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Profili di letterati siciliani dei secc. XVIII-XX

Seconda edizione aggiornata Nov. 2007.
C.R.E.S. Centro di Ricerca Economica e Scientifica - Catania

© Tutti i diritti riservati all'autore

Giovanni MeliDomenico TempioMichele AmariLuigi CapuanaGiovanni VergaMario RapisardiFederico De RobertoLuigi PirandelloNino MartoglioConcetto MarchesiLuigi RussoCarmelina NaselliGiuseppe Tomasi di LampedusaAntonio AnianteSalvatore QuasimodoGino RayaVitaliano BrancatiElio VittoriniAlfio FerrisiGesualdo BufalinoLeonardo Sciascia


Altri letterati siciliani

Alla memoria di
Carmelina Naselli,
mia docente universitaria,
e dei remoti e fascinosi anni
del mio assistentato di letteratura italiana
e insegnamento liceale a Catania.


Premessa alla prima edizione

Il 23 aprile 1970 il quotidiano “La Sicilia” di Catania, per festeggiare i suoi 25 anni d’attività, attuò un’iniziativa che si può definire storica: la pubblicazione d’un supplemento che documentasse l’attività letteraria in Sicilia e il suo prestigio in Italia. Vi collaborarono esperti del settore e vi furono presentati, anche mediante fotografie, numerosi letterati, la cui fama era consolidata o promettente.

Un dato curioso che si riscontrava subito era che molte volte tali letterati, pur nati in Sicilia, vivevano e operavano in altre regioni italiane, e particolarmente nel Settentrione, dove magari avevano conseguito fama, senza mai dimenticare la loro terra, anzi esaltandola o comunque attingendo ad essa come ad una linfa alimentatrice.

A distanza d’oltre trent’anni quell’iniziativa giornalistica ha ancora la sua valenza: si può constatare gli umori d’ieri e fare confronti con quelli d’oggi. Inoltre si prenderà atto da una parte dei decessi e dall’altra delle nuove affermazioni.

Ebbene, questo lavoro, che a volte ripresenta o rielabora scritti precedentemente pubblicati (qui detti “Precedenti bibliografici” [Per precedenti bibliografici in questo libro s’intendono le pubblicazioni varie (libri, opuscoli, estratti, articoli, note, ecc.) a firma di Carmelo Ciccia relative all’autore trattato.]), ha preso le mosse proprio da quel documento giornalistico, che qui viene riportato in sintesi nelle pagine finali a conclusione e integrazione del lavoro stesso. Questo è un lavoro modesto e necessariamente lacunoso, che ad ogni modo è nato dall’amore per la terra natia e per la letteratura.

Infine per quanto riguarda i dati biografici (date, località, cariche, ecc.) si avverte che non sempre è stato possibile reperirli tutti e che comunque le varie fonti non sempre concordano negli stessi. Le sigle automobilistiche indicano le rispettive province.

I letterati ampiamente trattati (secondo l’ordine cronologico di nascita) sono 21 e quelli delineati per sommi capi (secondo l’ordine alfabetico) oltre 150.

L’autore confida che il lavoro possa essere utile.

Conegliano, giugno 2002
Carmelo Ciccia


GIOVANNI MELI
(Palermo 1740 - 1815)

Giovanni Meli ebbe la ventura di nascere a Palermo nel 1740, cioè in un periodo in cui la Sicilia, con un suo parlamento e un suo viceré, aveva una certa autonomia dai borboni e in cui una forte classe di feudatari faceva di tutto per accentuare questo distacco. In quest’ottica il dialetto siciliano era considerato come portatore d’un’identità da mantenere coi borboni e da esibire anche ai nuovi signori napoleonici. Fu così che il Meli, il quale in realtà non era né un sacerdote né un frate, nonostante che avesse frequentato la scuola dei gesuiti e avesse il titolo d’abate, nel 1796 fu incaricato di predisporre le leggi dell’Accademia Nazionale che fra l’altro doveva diffondere il siciliano come lingua nazionale dell’Isola.

In questo clima il Meli, che il dialetto l’aveva fin nel cognome (“miele”) divenne il più grande esponente della letteratura dialettale in Sicilia, dove peraltro operava una folta schiera di poeti dialettali. Egli fu prima medico condotto dal 1766 al 1772 nel vicino paese di Cínisi e poi incaricato d’insegnare chimica e botanica nell’università di Palermo, materie sulle quali lasciò scritti scientifici. Il suo esprimersi in siciliano ne fece il Dante della Sicilia, ammirato dai più grandi critici italiani, come il De Sanctis, perché anche lui — per usare le parole che Dante fece rivolgere da Sordello a Virgilio (Purg. VII 17) — “mostrò ciò che potea la lingua nostra”; e fu tanto caro al Foscolo, che lo tradusse in italiano. In pratica col Meli ci fu una ripresa dello splendore linguistico e culturale in genere che la Sicilia aveva conosciuto ai tempi dell’imperatore Federico II di Svevia, quando essa di fatto si pose al centro del Mediterraneo come isola culturale e con la cosiddetta “scuola poetica siciliana” costituì la prima lingua letteraria dell’Italia.

In Italia nel sec. XVIII dominava l’accademia dell’Arcadia, che postulava un rifugio ideale nell’omonima regione greca, nel suo mondo primitivo e pastorale, a base di canzonette e odi; e con quest’accademia il Meli dovette fare i conti. Da una parte ne imitò contenuti e stili, dall’altra andò al di là d’essa, rivelando tendenze illuministiche o addirittura realistiche, come in qualche riflessione sulla fame. Non per nulla aveva fatto studi non solo letterari, ma anche filosofici, meditando sulle pagine del Rousseau e degli enciclopedisti e derivandone l’ideologia dell’uguaglianza sociale, dell’innocenza primordiale e quindi della spontaneità del dialetto.

La sua produzione poetica cominciò quand’egli aveva 22 anni, con i poemetti satirici e giocosi La fata galanti (1762) e L’origini di lu munnu (1768), a cui seguirono la raccolta di liriche La buccolica (1762-72), il poema eroicomico Don Chisciotti e Sanciu Panza (1785-87), le Favuli murali (1810-14) e una serie di Elegii, Canzunetti e Odi varie.

La buccolica è sicuramente la sua opera più importante. Essa è composta d’Idilli in endecasillabi sciolti, a volte interrotti da settenari, e d’Ecloghe in terzine incatenate, con l’uso in entrambi i casi dell’arietta arcadica in settenari; e già dal primo sonetto s’intuisce il contenuto dell’opera, perché in esso il Meli si definisce “L’amicu di la paci e di la quieti”. L’opera non sempre risulta semplicemente ripetitiva di movenze arcadiche: fra i brani originali si può considerare l’Egloga Piscatoria in cui spira un’aria goldoniana.

Il poema Don Chisciotti e Sanciu Panza in dodici canti e in ottave sembra avere intenti politici: qualcuno vi ha visto il fallimento dei tentativi autonomistici della Sicilia, come in una inutile lotta contro i mulini a vento. Infatti, accanto all’ardimento innovativo di don Chisciotte, si evidenzia la posizione reazionaria di Sancio, per la quale l’autore sembra parteggiare, in una visione che anticipa lo scetticismo del Verga e del Tomasi di Lampedusa. E infatti lo stesso Meli nel 1814 si dimostrava in buoni rapporti col re Ferdinando IV, consegnandogli personalmente i primi volumi della sua opera omnia Poesie siciliane. Un brano di questo poema dialettale è stato musicato dal compositore Remigio Ussardi (Venezia 1952). Dal punto di vista artistico, se le parti narrative sono appesantite da una certa prosaicità, le arie danno modo all’autore d’esprimersi meglio:

Munti e vàusi, menu duri
di lu cori di dd’ingrata,
petri, trunchi, erbetti e ciuri,
chi adurnati sta vallata,
deh! salvatimi d’Amuri,
chi mi à l’alma ’mprigiunata;
o parrati vui pri mia
a la cara Dulcimia.
Da sti vàusi, unn’eu m’aggiru,
mio tirannu, amatu beni,
l’aria stissa ch’eu respiru,
missaggera a tia già veni;
porta acchiusi ’ntra ’n suspiru
li mei crudi acerbi peni;
lu meu cori è chi l’invia
a la cara Dulcimia...
[“Monti e balzi, meno duri / del cuore di quell’ingrata, / pietre, tronchi, erbette e fiori, / che adornate questa vallata, / deh! salvatemi dall’Amore, / che m’ha l’alma imprigionata; / andate a parlare voi per me / alla cara Dulcinea. / Da questi balzi, dov’io m’aggiro, / mio tiranno, amato bene, l’aria stessa che respiro, messaggera a te viene; / reca chiuse in un sospiro / le mie crude acerbe pene: / è il mio cuore che l’invia / alla cara Dulcinea...”]

Mentre le favole morali sono una specie di massimario che rientra nella tradizione favolistica classica, importanza hanno parecchie canzonette e odi del Meli, che sono entrate di diritto nelle antologie italiane, anche se a volte sembrano riecheggiare il Chiabrera, il Metastasio e altri poeti dell’Arcadia: ne sono esempio “La cicala” e “Lu labbru”. In quest’ultima composizione, che a volte viene assunta a paradigma della produzione meliana, un innamorato con sottile erotismo consiglia ad un’ape di cercare il miele sulle labbra della sua amata:

Dimmi, dimmi, apuzza nica:
unni vai cussì matinu?
Nun c’è cima chi arrussica
di lu munti a nui vicinu;
trema ancora, ancora luci
la ruggiada ntra li prati:
duna accura nun ti arruci
l’ali d’oro dilicati!
Li ciuriddi durmigghiusi
ntra li virdi soi buttuni
stannu ancora stritti e chiusi
ccu li testi a pinnuluni...
[“Dimmi, dimmi, o graziosa ape, / dove vai così di buon’ora? / Non c’è cima rosseggiante / del monte a noi vicino; / trema ancora, ancora brilla / la rugiada fra i prati: / sta’ attenta a non bagnarti / le ali d’oro delicate! / I fiorellini sonnacchiosi / fra i loro verdi boccioli / stanno ancora stretti e chiusi / con le corolle penzolanti...”]

Il Meli morì a Palermo nel 1815, lasciando una consolidata fama di poeta, in cui Arcadia e illuminismo si fondevano egregiamente con spunti preromantici e il cui amore per la natura e la cui nostalgia dell’età primordiale, con aspirazioni idilliche, rivelavano rara immediatezza e viva partecipazione. È vero che egli attinse anche ai poeti del suo tempo, ripetendone a volte i moduli convenzionali, ma è pure vero che seppe essere originale e nuovo, tanto che fu ammirato e tradotto anche dagli stranieri, tuttora conservando un posto di rilievo nella letteratura grazie alla musicalità e alla delicatezza delle sue costruzioni poetiche.


DOMENICO TEMPIO
(Catania 1750 - 1820 circa)

Il clima di libertinaggio e pornografia instauratosi da alcuni anni in Italia ha portato alla ribalta, senza più clandestinità o censure, il poeta catanese Domenico Tempio (1750-1820) [Secondo altri, 1751-1821], che, col suo solo nome dialettale di Miciu Tempiu come comunemente veniva chiamato e come lui stesso si chiamò (ad esempio nel Ditirammu primu), fino a mezzo secolo fa godeva di una tradizione orale e clandestina, capace di fare arrossire, turbare o eccitare gli ascoltatori per la forte impronta pornografica, qualificandosi così come un poeta proibito e perciò stesso in buona parte non pubblicato e non pubblicabile.

Il Tempio, parzialmente contemporaneo dei grandi Foscolo, Leopardi e Manzoni, fu autore di una vasta produzione in versi quasi interamente dialettale e soltanto in minima parte in italiano e perfino in latino (un latino maccheronico pornografico). Ma chi si sarebbe ricordato dei suoi manoscritti, dei suoi ditirambi, delle sue odi, dei suoi poemi d’occasione (per amici, benefattori, matrimoni, battesimi, ecc.), dei suoi sonetti estemporanei, delle sue tirate antiaccademiche e perfino del più celebrato poema La caristia [“La carestia”] se non i laureandi per le loro tesi, gli “arrabbiati del sesso”, gli editori interessati alla cassetta, i ricercatori e gli aspiranti a cattedre universitarie?

Checché se ne dica, il Tempio deve la sua durata nel tempo alla sua porno-poesia, che pure, come quantità è la parte meno rilevante della sua produzione, ma è quella in cui si manifesta il vero estro del poeta, quella per cui era veramente tagliato: la sua vocazione e la sua specialità.

