dimostra che quest’opera si pone nelle alte sfere della creatività artistica.

Eugenio Montale (Genova 1896 – Milano 1981), premio “Nobel” per la letteratura, fu poeta ermetico, giornalista e critico. Dopo aver combattuto nella prima guerra mondiale, fu direttore del Gabinetto Vieusseux di Firenze, città nella quale collaborò a varie riviste e conobbe importanti letterati; ma l’incarico gli fu presto tolto, perché egli non era non iscritto al partito fascista: infatti firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti e in seguito aderì al partito d’azione. Quindi si stabilì a Milano, dove fu redattore del “Corriere della sera”, per conto del quale fece vari viaggi. Intanto scriveva poesie e traduceva scrittori stranieri. Fu nominato senatore a vita della Repubblica Italiana e ottenne altri riconoscimenti. Le sue sillogi poetiche più importanti sono: Ossi di seppia, Occasioni, Finisterre, La bufera e altro, Xenia, Satura. Tuttavia egli, se da una parte affascina con le prime composizioni, quali “Limoni” e quelle che cominciano con i versi Meriggiare pallido e assorto..., Spesso il male di vivere ho incontrato... e Forse un mattino andando in un’aria di vetro..., per le quali ad ogni modo è un grande poeta, dall’altra stanca con quelle del tipo di Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale... e con quelle prosastiche della sua maturità. È sepolto nel cimitero fiorentino di San Felice a Ema.

Renzo Pezzani (Parma 1898 – Castiglione Torinese, TO, 1951) fu maestro elementare, giornalista (al “Giornale del balilla” e al “Corriere dei Piccoli”) e scrittore per l’infanzia presente nelle antologie scolastiche (L’apostolo dell’illusione, La stirpe prediletta, ecc.). Scrisse anche testi scolastici, poesie (in italiano e in dialetto parmense) e proverbi: Non cercare la gioia / nelle cose lontane. // Se vuoi cogliere un fiore / non temere lo spino. // Non v’è cibo di re / più gustoso del pane. // Non è cosa che scaldi / più del nostro camino. // Non ti tocca fortuna // se non sei mattiniero. // Macchia più dell’inchiostro / un cattivo pensiero. // Non c’è acqua che lavi più del pianto sincero.

Sergio Solmi (Rieti 1899 – Milano 1981), poeta e saggista, fu combattente nella prima guerra mondiale. Laureatosi in legge a Torino, fondò la rivista “Primo tempo” e collaborò ad altri giornali e riviste. Trasferitosi a Milano, s’impiegò in una banca. Quale membro del partito d’azione, aderì alla Resistenza e per ciò fu imprigionato, documentando poi la sua esperienza partigiana nel libro di versi Aprile a San Vittore. Nella sua poesia egli cercò d’indagare i misteri dell’universo e ne sentì il peso: le sue varie sillogi ora sono raccolte nel volume Poesie complete. Nei suoi saggi s’interessò di scrittori stranieri (quali Montaigne e Rimbaud) e italiani (quali Leopardi e altri). Pubblicò anche antologie, traduzioni e Meditazioni sullo scorpione (di contenuto morale).

Ignazio Silone, prima pseudonimo di Secondino Tranquilli, ma poi suo nome legale (Pescina dei Marsi, AQ, 1900 – Ginevra 1978), fu scrittore e giornalista (diresse i giornali “L’avanguardia” di Roma e “Il lavoratore” di Trieste). Nel 1915 fu colpito dal terremoto d’Avezzano (AQ), in cui persero la vita il padre e cinque fratelli. Uscito dal seminario, si diede alla letteratura e alla politica, militando prima nel partito comunista italiano e (dopo un’emigrazione in Svizzera per antifascismo) in quello socialista italiano, per il quale fu deputato della Repubblica Italiana. Oltre a saggi, drammi e testimonianze, scrisse famosi romanzi, quali: Fontamara, Pane e vino, Una manciata di more, Il segreto di Luca e L’avventura d’un povero cristiano. In quest’ultimo, poi trasformato in dramma teatrale, esaltò la figura del papa dimissionario Celestino V. Nelle sue opere, per lo più legate alla realtà abruzzese, espresse con viva inquietudine la propria crisi esistenziale, politica e religiosa. Ottenne i premi “Marzotto”, “Moretti” e “Campiello”, nonché varie onorificenze. È sepolto nel cimitero di Pescina.