È probabile che nel corpus tempiano si siano infiltrati degli imitatori (come Giuseppe Marco Calvino e Ignazio Scimonelli), ai quali apparterrebbero alcune delle composizioni tempiane più oscene; ma non si forma un filone imitativo se non c’è un consolidato punto di riferimento: e questo era costituito dalla numerosità e dall’ampia risonanza delle composizioni oscene del Tempio.

D’altronde, egli stesso fece riferimento più volte al tenore della sua poesia. Nella protasi di La ’mbrugghiereide [Il poema dell’imbroglione”], parodiando l’Ariosto, scrive:

Li fimmini, li masculi, l'amuri,
li purcarii, l'audaci imprisi iu cantu;

dove purcarii va inteso non solo come “imbrogli”, ma anche come “porcherie” vere e proprie. Inoltre egli scrisse un’autodifesa della sua poesia oscena: come il Boccaccio nel proemio della quarta giornata del Decameron si difese dall’accusa d’immoralità, il Tempio in alcuni versi intitolati “Protesta” si difese dalla stessa accusa affermando che con la sua poesia intendeva fare “processi criminali” alla morale del suo secolo, in modo che, vedendo dipinti tutti i vizi, la gente li aborrisca. Ma questa ci sembra un’autodifesa poco convinta e poco convincente.

È così, dunque, che da qualche decennio fioriscono stampe o ristampe d’opere tempiane, che spesso o sono raccolte delle composizioni più oscene o vengono qualificate nel titolo come Opera erotica / Versione integrale quando in realtà si tratta d’una ricca antologia d’opere varie, di cui quelle erotiche sono in proporzione una piccola parte, ancorchè la più esplosiva: e questo, proprio per indulgere all’andazzo del nostro tempo.

Ad onor del vero bisogna qui ricordare che hanno rivolto la loro attenzione al Tempio critici come Raffaele Corso, Domenico Cicciò, Gino Raya, Maria Emma Alaimo, Mario Rappazzo, Carmelo Musumarra, Santo Calì, Vincenzo Di Maria, Nino Pino, Jean-Paul De Nola e Giorgio Piccitto, solo per citarne alcuni. E ad un certo punto s’è formata una specie di gara fra gli studiosi, un concorso nel processo di riabilitazione e “beatificazione” teso a collocare il Tempio nel cielo dei grandi poeti.

Ma quello del Tempio è davvero erotismo? Si può applicare a lui ciò che Dario Del Corno scrive di Aristofane: “1e cose del corpo e del sesso sono nominate con una schietta franchezza che altro non è se non l’appropriazione ilare e spregiudicata della vita in tutti i suoi aspetti” [Dario Del Corno, Letteratura greca, Principato, Milano]? e può questo poeta essere accostato ad uno scrittore come il Boccaccio, nel cui modo d’intendere la vita il sesso e l’erotismo sono visti come sana realizzazione dell’ingegno umano? Semmai accade, questo accade qualche rara volta nel Tempio: è il caso di L'imprudenza o Lu mastru Staci, che, pur nella sua oscenità, ha un andamento boccaccesco nell’accezione più positiva di questo aggettivo.

Quella di Domenico Tempio è una morbosa tendenza allo sconcio, all’osceno, al luridume, alla sozzura, alla lubricità, al becerismo. Chi, oltre a “cantare” genitali, amplessi e altri atti erotici dedica un’ode al peto o si dilunga con dovizia di particolari su parti e funzioni corporali ripugnanti, come defecazioni ed escrementi, non vuole soltanto rimuovere il bigottismo e l’ipocrisia, il gesuitismo o certo clericalismo, ma dimostra di avere un’indole perversa, una tendenza alla sozzura sic et simpliciter, una devianza psichica, quasi maniacale.

Secondo alcuni questa devianza sarebbe una reazione alle tristi condizioni familiari ed economiche in cui si trovò ridotto il poeta, per la cui sopravvivenza un gruppo d’amici facoltosi dovette autotassarsi per costituirgli una modesta rendita mensile. Infatti il Tempio, figlio d’un commerciante di legname, si trovò ben presto orfano e vedovo, nonché padre d’una bimba subito premorta anche lei. Convivendo con la balia della bimba, ebbe poi da lei un figlio, ma dopo perse anche questo e la convivente stessa. Aveva cominciato a studiare in seminario, ma poi ne era uscito deluso, sperando di potersi laureare in legge; in realtà non completò mai i suoi studi e cercò di vivere vendendo legname e dando a nolo una barca.

In lui, se da una parte si riscontra una notevole cultura umanistica, di stampo classico mitologico, con una certa adesione all’Arcadia, dall’altra sono evidenti i segni di antigesuitismo e di antiaccademismo. Si è parlato d’un Tempio illuminista; e lui stesso più volte vantava i “lumi” del suo secolo, deducendone uno spirito intellettualistico, razionalistico, scientistico. Più volte fa riferimento a scoperte geografiche, matematiche, scientifiche e dimostra di risentire dell’enciclopedismo francese e di autori come Voltaire e Rousseau.

Tutto ciò si trova in particolare nelle opere non inquinate dall’assillo della pornografia, quando l’autore, sereno, ci descrive paesaggi, storia e monumenti di città come Catania e Acireale, eruzioni dell'Etna, paesi e villaggi, vita di pastori in egloghe con certe ariette in cui è evidente l’influsso del Metastasio. È il caso di Lu veru piaciri [“Il vero piacere”], La primavera, L’està, alcune odi, opere in cui riesce più felice. Sono queste opere, unitamente a brani di La caristia, che meritano considerazione letteraria. Per il resto la produzione non pornografica del Tempio è inficiata da frequenti tirate e tiritere, inutili digressioni, noiose ripetizioni e stancante prolissità.

S’è parlato anche d’un Tempio preromantico e preverista. Certamente egli rivolse la sua attenzione al corpo in modo ossessivo e —ripetiamo — morboso: ma per il linguaggio osceno e per la precisione anatomica e fisiologica d’esso può essere avvicinato più ai naturalisti francesi che ai veristi italiani.

Il suo dialetto catanese non è quello nativo dell’analfabeta, ma quello elaborato del letterato o professore: in esso si trovano elementi dotti provenienti dall’italiano, dal latino e da lingue straniere; elementi che, tutto sommato, disturbano la genuinità del dialetto autentico. Al riguardo ricordiamo che il Verga si rifiutò di scrivere in dialetto, sostenendo che non è adatto a scrivere in dialetto chi come lui stesso ha la mente “malata di letteratura”.

I riferimenti letterari nel Tempio sono molti: Omero, Virgilio, Dante, Poliziano, Sannazaro, Ariosto, Tasso, Guarini, Marino, Chiabrera, Meli, ecc. Classica è anche la metrica: endecasillabi, principalmente, ma anche altri metri, variamente rimati, in ottave, quartine, terzine, sonetti, odi, ditirambi, anacreontiche. A volte si ha anche il verso libero.

Interessante per l’atteggiamento pacifista ci sembra la protasi di Lu veru piaciri, in cui, parodiando Virgilio, il Tempio scrive:

Non cantu l’armi: li lassamu stari
in manu di li vappi e spataccini.
Chi gustu bruttu è chistu di cantari
straggi, sbudiddamenti, ammazzatini!
[...]
Iu non cantu l’antichi o li moderni

famusi eroi di umanu sangu lordi.

“Non canto le armi: lasciamole stare / in mano ai guappi e spadaccini. / Che gusto brutto è questo di cantare / stragi, sbudellamenti e uccisioni! / [... ] / lo non canto gli antichi o i moderni / famosi eroi d’umano sangue sporchi”. In effetti questo poema si distingue per la serenità che sa infondere attraverso la descrizione di bellezze paesaggistiche e architettoniche e le reminiscenze classico-mitologiche; e in ciò s’avvicina alle citate La primavera e L'està, in cui la descrizione del paesaggio e delle caratteristiche stagionali (piante, fiori, uccelli...) è fatta con delicatezza e sincera partecipazione.

Purtroppo, però, qualche serio tema sociale, come le monacazioni forzate (filone che va da La Religiosa di Diderot alla monaca di Monza del Manzoni e alla Storia di una capinera del Verga, e che avrebbe meritato una seria riflessione) finisce nella scomposta oscenità di La monica dispirata, che qualcuno, per riabilitare il Tempio, attribuisce a qualche suo imitatore. Così ci sembra forzata la definizione attribuitagli di poeta degli umili, degli affamati, della povera gente, che più calza a scrittori robusti e profondamente seri come il Verga. Esagerando al massimo, alcuni pretendono di presentare Domenico Tempio come un vate della Sicilia: in realtà egli è un poeta siciliano di secondaria importanza, lontano mille miglia come valore dai siciliani Meli, Verga, Pirandello e Quasimodo, e la cui popolarità sta esclusivamente nella produzione pornografica.

Ha scritto Giuseppe L. Messina nel suo Disegno storico della letteratura italiana (Signorelli, Roma, 1957, pagg. 387-388): “Domenico Tempio” (1750-1821), un umile mercante di legna che nel poema La caristia, ispirato dai tumulti popolari del ’98, si rivelò un vivace descrittore di folle, un acuto osservatore, un mordace satirògrafo; purtroppo però nei componimenti spiccioli preferì una fangosa lubricità, una laida oscenità da taverna.”

Tuttavia egli si può considerare rappresentante tipico di una certa catanesità: per lingua, interessi, mentalità. Si pensi al futuro Brancati e ad altri scrittori siciliani suoi epigoni. In questo senso si possono giustificare opere, vie e monumenti a lui dedicati in Catania e in qualche altra parte della Sicilia.

Precedenti bibliografici
1) Tempio, l’illuminista, “Giornale del Sud”, Catania, 20.VIII.1980;
2) Il poeta catanese Domenico Tempio, “La procellaria”, Reggio Calabria, lug.-sett. 1992.


MICHELE AMARI
(Palermo 1806 - Firenze 1889)

Michele Amari fu lo storico siciliano, studioso d’arabistica e orientalistica, a cui si deve un’ampia conoscenza del periodo musulmano in Sicilia e più in generale della storia e della civiltà degli Arabi.

Nato a Palermo nel 1806, fu allievo di Domenico Scinà, il quale aveva come programma di studio la conoscenza della storia siciliana, e si convinse subito della necessità d’iniziare o approfondire gli studi di lingua e civiltà araba e ne ebbe l’occasione più importante nel 1843, quando, essendo un patriota italiano d’ispirazione federalista (che asseriva l’autonomia della Sicilia nel quadro dell’unità italiana), fu costretto ad esulare a Parigi in seguito alla pubblicazione d’un suo libro sui Vespri Siciliani, che poi si chiamò La guerra del Vespro Siciliano. Infatti la polizia temeva che con quell’opera egli volesse incitare i siciliani alla rivoluzione.

Fu proprio a Parigi che si mise a consultare e studiare tutte le opere, anche manoscritte, che riguardavano il periodo musulmano in Sicilia; e da questo studio intenso nacque la monumentale sua Storia dei Musulmani in Sicilia, pubblicata da Le Monnier dal 1854 al 1872 e che si può considerare una delle più importanti opere storiche dell’Ottocento per rigore della ricerca. È — questa — un’opera fondamentale per la conoscenza d’un periodo storico anch’esso fondamentale per la Sicilia; ma l’opera, pur avendo il suo centro d’interesse nel periodo musulmano in Sicilia, spazia ben al di là, da una parte presentando le origini degli Arabi e i loro primitivi costumi (terribile quello di sotterrare vive le neonate quando il vitto scarseggiava), la loro evoluzione, i loro caratteri (che l’Amari guarda, tutto sommato, con ammirazione), la nascita e la diffusione dell’islamismo, l’espansione araba nel mondo occidentale; dall’altra entra nel merito delle vicende dell’Impero Romano e dei suoi imperatori, nonché delle vicende del papato e di questioni teologiche e dottrinarie.

Questa Storia purtroppo non si legge facilmente a causa della sua lingua classicheggiante. Sebbene I promessi sposi siano stati scritti prima d’essa, l’opera manzoniana continua ad essere fresca e viva (linguisticamente parlando, oltre che per altri meriti) anche oggi; mentre l’opera dell’Amari sembra essere stata scritta due-tre secoli prima di quella manzoniana. Probabilmente lo storico siciliano si era ispirato a certi modelli classici e riteneva che una siffatta lingua fosse adeguata all’elevatezza e alla serietà dell’assunto.

Nel 1848-49 l’Amari ritornò in Sicilia e partecipò attivamente agli avvenimenti politici, entrando nel governo antiborbonico del 1848. Dopo l’unità fu parlamentare italiano e ministro della pubblica istruzione (1862-64) e insegnò lingua araba a Pisa e a Firenze.

Nel 1881 uscì la sua Biblioteca arabo-sicula, un’altra opera monumentale, nella quale egli esamina le fonti della precedente: opere storiche, geografiche, poetiche (molta importanza l’Amari attribuiva all’espressione poetica degli Arabi). Grazie a lui alcuni autori arabi come Edrisi e Ibn Hamdis divennero famosi in Occidente.

Quindi l’Amari fu preso dagli scrupoli e voleva rivedere tutta la sua produzione, anche perché il materiale a sua disposizione aumentava di giorno in giorno. Stava preparando una nuova edizione della Storia quando la morte lo colse a Firenze il 16 luglio 1889. La Storia si legge in una pubblicazione postuma, riorganizzata e completata da altri arabisti.

L'acume, la vastità delle sue conoscenze, la simpatia per il mondo arabo e soprattutto le notizie, spesso documentate, che egli fornisce sulla dominazione araba in Sicilia fanno di Michele Amari uno storico di primo piano e dovrebbero sollecitare i Siciliani ad onorarne degnamente la memoria.

Precedenti bibliografici
1) Michele Amari, storico siciliano, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 1.XII.1989.


LUIGI CAPUANA
(Mineo 1839 - 1915)

Volendo parlare di Luigi Capuana non si sa a quale dei suoi interessi dare la precedenza, perché egli fu insieme critico letterario e teatrale, scrittore di romanzi, novelle, fiabe e drammi (in italiano e in siciliano), docente universitario e uomo politico, venendo a svolgere un importante ruolo d’intellettuale, molto significativo per la cultura italiana del suo periodo.

Nato nel 1839 da una famiglia di proprietari terrieri, era stato avviato agli studi di giurisprudenza, ma non conseguì mai la laurea, preferendo dedicarsi a ricerche e studi da autodidatta. Il suo primo interesse fu per i canti popolari, di cui raccolse gran quantità, lui stesso componendone alcuni.

Nel 1864 cominciò l’esperienza forse più importante della sua vita: il soggiorno a Firenze, che l’anno dopo divenne capitale d’Italia, ma che era già ritrovo di rinomati personaggi della cultura e crogiuolo delle più disparate tendenze artistico-letterarie. Qui, dove nel 1865 conobbe il Verga e si legò a lui in grande e sincera amicizia, fu critico d’importanti giornali come “La nazione” e diffuse l’idea di svecchiare il teatro italiano grazie al realismo.

Nel 1869 rientrò temporaneamente in Sicilia e divenne ispettore scolastico e sindaco di Mineo, occupandosi personalmente di lingua, letteratura, teatro, arte, fotografia. Inoltre approfondì i nostri autori classici ed estese la sua cultura ai letterati e filosofi stranieri.

Nel 1877, divenuto critico del “Corriere della sera”, pubblicò a Milano la sua prima raccolta di novelle, Profili di donne, che rivela i suoi interessi per lo psicologismo. E psicologismo e verismo s’intrecciano in Giacinta, il suo primo romanzo di stampo veristico (dedicato ad Emile Zola), che voleva essere lo studio d’un caso umano, un documento di vita, da applicare poi ad altri casi d’interesse sociale.

Nel 1880 uscirono i suoi Studi sulla letteratura contemporanea, continuati anche negli anni successivi. Uno di questi studi fu anche la felice analisi dei Malavoglia del Verga, che lui per primo capì e valorizzò.

Spostatosi a Roma, vi diresse “Il Fanfulla della domenica”, a cui collaborarono importanti letterati, e pubblicò la prima raccolta di fiabe dal titolo C’era una volta, alla quale negli anni futuri fece seguire altre raccolte come Il raccontafiabe, Re Tuono, Chi vuol fiabe, chi vuole?, e racconti lunghi come Scurpiddu e Cardello, tanto che oggi probabilmente il suo nome è rimasto più legato alla letteratura per l’infanzia, essendo egli uno degli scrittori più amati dai bambini. In Scurpiddu la Sicilia appare molto estesa e tutta da scoprire, perché dalle montagne alle valli riserba delle sorprese ambientali care ai fanciulli. Anche in Paese delle zagare, Gli Americani di Rabbato e Gente nostra esaltò i paesaggi della Sicilia, aggiungendo la sua aspirazione ad un miglioramento di vita.

Nel 1884 tornò in Sicilia, pur con soggiorni a Roma, e, oltre ad insegnare nel magistero femminile, si dedicò prevalentemente alla critica letteraria: Per l’arte (1885), Gli “ismi” contemporanei (1898), Cronache letterarie (1899), La scienza della letteratura (1902), L’arte e la vita (1905). Con queste ed altre opere egli diffondeva il naturalismo francese, rivendicando all’arte un ruolo autonomo rispetto ad ogni valutazione personale dell’autore. Con l’opera d’arte si sarebbe dovuto fare uno studio della società e creare dei “documenti umani”. Come scrisse poi il Verga, l’opera d’arte avrebbe dovuto sembrare essersi fatta da sé, e la mano dell’artista restare assolutamente invisibile. In pratica l’artista avrebbe dovuto essere come un fotografo e un anatomista. Il Capuana perciò fu l’ideologo e il maestro del verismo italiano, in quanto che — pur non raggiungendo la grandezza d’altri scrittori come il Verga — s’accollò il compito di teorizzatore e propagandista di metodiche d’oltralpe, da lui introdotte in Italia, che poi servirono a svecchiare la letteratura italiana, dandole un nuovo impulso che — se pure non capito all’inizio — fu foriero di sorprendenti risultati. Per la diffusione di queste teorie, il Capuana dovette affrontare delle vere e proprie battaglie letterarie, soprattutto in difesa di scrittori amici come il Verga.

Intanto nel 1890 era uscito il suo romanzo Profumo e nel 1901 uscì il capolavoro Il marchese di Roccaverdina, che con la sua fosca e drammatica storia, in cui s’intrecciano ancora verismo e psicologismo, con una tendenza alla morbosità, consolidò la sua fama di grande scrittore.

Nel 1893 col titolo Le appassionate uscì la sua raccolta delle novelle scritte fin dal 1874. Nel 1894 uscì un’altra raccolta intitolata Le paesane, che fu seguita nel 1898 da Le nuove paesane, mentre le Ultime paesane uscirono postume nel 1923: tutte novelle ricche d’ambienti rusticani e di note di colore locale. Altra raccolta fu Il Decameroncino del 1901, mentre nel 1895 era uscito La sfinge, un romanzo di scarsa importanza.

Dal 1902 insegnò stilistica nell’università di Catania. Nel 1907 uscì il romanzo Rassegnazione, anch’esso di scarsa importanza, mentre tuttora interessante e ricercato si rivela il Teatro dialettale, iniziato a pubblicare nel 1911, che comprende famose commedie, come Malia (1895), Lu cavaleri Pidagna (1909), Lu paraninfu (1914) e Don Ramunnu (1915). Morì a Mineo nel 1915.

Oltre che per la sua produzione, il Capuana va ricordato anche per l’amicizia nei riguardi del Verga. Capuana, Verga e De Roberto costituirono un’ammirevole triade di amici-letterati. Diciamo pure che il Verga senza le altre due “spalle” forse non sarebbe stato il grande scrittore che ora appare. Bisogna riconoscere, però, che i giudizi che i tre si formulavano a vicenda (e più che altro il Capuana nei confronti del Verga) erano basati su obiettive valutazioni e non su personali simpatie dovute ad amicizia o corregionalità. Erano sempre giudizi sinceri, tanto che ciascuno faceva rilevare con reciproca e gradita sincerità eventuali difetti, dando anche opportuni consigli. E per questo nell’affermazione del verismo in Italia il Capuana e il Verga rappresentano rispettivamente — se così si può dire — la mente e il braccio, inaugurando una lunga stagione letteraria che tuttora gli stranieri c’invidiano.


GIOVANNI VERGA
(Catania 1840 - 1922)

Trattando del Verga, la prima questione che si deve affrontare è quella del luogo e della data di nascita. In base all’atto di nascita posseduto dal comune di Catania, egli risulta nato a Catania il 2 settembre 1840, alle ore 4,30; ma diverse sono state le obiezioni: sembra infatti che la famiglia in quei giorni si trovasse nella tenuta agricola di contrada Tébidi, nel comune di Vizzini (CT), e che lo scrittore sia nato effettivamente in quella contrada qualche giorno prima della data “certificata”, o il 29 o il 31 agosto 1840. A quest’ipotesi sembrò aderire lo stesso scrittore, il quale nel donare una copia delle sue Novelle rusticane al Capuana, così scriveva nel 1883: “Al suo amico Capuana da Mineo G. Verga da Vizzini — o quasi — villani entrambi”. Ma in una lettera a Francesco Di Giorgi del 21.10.1899 il Verga, scherzando, così scriveva: “Per tua regola, io, sebbene d’antica e nobile origine vizzinese, e possessore di latifondi in quell’agro, appartengo alla fedelissima città di Catania, dove son nato il 2 o l’8 o il 15 settembre dell’anno da precisare”. Infine in una lettera dell’1.3.1915 al Croce egli scriveva: “Sono stato al Municipio per avere la data precisa che desidera conoscere: — 31 agosto 1840. — Io invece credevo fosse il 2, oppure l’8 settembre. Eccomi dunque più vecchio di una settimana, ma sempre con grande stima ed affetto per Lei”. [Per questo si veda: Gino Raya, Bibliografia verghiana, Ciranna, Roma, 1972, nn. 1, 442, 1285 e 2604..].

Insomma nemmeno l’interessato aveva le idee chiare sull’argomento. Nonostante queste perplessità, nel 1939 il municipio di Catania nella lapide apposta sulla casa Verga di via S. Anna, n° 8, fece scolpire la frase “In questa casa nacque e morì Giovanni Verga...”, perché l’atto di nascita del Verga è redatto e conservato proprio nei registri comunali di Catania, anche se nella numerazione contiene un insolito avverbio ter, che ha dato luogo a sospetti d’interpolazione e quindi a svariate polemiche.

Però, al di là delle polemiche, ufficialmente il Verga è nato il 2 settembre 1840, alle ore 4,30, perché così certificano (cioè danno per certo) i documenti, e quindi questa è la data che ogni storico o biografo deve tenere per buona, come il De Roberto ha fatto. Il Russo ha scritto che “solo il Verga fu scrupoloso tanto da comunicare la vera data di nascita (2 settembre 1840), a rettificare un’altra data corrente su lui”: con ciò il critico ha confermato la data anagrafica, pur dimostrando d’ignorare le varie e discordanti dichiarazioni fatte in merito dal Verga.

Quanto sopra, ovviamente, non c’entra con la grandezza di Giovanni Verga e si riporta soltanto per curiosità.

Dunque, Giovanni Carmelo Verga Catalano nacque a Catania nel 1840 da un’antica e nobile famiglia, discendente da quegli spagnoli venuti in Sicilia per la guerra del Vespro. Suoi maestri furono Antonino Abate e Domenico Castorina, che gl’inculcarono, insieme con l’amore per le lettere, anche il sentimento nazionale italiano: del resto fra i suoi antenati c’erano stati letterati, storici, ecclesiastici e patrioti; e suo nonno paterno era stato un parlamentare siciliano.

La famiglia alternava la residenza fra Catania e Vizzini, e nella tenuta vizzinese di Tébidi soggiornò in occasione dell’epidemia di colera del 1855, quando — come sembra — lo scrittore conobbe un’educanda che poi gl’ispirò la Storia di una capinera.

Nel 1856-57 scrisse il romanzo Amore e patria, ambientato nell’America della rivoluzione, che — non scevro d’errori di grammatica e d’altro genere — egli non pubblicò mai, considerandolo solo la prima esercitazione giovanile. Intanto si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza del catanese “Siculorum Gymnasium”; ma non conseguì mai la laurea.

Dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, nel 1860 il Verga si arruolò nella Guardia Nazionale e fondò il giornale “Roma degli Italiani”; l’anno successivo fondò “L’Italia contemporanea” e “L’indipendente”. Tra il 1860 e il 1861 uscì il suo grosso romanzo patriottico I carbonari della montagna (voll. 4, Galàtola, Catania), scritto nell’entusiasmo della seconda guerra d’indipendenza italiana (1859), che egli ottenne di pubblicare col denaro occorrente per la laurea, ormai abbandonata, e che ebbe buona accoglienza da parte di giornali del continente come “La nazione” di Firenze. Esso è ambientato nella Calabria del Murat, fra cospirazioni carbonare, antifrancesi e antigiacobine.