Salvatore Quasimodo (Modica, RG, 1901 – Napoli 1968), premio “Nobel” per la letteratura, fu poeta ermetico, saggista e docente. Era figlio d’un ferroviere e quindi da ragazzo dovette seguire il padre in varie località, senza poter frequentare una scuola fissa. Ad ogni modo si diplomò in un istituto tecnico e a Roma lavorò presso un’impresa edile, mentre da privato studiava le materie classiche. Dopo un soggiorno a Firenze (dove fu chiamato dal cognato Elio Vittorini), fu impiegato del genio civile prima a Reggio Calabria e poi in altre località, fino a quando a Milano abbandonò l’impiego e si dedicò alla letteratura, visto che già da tempo scriveva e collaborava a giornali e riviste; e in seguito fu nominato docente di letteratura italiana al conservatorio musicale “Giuseppe Verdi”. Tradusse i Lirici greci, i Canti di Catullo, il Vangelo secondo Giovanni, nonché autori stranieri. Ottenne il premio “San Babila” e l’“Etna-Taormina”. Le sue sillogi poetiche più importanti sono: Acque e terre, Oboe sommerso, Erato e Apollion, Ed è subito sera, Con il piede straniero sopra il cuore, Giorno dopo giorno, La vita non è sogno, Il falso e vero verde, La terra impareggiabile. Le ultime raccolte si concentrano sulla guerra, sulla Resistenza e su problemi sociali. Nella sua poesia colpisce anzitutto la mesta sentenziosità: Ognuno sta solo sul cuor della sera / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera. (“Ed è subito sera”); poi risaltano i maestosi ruderi e i paesaggi mitizzati della Sicilia greca (ad esempio in “Vento a Tindari”, “L’Eucaplyptus”, “Strada di Agrigentum”); e in “Alle fronde dei salici” appare l’impegno partigiano dello scrittore (E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore...). Infine in “Lettera alla madre” sono sintetizzate la vita, le aspirazioni e le delusioni del poeta siciliano trapiantato al nord: Mater dulcissima, ora scendono le nebbie, / il Naviglio urta confusamente sulle dighe, / gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve; / non sono triste nel Nord... È sepolto nel Famedio del cimitero di Milano.

Francesco Jovine (Guardialfiera, CB, 1902 – Roma 1950) fu un narratore d’impronta veristica che s’ispirò al Molise per descriverne caratteristiche e aspirazioni durante il Fascismo. Con una prosa a volte lirica e che ad ogni modo non trascura la polemica — rivolta non solo al presente, ma anche al passato (il Risorgimento incompleto) — affrontò anche la questione dei latifondi da dividere e presentò le lotte fra contadini e padroni. Opere molto note, nelle quali egli seppe cogliere anche aspetti mitici e rituali della sua gente, sono: La signora Ava, L’impero in provincia e Le terre del Sacramento. Queste terre prendevano nome da una diroccata cappella che vi si trovava; e il romanzo, postumo e vincitore del premio “Viareggio”, fa una specie di epopea del bracciantato agricolo.

Raffaele Carrieri (Taranto 1905 – Camaiore, LU, 1984 ) fuggì da casa all’età di 14 anni e attraverso l’Albania raggiunse i legionari del D’Annunzio a Fiume, dove fu ferito nei combattimenti del “Natale di sangue”. Rientrato nella sua città, fece il gabelliere, ma poi passò a Parigi e infine si stabilì a Milano, dove frequentò numerosi artisti e letterati e collaborò a vari periodici. Dalle tristi vicende personali trasse ispirazione per le sue sillogi di poesia Il lamento del gabelliere, Canzoniere amoroso, La giornata è finita, Le ombre dispettose, ecc. Scrisse una quarantina di libri e fu anche narratore (Turno di notte, Fame a Montparnasse) e critico d’arte (Pittura e scultura d’avanguardia). Di grande cultura, faceva le più disparate citazioni, attingendo a varie fonti.

Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, CN, 1908 – Torino 1950), poeta e narratore laureatosi a Torino, cominciò col mostrare interesse per gli scrittori anglo-americani, che poi tradusse e presentò in Italia. Diresse la rivista torinese “Cultura” e collaborò ad altre riviste, venendo in contatto con altri letterati e studiosi, fra cui il Pitré. Essendo antifascista, fu mandato in carcere a Torino e a Roma, e quindi al confino in Calabria. Fu impiegato e poi direttore della casa editrice Einaudi e s’iscrisse al partito comunista italiano. Dopo aver conseguito il premio “Strega”, per una persistente crisi esistenziale, s’uccise. In letteratura seguì la corrente del neo-realismo, ma con una tecnica tutta sua, fatta di evocazioni, nostalgie, idealizzazione del paesaggio delle Langhe, sotteso autobiografismo, dolente umanità sotto aspetti ironici o grotteschi. La sua poesia è prosastica e la sua prosa è lirica. Fra le molte opere si ricordano la silloge di poesie Lavorare stanca, una silloge di novelle, il diario Il mestiere di vivere e i romanzi Il carcere, Paesi tuoi, Feria d’agosto, Dialoghi con Leucò, Prima che il gallo canti, La casa in collina, La bella estate, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole, La luna e i falò. Concluse la sua attività e la sua vita con la silloge poetica Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, la quale prende titolo dall’ultima e significativa composizione:

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo [...]
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi [...]
Scenderemo nel gorgo muti.

Fu sepolto nel cimitero di Torino, ma poi la sua salma è stata trasferita in quello del paese natale.

Vittorio Sereni (Luino, VA, 1913 – Milano 1983), laureatosi in lettere, combatté nella seconda guerra mondiale; e, fatto prigioniero dagli anglo-americani, fu deportato in Algeria e in Marocco. Finita la guerra, si stabilì a Milano, dove fu insegnante e successivamente dirigente d’una casa editrice. Nelle sue opere, ricche di profonda pensosità e di tenue mestizia, mostra di risentire negativamente della sua condizione d’abitante al confine con la Svizzera. Fu poeta (Frontiera, Diario d’Algeria, Gli strumenti umani, Stella variabile), narratore e traduttore.

Giorgio Bassani (Bologna 1916 – Roma 2000) narratore e poeta laureatosi a Bologna, fu incarcerato perché ebreo e antifascista. Quindi si trasferì a Roma, dove fu docente all’Accademia d’arte drammatica e curatore di programmi radiofonici. Ebbe occasione di conoscere Giuseppe Tomasi di Lampedusa e di costui curò la pubblicazione postuma del romanzo Il gattopardo. Scrisse molti romanzi, a cui attinsero anche il cinema e la televisione, e la prosa delle sue opere principali — ambientate nella sua Ferrara e intrise di pacata descrizione del paesaggio e di vita familiare tormentata — è modello di lingua italiana, adottato anche nelle scuole. Memorabili sono: Cinque storie ferraresi, Il giardino dei Finzi-Contini e L’airone. Pubblicò anche poesie e saggi