Nel 1863 uscì a puntate come appendice alla “Nuova Europa” il suo romanzo Sulle lagune, che auspicava una rapida liberazione e annessione del Veneto e che da lui poi non fu mai pubblicato in volume a sé stante. Ambientandolo fra Venezia e Oderzo (TV), il Verga dimostrò una particolareggiata conoscenza di luoghi e di costumi che non aveva mai visto, nonché un grande amore per la città lagunare e la sua regione. Questa pubblicazione praticamente gli aprì le porte degli ambienti intellettuali e patriottici di Firenze, dove si recò nel 1865 in occasione del centenario della nascita di Dante. Lì trovò il Rapisardi, assistette all’insediamento della capitale d’Italia, tornò varie volte risiedendovi a lungo, entrando a pieno titolo nei circoli culturali fiorentini, grazie soprattutto all’interessamento nel 1869 di personaggi come il veneto Francesco Dall’Ongaro (1808-1873) — al quale era stato raccomandato dal Rapisardi — e la friulana Caterina Percoto (1812-1887), e frequentando i più noti scrittori e artisti del momento come Aleardi, Capuana, Fusinato, Imbriani, Prati, macchiaioli, ecc.

Superata la tendenza patriottica della sua narrativa, intanto nel 1866 aveva pubblicato il romanzo Una peccatrice (Negro, Torino), iniziando così la fase borghese e psicologica. Nel 1867 egli dovette soggiornare nei paesini etnei di Battiati e Trecastagni per sfuggire ad una nuova epidemia di colera. La Storia di una capinera uscì nel 1870 a puntate sul giornale milanese “La ricamatrice” e l’anno dopo in volume a sé stante (Lampugnani, Milano), facendo piangere tutte le sartine e casalinghe d’Italia e ottenendo perciò un’incredibile popolarità, tanto che quando il Verga morì il “Corriere della sera” lo ricordava proprio come autore di quest’opera, trascurando invece I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo, che non vennero capiti.

Nel 1872 cominciò il periodo milanese del Verga, che — sia pure con alcuni rientri a Catania — durò più di vent’anni e fu quello della migliore produzione del Verga, il quale da lontano poteva vagheggiare con cognizione di causa ed affetto la sua terra natia. Ovviamente anche qui venne a contatto con personaggi illustri del momento storico-letterario, che era la scapigliatura, e intrecciò amicizie che influirono sulla sua vita: Maffei, Boito, Praga, Tarchetti, ecc. In questo clima nel 1873 uscì il romanzo Eva (Treves, Milano).

Nel 1874 pubblicò il bozzetto Nedda (Brigola, Milano), che segnò quella che comunemente viene detta la “conversione letteraria” del Verga (differente nella forma e nella sostanza dalla “conversione religiosa” del Manzoni). Non più salotti, ambienti raffinati, passioni sublimi, duelli, ecc., ma capanne, ambienti rurali della Piana di Catania, passioni elementari, insomma mondo piccolo e pieno di colore locale. Era l’inizio del verismo. Da ora in poi, sia pure con qualche ritorno a personaggi e stili della precedente produzione, come nel caso dei romanzi del 1875 Eros (Brigola, Milano) e Tigre reale (Brigola, Milano), fu questo il mondo letterario del Verga, che poi è il mondo che rese grande lo scrittore. Nello stesso 1875 uscirono nell’“Illustrazione italiana” le Storie del castello di Trezza, un racconto lungo che sta fra realtà e mito, poi confluito nella raccolta Primavera e altri racconti (Brigola, Milano) del 1876, cui nel 1877 seguì la raccolta Primavera (Brigola, Milano) comprendente anche Nedda. In seguito andava pubblicando su giornali e riviste novelle e racconti isolati.

Nel 1878 preannunciò all’amico Salvatore Paola l’idea d’un grande racconto ciclico da intitolare La marea e che poi invece fu intitolato I vinti; e gliene delineò il contenuto e i personaggi. Contemporaneamente chiedeva al Capuana e ad altri amici siciliani raccolte di proverbi, detti, usi e costumi siciliani per rendere il colore locale: interesse — questo — non sufficientemente scandagliato e tenuto in considerazione dalla critica [Per questo si veda: Carmelo Ciccia, Il mondo popolare di Giovanni Verga, Gastaldi, Milano, 1967, pagg. 27-36]. D’altronde lo stesso interesse dimostrava per le tradizioni popolari lombarde, alcune delle quali sono presenti nella raccolta di novelle Per le vie. L’anno dopo nel “Fanfulla della domenica” pubblicò la novella Fantasticheria, chiara anticipazione dei Malavoglia confluita nella raccolta Vita dei campi (Treves, Milano, 1880), contenente celebri racconti come Cavalleria rusticana, L’amante di Gramigna, Jeli il pastore, La lupa, Rosso Malpelo, ecc.

I Malavoglia uscirono nel 1881 (Treves, Milano) e nel 1882 seguì il romanzo Il marito di Elena (Treves, Milano). Nello stesso 1882 egli compì un viaggio a Londra e a Parigi, dove s’incontrò con lo Zola. Nel 1883 apparvero le raccolte Novelle rusticane (Casanova, Torino), comprendenti altri celebri racconti come Malaria, La roba, Libertà, ecc., e Per le vie (Treves, Milano). Intanto a Catania il Verga trasformò Cavalleria rusticana in dramma, che nel 1884 fu recitato a Torino, dove subito dopo fu pubblicato il testo (Casanova, Torino). Nello stesso anno pubblicò Drammi intimi (Sommaruga, Roma), altra raccolta di novelle.

Dopo il successo di Cavalleria rusticana, si dedicò ad altri drammi come In portineria e Per le vie (1885) e pubblicò altre raccolte di novelle come Vagabondaggio (Barbera, Firenze, 1887), I ricordi del capitano D’Arce (Treves, Milano, 1891), Don Candeloro e compagni (Treves, Milano, 1894).

Nei suoi viaggi il Verga spesso si fermava a Roma; e qui nel 1888 trascorse un consistente periodo col Capuana e lo Zola. Fu questo l’anno in cui uscì, a puntate nella “Nuova antologia”, il romanzo Mastro-don Gesualdo, che subito dopo fu rifatto in volume a sé stante (Treves, Milano, 1889). E a Roma nel 1890 fu rappresentata l’opera lirica Cavalleria rusticana che il musicista Pietro Mascagni aveva musicato su libretto di Targioni Tozzetti-Menasci. Questa fu un vero trionfo, che si accrebbe di replica in replica, inducendo poi il Verga ad intentare un’azione giudiziaria contro il Mascagni per una rivalutazione dei diritti d’autore, che finalmente dopo lunghe vicende gli furono riconosciuti.

Intanto pubblicava altri drammi, come La lupa (1896), che poi avrebbe dovuto essere musicata dal Puccini, ma non arrivò mai a compimento, e Dal tuo al mio (1903), spinosa vicenda d’operai e scioperi, poi ripubblicato come romanzo (a puntate nella “Nuova antologia” del 1905 e come volume a sé stante presso Treves, Milano, 1906).

Nel 1907 cominciò a lavorare a La duchessa di Leyra, il terzo romanzo del ciclo dei Vinti, che però non completò mai: il primo capitolo e parte del secondo rimasero sempre aperti sul leggio al quale lavorava in piedi. Nel 1912 uscì la raccolta di tutto il Teatro.

Ritiratosi a Catania alla fine del secolo, si dedicò alla cura dei suoi interessi economici, badando alle proprietà; e dato che, pur avendo avuto diverse donne (Giselda Foianesi, moglie di Mario Rapisardi, Dina di Sordevolo, Paolina Greppi, ecc.) non aveva voluto assolutamente sposarsi  (e al riguardo è significativa l’espressione messa in bocca a padron Fortunato nei Malavoglia (cap. XV):  Il matrimonio è come una trappola di topi; quelli che son dentro vorrebbero uscire, e gli altri ci girano intorno per entrarvi.), trascorse in solitudine i suoi ultimi anni  trascorse in solitudine i suoi ultimi anni nella sua casa di Catania, con l’eccezione del suo 80° compleanno nel 1920, quando fu festeggiato in pubbliche manifestazioni al teatro “Valle” di Roma e al “Bellini” di Catania, con discorsi di Luigi Pirandello, Vittorio Emanuele Orlando e Benedetto Croce, ministro della P.I. In questa occasione, su proposta del presidente del Consiglio dei Ministri Giolitti, il Verga fu dal re Vittorio Emanuele III nominato senatore, titolo ch’egli accolse col consueto distacco.

Morì a casa per colpo apoplettico il 27 gennaio 1922 e fu sepolto nel viale degli uomini illustri del cimitero di Catania.

Anche questa sepoltura ha dato luogo a dibattiti sulla stampa: perché negare al Verga un sito più consono alla sua grandezza, cioè la cattedrale di Catania, dove si trova la salma di Vincenzo Bellini? Sembra che l’ostilità delle autorità ecclesiastiche sia dovuta a certi racconti del Verga come Papa Sisto e Il reverendo, in cui lo scrittore presenta dei preti avidi di potere e di ricchezze, che con la bocca predicano, con una mano benedicono e assolvono e con l’altra rubano. C’era poi la questione dello scetticismo religioso del Verga, uno scrittore che sembrava irridere alla Provvidenza, confinandola nel nome d’una barca sempre affondata, che non andava a messa, che teneva relazioni amorose irregolari. Queste erano obiezioni che oggi, con i nuovi orientamenti della Chiesa, non reggono più. Intanto il Verga non mise mai la religione alla berlina, come certi suoi contemporanei fecero: semmai colse l’aspetto formale, utilitaristico e se si vuole folcloristico della pratica religiosa. Quanto alle messe, il Raya ha documentato l’interesse del Verga per le messe in suffragio dei suoi defunti [Gino Raya, Le messe diVerga, “Otto/Novecento”, Brunello (VA), genn.-febbr. 1979]. Ma, ammesso che ciò fosse importante, a parte ciò e a parte qualsiasi debolezza umana, quello che conta è la grandezza del Verga, la cui salma avrebbe meritato una collocazione più degna rispetto all’attuale fra sindaci, parlamentari e attori (oltre che qualche scrittore non certo della levatura del Verga). Tutto ciò dovrebbe indurre chi ne è responsabile ad una riconsiderazione, in modo che presto tale salma trovi collocazione nella cattedrale di Catania, nel posto simmetricamente corrispondente alla tomba del Bellini: così la sepoltura in cattedrale sarebbe intesa come espressione della più alta catanesità, e non come deposito di salme di re, vescovi e benefattori, sia pure con l’eccezione del grande Bellini.

La grandezza del Verga non fu evidente durante la sua vita. Egli si lamentò più volte del fatto che il verismo e la sua arte non venivano compresi. Intanto al pubblico borghese ripugnavano quegli ambienti e modi rustici, quelle usanze “selvagge”, quel parlare e scrivere non ortodosso. La lingua, soprattutto la lingua, era ostacolo ad una valutazione positiva: in posizioni opposte, il siciliano Alessio Di Giovanni gli consigliava di riscrivere I Malavoglia in dialetto siciliano e il toscano Giorgio Petrocchi di farsi correggere le bozze da un toscano. Non si capiva che la lingua del Verga era prodotto non d’un semianalfabeta sgrammaticato, ma d’un artista il quale con quella lingua da lui stesso coniata e che non è né dialetto siciliano né italiano ortodosso, voleva esprimere il primitivismo dei suoi personaggi, la limitatezza del loro orizzonte, la loro sintassi istintiva: sicché la lingua del Verga presenta il lessico italiano e la struttura sintattica siciliana. [Il Verga usò rarissime parole dialettali siciliane e sue opere come La lupa furono poi tradotte da altri in siciliano.] Eppure con tutte quelle e e che, le quali si ripetono a volte in modo monotono e apparentemente insensato, il Verga ha fatto poesia, basata su un’orecchiabile musicalità. Così sono nati e dovevano restare capolavori come I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo, novelle come Cavalleria rusticana, La roba, Jeli il pastore, La lupa, ecc., che hanno girato il mondo e continuano ancor oggi a tenere banco nelle librerie.

Nonostante le pubbliche difese di critici amici come Luigi Capuana e Federico De Roberto, il Verga si doleva dell’incomprensione subita, dichiarando amaramente che di tutta la sua produzione non era stata riconosciuta valida che Cavalleria rusticana, e ciò per merito del musicista Mascagni. Ma poi i tempi cambiarono: vennero i primi critici Benedetto Croce e Luigi Russo e poi molti altri; vennero le numerose riedizioni e le traduzioni in tutte le lingue; venne lo studio in tutte le scuole; vennero il cinema e la televisione: e allora apparve in tutta la sua dimensione la grandezza del Verga, lo scrittore più grande dell’Ottocento, dopo (cronologicamente) il Manzoni. La grandezza del Verga a livello mondiale è testimoniata anche dalla casa editrice Mondadori, che negli anni 70 del sec. XX l’ha inserito nella sua collana “I giganti della letteratura mondiale”.