Alle tristi esperienze della seconda guerra mondiale si collega il romanzo Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino (Comiso, RG, 1920 – ivi 1996), che, dopo essere rimasto per tanto tempo in un cassetto, fu apprezzato da Leonardo Sciascia e pubblicato, divenendo subito un caso letterario nazionale per il premio “Campiello” ottenuto e per il film che dopo se ne trasse. Oscillante fra ironia e assurdità, il libro è tutto intriso d’una pena profonda e d’un lirismo neobarocco, in cui affiorano la grande cultura classico-cristiana e nel contempo la dolente umanità dello scrittore, il quale ci fa assistere alla lenta agonia dei suoi personaggi in un tubercolosario palermitano, sito in un paesaggio da favola, dove uno solo si salva: il protagonista, che poi è lo scrittore stesso, già combattente nella seconda guerra mondiale e colà ammalatosi della micidiale tubercolosi. Altri romanzi del Bufalino, docente di lettere nelle scuole secondarie superiori, sono: Museo d’ombre, Le menzogne della notte (coronato col premio “Strega”), Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, L’uomo invaso e altre invenzioni, Il Guerrin Meschino, Bluff di parole (aforismi, citazioni, diario, pensieri vari), Tommaso e il fotografo cieco ovvero il patatrac. Per il teatro egli lasciò la commedia La panchina. Di Bufalino oltre all’opuscolo Cere perse, va ricordata poi l’intensa collaborazione ad importanti quotidiani e periodici. Morì in uno scontro automobilistico ed è sepolto a Comiso: e sulla sua tomba è incisa l’epigrafe Hic situs luce finita (“Qui sepolto alla fine della sua giornata”) desunta dall’appendice di “Lapidi ricopiate” della sua Diceria [131 La lux latina è “luce del sole”, “giorno”, “vita”. Queste parole dicono al visitatore e al passante che con la fine della vita di quell’uomo lì sepolto si è spenta una grande luce: quella appunto che Bufalino ha rappresentato per la cultura italiana del ’900.].

Dino Menichini (Stupizza di Pulfero, UD, 1921 - Udine 1978), di padre umbro e madre slavo-veneta, visse con difficoltà la sua condizione di cittadino di confine, nonché quella di combattente nella seconda guerra mondiale.Da ciò scaturìuna poesia intrisa di dolce mestizia, con una chiara impronta decadente e crepuscolare, tutta basata su ricercatezze formali e linee melodiche, in cui spesso appaiono i disagi e gli orrori della guerra, con profonde ripercussioni nella sua anima, come quando descrive le città distrutte o evoca i combattimenti di Caporetto e quelli del monte Canin [132 Caporetto (in sloveno Kaborid e in austriaco Karfreit) è un comune oggi in Slovenia, ai confini con l’Italia, nel quale nel 1917 avvenne una grande sconfitta italiana da parte degli austro-ungarici e tedeschi (a causa del disimpegno bellico della Russia, seguito allo scoppio della rivoluzione bolscevica al suo interno), sconfitta che provocò l’omonima tragica ritirata, tanto che la parola è entrata in proverbio per indicare una disfatta totale: nel suo ossario giacciono oltre 7.000 caduti italiani. A sua volta il monte Canin (in sloveno Kanin), sempre al confine fra Italia e Slovenia, fu teatro d’aspri combattimenti particolarmente subito dopo lo sfondamento di Caporetto: e perciò “Monte Canino” è il titolo d’un noto canto alpino. Ma con la vittoria di Vittorio Veneto del 1918 l’Italia riscattò i territori di Trento e Trieste, mentre col trattato di Roma del 1924 acquisì il territorio di Fiume, estendendo i suoi confini come li aveva delineati Dante Alighieri nel 1300.]: "Ossario di Caporetto /Giovinezza ti duole nell'insegna / luminosa alla svolta, è questa l'ora / che la memoria arrende / a un motivo di marcia militare./ [...]/ Non salire all'Ossario dove un morto / soldato ti rimprovera la vita.". Pubblicò una diecina di sillogi poetiche, fra cui: Ho perduto i compagni, Patria del mio sangue,Via Calvario, Il Friuli una valle, La cieca ostinazione, Paese di frontiera. Oltre che poeta fu anche maestro elementare, giornalista (degli udinesi "Messaggero veneto" e "Friuli nel mondo" e della RAI di Trieste) e saggista(Poesia friulana in lingua italiana). Ottenne vari premi emorì improvvisamente per malattia cardiaca.Suggestivo per bellezza e musicalitàè il suoReisebilder militare, il cui titolo deriva da quello di Heinrich Heine, il qualenel 1821 aveva intitolato una sua celebre silloge Reisebilder ("Immagini di viaggio").

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