Purtroppo fra tutti questi critici ad un certo punto più d’uno, confondendo l’arte con la politica, ha cercato di sminuire la grandezza del Verga: si tratta di chi vuol valutare tutta la letteratura e l’arte col metro politico. Il Verga era di destra o di sinistra? La sua produzione aveva un messaggio politico-sociale? e quale? Ed ecco allora che spunta il Verga latifondista, il Verga codino e reazionario, il Verga che godeva degli spari del Bixio contro i poveracci di Bronte. E con ciò non solo si dissacra e demolisce, ma si dimostra di non capire nulla dell’arte del Verga. La critica marxista ha rimproverato al Verga il fatalismo e la rassegnazione, pretendendo un Verga rivoluzionario che postulasse la lotta di classe.

Strano destino politico, quello del Verga, che peraltro, dopo essere stato in gioventù un patriota italiano, fu sempre apolitico: durante il fascismo il Bottai lo definì fascista; nel secondo dopoguerra il Trombatore lo definì socialista, negli anni 50 lo si definì comunista e infine, cambiata la musica, negli anni 80 si è cominciato a parlare di un Verga conservatore e reazionario.

In realtà per il Verga, secondo i canoni del verismo esposti nella premessa della novella L’amante di Gramigna, l’opera d’arte doveva sembrare essersi fatta da sé e la mano dell’artista restare assolutamente invisibile. Era il metodo della “fotografia” e dell’“anatomia” diffuso in Francia dallo Zola; ma per fortuna il Verga andò al di là delle sue premesse e del naturalismo stesso: infatti chi legge le sue opere si accorge benissimo che la mano dell’autore c’è ed è quella d’uno scrittore che condivide le pene dei suoi personaggi. È vero che lui ritenne il fato responsabile della vita dei popoli, praticamente immutabile: e per questo egli non propugnò la lotta di classe, facendo propria l’atavica rassegnazione del popolo siciliano: ma è anche vero che — come lui stesso scrisse nella prefazione a Dal tuo al mio — col descrivere la vita com’è egli ha fatto opera sociale.

Insomma, leggendo i capolavori del Verga succede come quando si guarda certi quadri del Millet o del Courbet: si ammira le forme e i colori dei paesaggi assolati e delle contadine che raccolgono le spighe mentre il soprastante agita la frusta, ma contemporaneamente si pensa alla durezza di quella fatica e all’inumanità di quel trattamento. Come giustamente scrisse il Russo, il Verga fece come certi scrittori russi dell’Ottocento che, descrivendo obiettivamente le condizioni del popolo, di fatto prepararono un nuovo assetto sociale e ne suggerirono la fatale necessità; ma si potrebbe aggiungere che purtroppo in Russia il nuovo assetto fu cruento, mentre in Italia per fortuna è stato pacifico e democratico.

Il Verga artista non è stato né di destra né di sinistra, né rivoluzionario né reazionario, perché non era un politico, e non volle mai esserlo, ma era soltanto un artista, che, descrivendo o meglio cantando la sua terra e il suo popolo, raggiunse i vertici della poesia, fino a diventare uno de “I giganti della letteratura mondiale”.

Precedenti bibliografici
1) L’opera di G. Verga: monumento al carattere del popolo di Sicilia, “Tribuna etnea”, Paternò (CT), 25.I.1958;
2) Verga e gli umili, “L’eco del Parnaso”, Napoli, mag.-ott. 1958;
3) La grandezza di Verga, “Corriere di Sicilia”, Catania, 26.VII.1958;
4) Verga e gli umili, “Corriere di Sicilia”, Catania, 31.VII.1958;
5) Il mondo popolare di Giovanni Verga, Gastaldi, Milano, 1967;
6) Letture verghiane / La roba e il suo mito, “La sonda”, Roma, lug.-ago. 1969;
7) Letture verghiane / La battaglia di Lissa e la morte di Luca, “La sonda”, Roma, ott. 1969;
8) L’edizione televisiva del “Mastro-don Gesualdo”, “La sonda”, Roma, marzo 1970;
9) Les débuts littéraires de Giovanni Verga, “La sonda”, Roma, gen. 1973;
10) Giovanni Verga in Inghilterra, “La sonda”, Roma, feb. 1973;
11) Giovanni Verga in Impressioni e commenti, Virgilio, Milano, 1974, pagg. 57-72;
12) I vinti di Verga e quelli di Raya, “Silarus”, Battipaglia (SA), set.-ott. 1979;
13) Verga politicizzato, “Silarus”, Battipaglia (SA), nov.-dic. 1981;
14) L’eruzione etnea del 1886 nelle pagine di Verga e Aniante, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 18.VI.1986;
15) Goldoni e Verga, “La tribuna letteraria”, Padova, gen.-mar 1990;
16) La biblioteca di Giovanni Verga, “Il corriere di Roma”, Roma, 15.X.1998.
17) Venezia e Oderzo nella narrativa di Giovanni Verga, “Atti della Dante Alighieri a Treviso”, vol. IV, Zoppelli, Treviso, 2001.
18) Verga e Fogazzaro, “Pomezia-notizie”, Pomezia (RM), gen. 2006.


MARIO RAPISARDI
(Catania 1844 - 1912)

Mario Rapisardi, detto “il vate di Catania”, nacque a Catania nel 1844 e, pur con studi irregolari, si dedicò presto al latino, al greco e alla filosofia razionalistica, divenendo un esponente del positivismo evoluzionistico. Educato in ambiente cattolico e monarchico, passò quindi all’anticlericalismo e all’ateismo. All’anagrafe era Mario Rapisarda, ma in omaggio al suo autore preferito cambiò il suo cognome in Rapisardi, affinché nella rima ci fosse un richiamo al Leopardi.

Nel 1863, e cioè a 19 anni d’età, pubblicò I canti. Del periodo giovanile e della sua prima formazione religiosa è notevole l’ode A Sant’Agata.

Nel 1865, cioè un anno dopo Capuana e lo stesso anno del Verga, si recò a Firenze, allora capitale d’Italia oltre che della cultura italiana, dove entrò negli ambienti letterari e fece amicizia con lo scrittore Francesco Dall’Ongaro (a cui poi raccomandò il Verga) e con il linguista Pietro Fanfani, svolgendo fin d’allora un ruolo anticarducciano.

Nel 1868 pubblicò un poema in dieci canti dal titolo La palingenesi, in cui propugnava un rinnovamento religioso e la conciliazione tra fede e ragione, religione e progresso.

Nel 1872 pubblicò Le Ricordanze e a Messina sposò la toscana Giselda Fojanesi, maestra in un educandato a Catania; ma il matrimonio durò poco, cioè fino a quando il geloso e focoso poeta, scoperte delle lettere del Verga a lei indirizzate, schiaffeggiò la giovane moglie, spingendola praticamente fra le braccia del rivale, del quale poi ella fu amante per vari anni.

Nel 1877, prendendo spunto dal carducciano Inno a Satana uscito nel 1865, pubblicò il poema Lucifero, simbolo della ribellione religiosa e del pensiero umano che si afferma, un’opera che portò l’autore in primo piano nel campo letterario, anche perché il Fanfani e altri letterati videro in certe parole del canto XI beffeggiato il Carducci, innescando una polemica astiosa e lunga che, divenendo un contrasto fra due uomini, due poeti, due stili e due mondi (nord e sud d’Italia), influì negativamente sulla reputazione del Rapisardi.

Dopo alcuni anni d’incarico universitario e la pubblicazione dell’opera Introduzione allo studio della letteratura italiana, nel 1878 il ministro e scrittore Francesco De Sanctis nominò il Rapisardi ordinario di letteratura italiana e latina nell’università di Catania, della quale successivamente egli fu anche rettore. Intanto traduceva Lucrezio (1880), Catullo (1889), Shelley (1892), Orazio (1897) e poi Seneca, Petronio, Ennio, Boezio.

Nel 1883 pubblicò la raccolta di poesie politiche e sociali Giustizia e l’anno dopo il poema Giobbe, nel quale il biblico personaggio, simbolo dell’umanità, è uno scettico sempre immerso nel dubbio e nella problematica.

Nel 1894, ispirandosi ai Paralipomeni della Batracomiomachia del Leopardi, pubblicò il poema politico-satirico-allegorico Atlantide (d’ispirazione socialista) sulla felicità nel regno d’Utopia e un dialogo (Leone) dedicato agli uccisi nelle repressioni ordinate dal Crispi contro i fasci dei lavoratori siciliani fondati dal De Felice.

Tra il 1885 e il 1907 pubblicò una serie di poemetti, poesie epico-liriche, idilli ed epigrammi, che forse sono la sua migliore produzione per il tono pacato, l’effusione del sentimento, l’aspirazione alla pace e alla fratellanza, in una visione generale panteistica con influenze anche leopardiane. Fra questi: Poesie religiose (1887), Elegie (1889), Empedocle ed altri versi (1892), L’asceta ed altri poemetti (1902).

Morì a Catania nel 1912, e ai suoi funerali parteciparono oltre 150.000 persone, venute anche dall’estero; ma la sua salma fu esclusa per parecchi anni dal cimitero a causa delle sue idee radicalmente ateistiche e anticlericali. Caduto in oblio durante il fascismo, fu riscoperto grazie all’interesse d’intellettuali come Marchesi, Asor Rosa, Penna, Saglimbeni e altri.

Il poema Lucifero è intessuto di bestemmie e altre irriverenze, espresse con il livore del classico mangiapreti, lontano dal sereno e pur fermo dissenso di chi non crede e manifesta civilmente la propria ineludibile libertà di coscienza. Anzitutto contro la femminea religiosità, il Rapisardi postula un’età d’uomini vigorosi e ribelli, che mettano da parte gli dei “falsi e bugiardi” e vadano alla ricerca del vero:

...Uomini vuole,
Non miniate femminette imbelli,
La nuova età; gagliardi uomini, a cui
Dal temprato intelletto al cor discorra
Siccome aura vital l’aura del Vero.

(Lucifero Epistola)

In questo poema, se da una parte c’è l’avversione al Vaticano, a papi, prelati e preti (avversione che c’era anche in Dante), e inoltre ci sono l’esecrazione dell’Inquisizione e l’esaltazione dei martiri del pensiero, dall’altra ci sono pure la satira, lo sberleffo e il vilipendio del cristianesimo e di tutte le sue forme [Ad esempio, per lui farsi la comunione è con disinvolta espressione un “ingoiar Cristo in pasticche”.], anche se l’autore poi dichiara di ammirare Cristo, “un mansueto / che de l’iroso Iddio credeasi il figlio”, e lo compatisce perché fu perseguitato dai sacerdoti nonostante che predicasse l’amore universale: e all’incarnazione di Cristo, ritenuta vana, oppone l’incarnazione del demonio e la sua redenzione:

S’incarnò dunque il mio Demonio. In terra
Sorrideva l’aprile, entro al suo petto
Sorrideva l’amor. Sopra la cima
Del Caucaso famoso, onde s’appella
La giapetica stirpe, egli fu visto
Venir come in un sogno, e star d’incontro
A l’aurora nascente...

(Lucifero I)

In un contesto di rinnovamento egli — per il quale qualcuno ha parlato di laicismo lirico, quasi misticheggiante — arriva a divinizzare la libertà, accanto alla quale come più alto esponente d’essa pone Dante:

Surge a la Diva accanto
Disdegnoso uno Spirto, a cui nell’ira
Divien foco il pensier, fulmine il canto.

(Lucifero XI)

Sulle orme del Marx (1818-1883), il Rapisardi concepì la storia come distinta in sette ere: 1) collettivismo; 2) schiavismo e autoritarismo; 3) feudalismo; 4) borghesia e capitalismo; 5) socialismo; 6) comunismo; 7) anarchia. Quest’ultima — novità del Rapisardi — sarà un’epoca non di caos, disordine e confusione, ma di giustizia, di pace, d’amore per il prossimo e di fratellanza universale: un’epoca ideale, senza armi né guerre né tribunali né carceri né oppressori, nella quale ciascuno — con uno spiccato senso del dovere e dell’altruismo — spontaneamente farà il bene degli altri, in un clima di massima libertà:

Verrà, per quel poter che l’infinita
Mole perpetuamente urge e trasforma,
Sacra all’Idea che i nuovi animi informa,
Veduta dal pensier, dal cor sentita,
Una specie verrà, che da la torma
Nostra, dagli anni e dal dolor contrita,
A più alti destini, a miglior forma
Divinamente innalzerà la vita.”

(L’impenitente)

E di quest’epoca egli si fece il banditore, profetizzando come patria l’intero globo terrestre e una famiglia che pratichi solo il culto della verità, convinto che l’utopia sia “la gran madre del Vero”:

Ma una patria, una legge, un popol solo,
Che nell’opre del braccio e del pensiero
Sempre più sorga a luminoso volo
E incalzi sempre più l’arduo mistero:
Una patria, a cui sia limite il polo,
Una famiglia, a cui sia Fede il Vero,
Un amor, che confonda entro se stesso
Gli esseri tutti in un fraterno amplesso.

(Atlantide)

Subito giudicato con entusiasmo dal De Sanctis, ma non così dal Croce, in realtà il Rapisardi mostrò una notevole discrasia fra la forma legata al classicismo, ora elegante ora paludata, e il contenuto di sostegno a moderne istanze sociali, quali scienza, progresso, libertà. Filippo Argeri lo ha giudicato “grande” ed ha esaltato in particolare la sua attesa della settima età profetizzata, in cui “non avrà luogo più nessuna offesa, nessuna ingiustizia, nessun male; ma ritornerà, invece, dolce e soave la mitica età dell’oro, sogno di artisti e di poeti”. Salvatore Calleri ne ha lodato la “grandezza di carattere intellettuale e morale”, nonché l’anelito a una vera giustizia sociale e l’apostolato dell’ideale, “per il quale si eresse a giudice dei suoi tempi e profeta dell’avvenire”. Paolo Mario Sipala ha visto in lui “un catalizzatore degli ideali del progresso sociale e del libertarismo laico, di vate e patrocinatore dell’Italia d’opposizione”, ragioni per le quali il poeta fu ammirato da personaggi come Turati, Cavallotti e Napoleone Colajanni. E, nonostante la penosa polemica col Carducci (che lo definì “tenorino di provincia”) e la mancata comprensione del verismo, il Rapisardi fu ritenuto da Giorgio S. Santangelo “un robusto mallevadore del rinnovamento in senso europeo della cultura della nostra isola”. Infine un’appassionata difesa e rivalutazione del Rapisardi è stata fatta da Sebastiano Barbagallo, che lo ha giudicato “poeta e uomo-simbolo, pensatore delle grandi meditazioni, artista delle immense e suggestive evocazioni”: inoltre egli ha respinto l’accusa d’ateismo mossa al poeta, ritenendola una malevola invenzione.

In ogni caso, ciò di cui va dato atto al Rapisardi è la profonda serietà umana e professionale: nello studio, nella ricerca, nel pensiero e nella produzione letteraria.

Nella sua Divina Commedia in italo-siciliano maccheronico Nino Martoglio (1870-1921) collocò questo personaggio nel settimo cerchio dell’Inferno (canto XIV), fra i violenti contro Dio dannati all’eterna pioggia di fuoco, e gli assegnò il ruolo del Capaneo dantesco. Pur nella spassosa ironia, il Martoglio diede una marcata caratterizzazione del Rapisardi (nell’introduzione del canto definito “pueta mundiali”), sottolineandone l’alterigia e l’irreligiosità, ma anche il valore poetico allora generalmente riconosciutogli:

“— Vivo o morto — dice — io non ho canciato. / E allora il Merro, che capì di cui: / O Maro Rapisardi, dissi, è vero, / T’arriconosco e tuo parenti fui. / Poi dissi a me: — Quest’omo tanto artero / Che re del Pindo fuce e del Parnaso / Tenne in disdegno sempri il mundo intero. / Iddio l’aveva un poco supra il naso / Per causa che l’aveva scuncecato / Esaltando Lucifir. Di tal caso / Egli non si scunforta e le dispregi / Che contra a lui si fano in paradiso / Sono i megliuri soi commendi e fregi." [“ — Vivo o morto — dice — io non sono cambiato. / E allora il Merlo, che capì l’antifona: / O Mario Rapisardi, disse, è vero, / Ti riconosco e tuo parente fui. / Poi disse a me: — Quest’uomo tanto altero / che re del Pindo fu e del Parnaso / ebbe in disdegno sempre il mondo intero. / Dio l’aveva un po’ sul naso, / poiché egli l’aveva importunato / esaltando Lucifero. Per tal destino / egli non si sconforta e gli spregi / che contro lui si fanno in paradiso / sono per lui i migliori blasoni e fregi.” Il Merlo è Giacomo Patti, che nella finzione martogliana svolge il ruolo del Virgilio dantesco.]

Il Rapisardi fece scuola: fra le molte persone delle stesse idee con cui venne a contatto ci fu la socialista istriana Giuseppina Martinuzzi (Albona 1844 - 1925), fortemente impegnata in campo politico-sociale, la quale nel 1907 pubblicò il volume di versi Ingiustizia / Canto storico-sociale, che anche nel titolo prendeva le mosse dalla raccolta rapisardiana Giustizia.

Precedenti bibliografici
1) Personaggi del Catanese di ieri e di oggi nel campo della cultura e dell’arte che fanno onore alla Sicilia / Mario Rapisardi poeta e letterato, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 18.VII.1997.


FEDERICO DE ROBERTO
(Napoli 1861 - Catania 1927)

Federico De Roberto nacque a Napoli nel 1861 da genitori siciliani e ben presto si trasferì a Catania, dove (salvo parentesi) studiò e operò fino alla morte, avvenuta nel 1927. I suoi interessi letterari andarono subito al verismo: e nel 1883 pubblicò una raccolta di saggi dal titolo Arabeschi. Avendo ottenuto dall’editore Giannotta la direzione d’una collana di narrativa, ebbe occasione di conoscere e frequentare numerosi letterati, tra cui il Verga, col quale intrecciò una sincera e duratura amicizia, fino a diventare la sua ombra.

Nel 1883 pubblicò la raccolta di racconti La sorte, apprezzata dal Capuana. Dal 1888 al 1897 visse a Firenze e poi a Milano, dove il Verga lo introdusse negli ambienti letterari. Lì collaborò al “Corriere della sera” e pubblicò la maggior parte delle sue opere di narrativa: Documenti umani e Processi verbali (1888 e 1890, novelle), Ermanno Raeli (1889, romanzo), L’illusione (1891, romanzo), I viceré (1894, romanzo), Spasimo (1897, romanzo). Contemporaneamente collaborava ad importanti riviste, quali “La nuova antologia”, “L’illustrazione italiana”, “La lettura”, ecc.

Nel 1897 rientrò a Catania, sempre collaborando intensamente a giornali e riviste, specialmente con una serie d’articoli dedicati alla narrativa verghiana. Tra il 1918 e il 1920 pubblicò i saggi storico-politici Al rombo del cannone e All’ombra dell’olivo; mentre l’anno stesso della morte, ma postumo, uscì l’ultimo suo romanzo, La paura, che conteneva ancora situazioni di guerra.

In tutta la sua produzione spicca certamente il romanzo I viceré, per il quale il De Roberto ebbe l’apprezzamento della critica e la qualifica di novello Bourget per l’orientamento positivistico seguito. Il francese Paul Bourget (1852-1935), che concentrò la sua attenzione sull’analisi psicologica dell’alta borghesia, fu quattro volte a Palermo, incontrandosi e conversando a lungo — oltre che con altri letterati siciliani — anche col De Roberto, che egli influenzò e da cui ricavò note e appunti per le sue Sensations d’Italie. Entrato nell’orbita del positivismo burgetiano, il De Roberto sicuramente ne guadagnò prestigio, anche se non per lungo tempo. Ma in una lettera al De Roberto di poco prima della quarta visita del Bourget a Palermo, il Verga aveva giudicato il Bourget stesso “famoso scocciatore”. Il Bourget, che aveva dato esempio del suo metodo analitico nei suoi romanzi e nel saggio Fisiologia dell’amore moderno (1890), successivamente si convertì alla fede cattolica, ma senza dubbio condizionò il De Roberto, che credeva in quel metodo e a sua volta lo sperimentava.

I viceré sono la saga della famiglia Uzeda, narrata con spietata ironia; ma lo scrittore mette in vetrina non solo quella famiglia, bensì l’intera società siciliana che non riusciva a distaccarsi da certi moduli di convenzionalità. L’essere re, viceré, barone o altro nobile diventa allora un gioco anche per i bambini, i quali assumono i nomi e titoli di vari esponenti della saga. Con la decadenza e fine degli Uzeda (che fra l’altro hanno dato nome ad una storica porta di Catania) è tutto un mondo che si sgretola e finisce: e il De Roberto ne coglie le fasi con fredda consapevolezza. Accanto a questi nobili, presenti anche in opere derobertiane precedenti, si aggira una torma di miserabili coi più impellenti bisogni quotidiani: una torma che forse non pensa nemmeno d’avere diritto ad un posto nella storia. La vicenda dei Viceré fu continuata nel romanzo incompiuto L’imperio.

Oggi la fama del De Roberto è offuscata da quella del Verga; ma, se si considera spassionatamente l’opera derobertiana senza inopportuni confronti col Verga stesso, si deve riconoscere l’impegno e la capacità artistica di questo scrittore minore.

Precedenti bibliografici
1) rec. a Paul Bourget et d’autres pages de littérature française et comparée di Jean-Paul de Nola, “Otto/Novecento”, Brunello (VA), sett.-dic. 1979;
2) rec. a Paul Bourget et d’autres pages de littérature française et comparée di Jean-Paul de Nola, “La procellaria”, Reggio Calabria, genn.-marzo 1980.


LUIGI PIRANDELLO
(Girgenti/Agrigento 1867 – Roma 1936)

Si discute ancora dei motivi della grandezza mondiale di Luigi Pirandello, più che altro legata al suo teatro: quella grandezza che nel 1934 fu consacrata dal premio “Nobel” per la letteratura. A ben considerare, però, tale grandezza è dovuta al fatto che il suo teatro non vuole suscitare né pianto e catarsi (come quello greco antico) né riso e divertimento (come quello latino antico e a volte greco antico): se fa ridere, lo fa per non far piangere di ciò di cui si dovrebbe piangere, e cioè di tutto e di tutti. Certamente diverso dalla leggerezza delle commedie del Goldoni e dalle sganascianti farse del Martoglio, il teatro del Pirandello è un àpax: esso fa pensare. Fa pensare soprattutto alla commedia umana, con le sue false apparenze, le sue contraddizioni, le sue assurdità. In pratica tale teatro porta sul palcoscenico la vera commedia umana e ne fa spettacolo.

Luigi Pirandello nacque nel 1867 a Girgenti, oggi Agrigento, nella contrada del Caos, un nome legato al mito e alla speculazione greca, che richiama Esiodo ed Empedocle, il quale era proprio di lì. E la vicinanza alla Valle dei Templi sembrò favorire in lui il senso della speculazione greca. Il padre, gestore d’una miniera di zolfo, era antiborbonico e garibaldino, ma non andava d’accordo con la moglie. E questa potrebbe essere stata una delle cause che provocarono vari traumi nello scrittore, lasciandogli delle tracce profonde nella vita e nell’arte. Accostatosi spontaneamente alla religione, il giovane ne assimilò contenuti e formalità, ma ben presto, scosso dall’ipocrisia d’un prete che predicava bene e razzolava male, se ne allontanò, ripiegando definitivamente in un amaro agnosticismo-ateismo, che tuttavia per la serietà del soggetto non assunse mai l’aspetto dell’anticlericalismo.

Il Pirandello cominciò a studiare nelle scuole tecniche, per volontà del padre che lo voleva in miniera, ma nel frattempo da solo studiò il latino e passò al ginnasio. Quindi si mise a leggere i classici greci e latini, nonché autori italiani come Leopardi, Carducci, Rapisardi e Graf, che cercò d’imitare in raccolte di versi giovanili.

Nel 1883 uscì a Torino la sua prima novella. Nel 1886, dopo un’esperienza di lavoro col padre in miniera, lo scrittore s’iscrisse alla facoltà di legge a Palermo, dove venne a contatto con giovani di sinistra e s’interessò della problematica meridionalistica. Passato alla facoltà di lettere, l’anno dopo si trasferì a Roma. Nel 1889 uscì a Palermo la sua prima raccolta di versi intitolata Mal giocondo e, dietro suggerimento d’un suo professore, il Pirandello si trasferì a Bonn, dove imparò il tedesco, tradusse le Elegie romane di Goethe (poi pubblicate nel 1892) e nel 1891 si laureò con una tesi sul dialetto di Girgenti.

Dopo un periodo di grave malattia trascorso in Sicilia, egli nel 1893 si stabilì a Roma, dove fece amicizia col Capuana, che lo incoraggiò a darsi alla narrativa. È così che nacque il romanzo L’esclusa (poi pubblicato a puntate nel giornale “La tribuna” nel 1901 e come volume a sé stante nel 1908). L’anno dopo si sposò a Girgenti con Antonietta Portulano, figlia del socio del padre, e i due si stabilirono a Roma. Quel matrimonio combinato, dopo un periodo d’intesa, rivelò delle crepe, fino a guastarsi definitivamente a causa della pazzia della moglie, dovuta anche a gelosia: altro trauma che incise nella vita e nell’arte dello scrittore. Intanto egli collaborava a giornali e riviste; e nel 1895 nacquero il primo figlio (Stefano) e il romanzo Il turno (poi pubblicato nel 1902), mentre la seconda figlia (Lietta) nacque nel 1897, anno in cui lo scrittore cominciò ad insegnare lingua e stilistica nel magistero femminile di Roma. L’insegnamento durò fino al 1922, rivelando in lui un ottimo docente, che s’aggiornava e partecipava al dibattito pedagogico. Notevole in questo periodo fu una “lectura Dantis” tenuta in Orsanmichele di Firenze nel 1916. Del suo insegnamento restano anche numerosi saggi pubblicati in giornali, riviste e volumi a sé stanti, i quali rivelano la buona preparazione dello scrittore in materia estetica.

Nel 1899 con la nascita del terzo figlio (Fausto) ebbe inizio l’esaurimento nervoso della moglie, che costrinse ad una serie d’umiliazioni e altre sofferenze lo scrittore. Egli tuttavia l’assistette amorevolmente; anche quando la malattia, aggravata da una paralisi, si trasformò in pazzia vera e propria in seguito alla caduta sulla miniera d’una frana che aveva provocato pure un dissesto finanziario. Lo scrittore dovette racimolare denaro con lezioni e articoli, impegnandosi a scrivere anche per la rivista “La nuova antologia”.

Nel 1901 il Capuana scrisse un profilo sul Pirandello, invitando gli editori ad accaparrarsi la collaborazione di questo scrittore; e uscì Zampogna, raccolta di poesie campestri.

Nel 1904 uscì prima a puntate e subito dopo in volume il romanzo Il fu Mattia Pascal, subito tradotto in varie lingue. Con la vicenda d’un uomo “morto” per volontà della moglie, “rinato”, “rimorto” e infine “risorto”, il Pirandello si affermava come grande scrittore, iniziando la sua ascesa letteraria, grazie proprio al suo “pirandellismo” che poneva all’attenzione dei lettori e poi degli spettatori situazioni assurde che purtuttavia esistono.

Nel 1909 uscì a puntate nella “Rassegna contemporanea” il romanzo I vecchi e i giovani, poi pubblicato in due volumi nel 1913. L’anno dopo a Roma la compagnia Martoglio rappresentò due atti unici pirandelliani, La morsa e Lumìe di Sicilia. Quest’ultimo, tratto da una novella dello stesso Pirandello, fu poi da lui tradotto in siciliano e da Ettore Petrolini in romanesco. Così il Pirandello, che finora aveva pubblicamente dichiarato di essere restio al teatro, si avviò invece ad esso, dove trovò la piena realizzazione e la sua vera fortuna.

Da questo momento diventa difficile seguire l’attività letteraria del Pirandello, tante sono le opere di teatro e narrativa, in particolare novelle, che si accavallano. In queste ultime, poi raccolte col titolo di Novelle per un anno (nel 1922 quattro volumi, poi continuati negli anni successivi, fino al quindicesimo volume postumo del 1937), dopo un periodo veristico sulla scia di Capuana e Verga, egli, superando il naturalismo, si fece portatore della sua nuova visione della vita e dell’arte, con prevalenza di caratteri complicati e di situazioni assurde e paradossali.

Fra i romanzi vanno almeno citati Si gira (1915), poi divenuto I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925), e Uno, nessuno e centomila (1925): quest’ultimo, emblematico già nel titolo, affronta con dissacrante ironia la crisi d’identità dell’uomo contemporaneo.

Fra i drammi più noti, più rappresentati e più discussi in tutto il mondo vanno citati: Pensaci, Giacomino!, Liolà, La giara e La patente (dalle omonime novelle, la prima delle quali divenuta anche balletto con musiche d’Alfredo Casella), Il berretto a sonagli (nato in dialetto come A birritta cu’ i ciancaneddi), Così è (se vi pare) in cui s’accentua la discrepanza fra essere e parere, Il piacere dell’onestà, L’uomo, la bestia e la virtù, Tutto per bene, Come prima meglio di prima, La signora Morli una e due, Ma non è una cosa seria, Enrico IV, Sei personaggi in cerca d’autore, commedia da fare (col coinvolgimento del pubblico), Vestire gl’ignudi, L’uomo dal fiore in bocca, Quando si è qualcuno, I giganti della montagna...

Lo scrittore all’occorrenza s’improvvisava sceneggiatore, regista, capocomico, trascorrendo buona parte della sua vita in platea, sul palcoscenico e dietro le quinte.

Anche il cinema s’interessò del Pirandello e ne “saccheggiò” — se così si può dire — novelle, romanzi, drammi. Intanto egli veniva a contatto e stringeva significative amicizie con attori, registi e filosofi come il Tilgher, alle teorie del quale poi tentò d’adeguarsi, mentre costui lo valorizzava. S’avvicinò anche al filosofo Heidegger.

Nel 1920 celebrò con un vibrante discorso gli 80 anni del Verga e mise in luce le peculiarità e la grandezza dei Malavoglia, sminuendo la figura e l’opera del D’Annunzio.

Morì a Roma nel 1936, dopo aver disposto per sé un “carro d’infima classe, quello dei poveri... Nudo. E nessuno m’accompagni... Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi”. Le ceneri, in principio inumate a Roma, furono dieci anni dopo traslate ad Agrigento, nel museo archeologico; ma nel 1961 furono inumate in una roccia sotto un pino della contrada del Caos da lui stesso indicato, accanto alla casa natale (oggi museo pirandelliano) e di fronte al mar d’Africa, dove tuttora si trovano.

Sullo sfondo della sua parabola umana ed artistica si staglia la ciclopica personalità d’un uomo straordinario, che fece dei suoi dubbi, delle sue amarezze e delle sue convinzioni materia d’una grande arte, in cui si mescolano scetticismo e fatalismo, ironia e umorismo, in un intreccio a volte beffardo che sa di tragedia greca. Infatti il suo umorismo, su cui il drammaturgo stesso scrisse un saggio (1908), altro non è che una profonda amarezza scaturita da un vita difficile vissuta all’insegna dell’effimero e del contingente: anche se, grazie a ciò, il nome di Luigi Pirandello ora giganteggia in tutto il mondo e fa onore alla Sicilia che gli diede i genitori, i natali, molti ambienti e la sua stessa storia, ricca di tradizioni e di contraddizioni, di drammi grandi e piccoli spesso ignorati o vilipesi dai più.


NINO MARTOGLIO
(Belpasso 1870 - Catania 1921)

Nino Martoglio deve la sua fama principalmente a scritti in dialetto — come le famose farse I civitoti [“Abitanti della Civita”, quartiere popolare di Catania, popolani.] in pretura (1903), San Giuvanni decullatu (1908) e L’aria del continente (1915), drammi come Scuru (1917), raccolte di poesie come Centona (1899 e 1907) — e ad attività giornalistica, teatrale, cinematografica e dulcis in fundo di duellante. Fra le altre sue opere teatrali ci sono Nica (1903), L’arte di Giufà [Maschera popolare del tipico balordo della Sicilia.] (1916), Cappiddazzu paga tuttu (1917), Sua eccellenza di Falcomarzano (1919) e Il marchese di Ruvolito (1920), Annata ricca, massaru cuntentu (1921).

Egli nacque a Belpasso (CT) nel 1870 da un docente che era stato fervente mazziniano e garibaldino e che aveva trasfuso i suoi principi nelle sue battaglie giornalistiche. Dal padre il giovane Nino ereditò il senso della giustizia e della libertà che lo caratterizzò in ogni sua attività. A 14 anni fu mozzo nella nave d’uno zio, più che altro per esplorare il Mediterraneo. Nel 1889 fondò e poi diresse fino al 1904 il settimanale umoristico “D’Artagnan”, diventato presto mezzo ideale per note di costume e battaglie politiche e sociali: ad esso collaborarono famosi poeti dialettali, come il napoletano Salvatore Di Giacomo e i romaneschi Cesare Pascarella e Trilussa, coi quali egli instaurò un sodalizio letterario, concretizzatosi anche in convegni sulla poesia dialettale. La sua vita fu breve. Nel 1921, a soli 51 anni, egli morì a Catania per un banale incidente: recatosi a visitare un figlio in ospedale, precipitò nella tromba d’un ascensore, sembra per aver aperto una porta sbagliata.

Suo sincero amico fu Luigi Pirandello, che egli stesso aveva spronato ad avvicinarsi al teatro comico dialettale e che non solo scrisse la prefazione alla Centona, ma gli fu vicino come scrittore, come drammaturgo e come tecnico di teatro. Soprattutto all’occorrenza intervenne in difesa di lui e della sua memoria.

Delle commedie del Martoglio si può dire che esse deliziarono le platee non solo della Sicilia, ma di tutt’Italia, specialmente quando avevano attori come la coppia Angelo Musco (1872-1938) e Rosina Anselmi (1880-1965) e venivano trasposte in pellicole cinematografiche. La commedia San Giuvanni decullatu, vivace caricatura dell’ingenua religiosità popolare, fu interpretata in siciliano da Angelo Musco e in italiano da Totò (1898-1967).

Circa la Centona, che in gergo catanese dell’epoca significava “confusione”, si può dire che a volte il Martoglio volle indagare negli ambienti più umili alla ricerca d’un’umanità primigenia e caratterialmente contrassegnata. Le sue attente osservazioni sul linguaggio di delinquenti e mafiosi nelle osterie non erano soltanto studi sul gergo malavitoso — di cui egli riportò varie espressioni, dimostrando come esso consistesse in locuzioni davvero incomprensibili, anche per l’uso di termini arcaici — ma anche studi di tale umanità in generale. Nell’opera, poi, ci sono anche note di colore catanese, usanze e ritratti di vita e costume della fine del secolo XIX, come quello della classica passeggiata in via Etnea e quello che descrive il refrigerio pomeridiano estivo nella villa “Bellini” a base di modeste consumazioni di cocco (il “cocco, cocco fresco!” dei banditori) e di acqua annivata di Paternò, la famosa “acqua grassa”, ferruginosa, frizzante e rinfrescata con pezzetti di neve portata dall’Etna, oggi non più sgorgante a Paternò (CT).

Notevole è anche La Triplici Allianza: smàfiri [“Spropositi, facezie, burle”] di Mastru Cuncettu lu Tamburineru, polimetro bernesco nella parlata catanese, pubblicato in volumetto nel 1899: dissacrazione di quell’Alleanza che riusciva “a sorpresa” per la maggioranza degl’italiani.

Con accenti entusiastici il Pirandello così scrisse nella prefazione alla Centona: “Nino Martoglio è tutta la sua Sicilia, che ama e che odia, che ride e giuoca e piange e si dispera con gli accenti e coi modi che qui in Centona sono espressi per sempre incomparabilmente”. E questo giudizio può essere esteso a tutta la produzione del Martoglio.

La monumentale opera Martoglio in tre ponderosi volumi, degnamente e intelligentemente curata da Giuseppe Sambataro [Martoglio, a cura di Giuseppe Sambataro, voll. 3, Banca Popolare di Belpasso, 1984], non contiene il poema La Divina Commedia di Don Procopio Ballaccheri, che il Martoglio andò pubblicando a puntate in “D’Artagnan”. Il merito della scoperta e valorizzazione di questo poema è di Salvatore Calleri, che non solo ha raccolto e ordinato i vari canti, ma ha scritto un lungo e corposo saggio introduttivo (quasi metà dell’intero volume) e ha curato le note e all’occorrenza la traduzione di certi vocaboli, quelli più incomprensibili anche per gli stessi siciliani. È nato così un libro nuovo nella bibliografia martogliana [Nino Martoglio, La Divina Commedia di Don Procopio Ballaccheri, a cura di Salvatore Calleri, EDAS (Edizioni Dr. Antonino Sfameni), Messina, 1986].

Questa Divina Commedia praticamente è un’imitazione e parodia dell’opera dantesca: i 22 canti pervenutici, di cui l’ultimo è incompiuto, ricalcano l’Inferno di Dante nelle situazioni, nelle scene, nelle colpe, nelle pene, spesso nel periodare e nel ritmo o addirittura nella scelta dei vocaboli; ma i luoghi, i personaggi e le vicende sono diversi. Ad esempio, l’Acheronte qui è il fiumicello sotterraneo Amenano, da cui in realtà prende il nome la fontana di piazza Duomo a Catania. Ma è tutta la vita catanese della fine del sec. XIX che il Martoglio prende in giro, puntando particolarmente contro la corruzione amministrativa, politica ed ecclesiastica, con personaggi eccellenti come il sindacalista e deputato socialista Giuseppe De Felice, il cardinale arcivescovo Giuseppe Fràncica Nava e il poeta Mario Rapisardi, mentre non mancano altri personaggi del popolino o ignoti.

Don Procopio Ballaccheri, pittoresco personaggio abituale del “D’Artagnan” (il don in Sicilia è un titolo di rispetto, non ecclesiastico), è il Martoglio stesso (Dante), che compie l’infernale viaggio su sollecitazione di Cicca Stònchiti, la buffa protagonista dei Civitoti in pretura, qui chiamata a svolgere il ruolo di Beatrice, mentre il ruolo di Virgilio è svolto dal poeta contemporaneo Giacomo Patti, detto Merro (“Merlo”, che nella tradizione è un uccello che canta e sa anche parlare).

Se una definizione linguistica si deve dare di questa Divina Commedia, non si può che definirla “maccheronica”, dal momento che è impossibile definirla “in dialetto siciliano”. In effetti qui la lingua del Martoglio non è un dialetto siciliano sic et simpliciter, per esempio quello di Belpasso, quello di Catania o quello di Palermo, bensì un italiano maccheronico a base di siciliano, con intelligente operazione d’intarsio fatta dall’autore, nella quale per la ricerca d’esiti umoristici ora è continuamente storpiata la base siciliana, ora è storpiato l’italiano. Sicché ci sono dei tiri incrociati: un dialetto italianizzato e un italiano dialettalizzato. Praticamente il Martoglio ha compiuto sull’italiano un’operazione simile a quella che Merlin Cocai alias Teofilo Folengo (1491/1496-1544) aveva compiuto sul latino. Il Martoglio ha assunto la solennità dantesca, ne ha mantenuto metro, strofa, moduli stilistici e a volte forma paludata per cantare delle banalità con un lessico bizzarro, che vorrebbe essere un dialetto italianizzato, ma non è, o almeno non lo è correttamente.

Nel poema del Martoglio il passaggio dal dialetto all’italiano vuole rispecchiare il tentativo dei popolani analfabeti d’un tempo, che s’improvvisavano traduttori in italiano per nobilitare la loro espressione linguistica, cadendo inavvertitamente nel ridicolo. Ma qui il ridicolo è cercato; e le storpiature sono ben riconoscibili, perché prodotte da una mente — come in altri casi diceva il Verga — “malata di letteratura”.

Perciò nel Martoglio la ripresa di Dante è sempre in chiave umoristica. Innumerevoli sono le situazioni basate sull’ambiguità, sulla trasgressione, sul pasticcio.

Precedenti bibliografici
1) La Divina Commedia di Nino Martoglio, in “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 16.IV.1992.


CONCETTO MARCHESI
(Catania 1878 - Roma 1957)

Concetto Marchesi nacque a Catania nel 1878 e frequentò in questa città il prestigioso liceo classico “Nicola Spedalieri”, fucina di dotti e personalità varie fra cui, in epoche diverse, docenti come Francesco Guglielmino e Vitaliano Brancati e diplomati come i ministri Carnazza e Antonino Paternò-Castello di San Giuliano, i fisici Quirino Majorana e Orso Mario Corbino, lo storico Corrado Barbagallo, il cardinale Salvatore Pappalardo, il giurista Orazio Condorelli e il clinico suo fratello Luigi Condorelli, lo stesso scrittore Brancati e il presentatore Pippo Baudo.

All’università di Catania fu discepolo di Mario Rapisardi; e da costui derivò non solo il primo interesse per la poesia (vedi il libro di versi Battaglie, nel 1996 ristampato da Venilia, PD) e per i classici latini, che il Rapisardi andava traducendo a volte con successo, ma anche quello spirito ribelle e polemico che lo portò in prigione per qualche mese. Infatti, prendendo il titolo dal poema rapisardiano Lucifero, fondò e diresse per breve tempo l’omonimo giornale “Lucifero”, avendo dei guai con la polizia, che lo censurò e soppresse, anche perché il Marchesi già a 16 anni aveva cominciato a prendere le difese di operai, contadini e detenuti miserabili o politici. Si laureò a Firenze nel 1899 col latinista Sabbadini (da cui aveva anche avuto una bocciatura), discutendo una tesi su Bartolomeo della Fonte, lavoro a carattere filologico-erudito come il successivo sull’Etica Nicomachea (1904).

Cominciò ad insegnare nei ginnasi inferiori di Nicosia (EN) e Siracusa e nei licei di Verona e Messina. Ottenuta poi una cattedra nel liceo di Pisa, cominciò a prepararsi per la docenza universitaria e vinse anche il concorso per provveditore agli studi, venendo assegnato a Grosseto. A Pisa si sposò con la figlia Ada del Sabbadini, avendone la figlia Lidia, e perse la madre, che lo aveva seguito.

Divenuto titolare di letteratura latina nell’università di Messina, insegnando studiava per una seconda laurea; e così i suoi stessi colleghi lo proclamarono dottore in giurisprudenza con una tesi sul pensiero politico di Tacito. Il Marchesi passò poi all’università di Padova, ricoprendone la carica di rettore nel difficile periodo della Repubblica Sociale. A Padova visse per 30 anni. Intanto curava le edizioni di Apuleio, Ovidio, Arnobio e Sallustio, e fra l’altro uscivano sue monografie su Marziale (1914), Seneca (1921), Giovenale (1922), Fedro (1923), Tacito (1924), Petronio (1940) e soprattutto la sua Storia della letteratura latina (1924-27), che ebbe anche una fortunata edizione minore intitolata Disegno storico della letteratura latina o semplicemente Letteratura romana.

Socialista dall’età di 15-16 anni, nel 1921 a Livorno partecipò alla fondazione del partito comunista, rimanendo fedele a questa ideologia (sia pure con differenziazioni personali) fino alla morte. Nel periodo del rettorato padovano rivolse un celebre e nobile appello agli studenti, invitandoli a liberare l’Italia dall’ignominia e a farne uno Stato democratico. Quindi partecipò attivamente alla Resistenza, operando a Milano e nel bellunese e poi riparando in Svizzera.

Nel 1944 avvenne a Firenze l’assassinio di Giovanni Gentile, e il Marchesi fu accusato d’esserne il mandante morale, essendo quell’anno uscita una sua lettera aperta in cui s’annunciava un’imminente sentenza di morte. In realtà il pezzo era stato manomesso dai capi partigiani; e il primo a dolersene fu lo stesso Marchesi.

Dopo la guerra, fu deputato alla Costituente, svolgendo un elevato ruolo d’intellettuale e di maestro. Come costituente, violando la disciplina del suo partito, votò contro l’inclusione dell’art.7 (Patti lateranensi) nella Costituzione, della quale fu uno dei più attivi artefici, tanto che molti articoli si devono alla sua mente e alla sua penna. Ma un’altra grossa divergenza e lunga polemica col suo partito l’ebbe a proposito del latino, che le sinistre volevano eliminare o ridurre; e allora più volte gridò: “Non uccidiamo il latino!”. Strenuo difensore di questa lingua classica, di cui riconosceva l’imprescindibile valore culturale e formativo (in ciò, appoggiato solo da Togliatti), deplorò vivamente l’istituzione della nuova scuola media senza latino, preferendo semmai il mantenimento della differenziazione fra media e avviamento professionale, cercò di difendere ad oltranza la serietà degli studi e arrivò al punto di tenere in Parlamento, come gli antichi senatori romani, orazioni in latino.

Scrisse anche saggi di profonda umanità, come Il libro di Tersite (1920-1951), Divagazioni (1953) e Il cane di terracotta (1954). Sebbene non credente e in polemica con le gerarchie ecclesiastiche, amò lo studio della letteratura cristiana, dichiarò di preferire Sant’Agostino e coltivò amicizie con sacerdoti dotti, con cui discuteva di cultura classica: notevoli i suoi soggiorni all’eremo di Rua di Feletto (TV) e l’amicizia con don Primo Mazzolari. Qualcuno ha anche affermato che alla fine si sia convertito.

Morì nel 1957, e la sua commemorazione alla Camera fu fatta da Palmiro Togliatti, in un clima di generale commozione e ammirazione.

Una testimonianza su di lui ha lasciato Norberto Bobbio, mentre suoi biografi sono stati Ezio Franceschini (autore del libro Concetto Marchesi), Luciano Canfora e Sebastiano Saglimbeni. Il Canfora lo ha definito “un latinista e un intellettuale di singolare e solitario profilo, che affondava le sue radici nella tradizione risorgimentale meridionale”; mentre il Saglimbeni (fra l’altro, poeta e traduttore di Virgilio e Fedro) ha curato la pubblicazione in volume dei discorsi parlamentari, degli articoli di giornali e di altre opere del Marchesi.

In conclusione, Concetto Marchesi nelle sue opere dimostrò di possedere una notevolissima preparazione filologica e storica, che espose in uno stile semplice e incisivo ma nel contempo raffinato. In apertura del suo Seneca dichiarò: “Ho scritto questo libro per far meglio conoscere il valore di un uomo che fu grandissimo tra gli uomini memorabili dell’antichità.” E dei vari scrittori trattati, Seneca fu quello a cui si sentì più vicino. La sua preoccupazione più viva era quella di scrivere per interpretare i grandi uomini del passato e rendere quanto più chiara la traccia del loro messaggio e della loro capacità artistica. In particolare la sua Storia della letteratura latina resta tuttora un’opera fondamentale e valida nonostante il mutare di gusti, esigenze e mode, tanto che continua ad essere stampata dall’editore Principato e adottata da certi docenti per la chiarezza espositiva, l’essenzialità della trattazione e l’acutezza delle interpretazioni.

Precedenti bibliografici
1) Un doveroso ricordo nel quarantesimo della scomparsa / Concetto Marchesi insigne latinista, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 25.IV.1997.


LUIGI RUSSO
(Delia 1892 - Marina di Pietrasanta 1961)

Luigi Russo nacque a Delia (CL) il 29.11.1892 da una famiglia piccolo-borghese e nel 1910-14 studiò alla Scuola Normale di Pisa, dove conseguì la laurea con una tesi sul Metastasio, che, approvata col massimo dei voti e la lode, fu prima pubblicata negli Annali della Scuola stessa e poi come monografia autonoma. Fra il maggio del 1915 e l’agosto del 1916 fu fante in prima linea, decorato di medaglia di bronzo al valor militare e di croce di guerra.

A causa della morte in battaglia del fratello Ferdinando e della mutilazione d’un braccio del fratello Nino, poi preside a Palermo, negli anni 1916-1918 venne comandato ad insegnare educazione militare alla Scuola Militare di Caserta; e da lì negli anni 1919-1923 passò ad insegnare lingua italiana all’istituto tecnico del Collegio Militare della Nunziatella di Napoli. Mentre era a Napoli conseguì in quell’università la libera docenza in letteratura italiana e diede inizio alla collaborazione ad importanti riviste.

Dal 1923 al 1934 fu incaricato di lingua e letteratura italiana nel magistero di Firenze. Nel 1924 si presentò con esito negativo al concorso per lingua e letteratura italiana nel magistero di Messina; e l’anno successivo tentò il concorso per la stessa cattedra nell’università di Catania. Diresse le riviste mensili “Il Leonardo” nel 1925-29 e “La Nuova Italia” nel 1930: da questa però venne allontanato dopo un anno. Dal 1934 al 1961 fu titolare di letteratura italiana nell’università di Pisa, cattedra anche di passione civile e morale. Dal 1956 al 1958 diresse la collana “Scrittori d’Italia” della casa editrice Laterza di Bari. Nel 1937 fu chiamato all’università di Roma, ma le autorità non ratificarono la nomina e il suo posto fu assegnato a Natalino Sapegno. Dopo la caduta del fascismo e negli anni della Liberazione fu nominato rettore dell’università di Pisa e dal 1944 al 1948 svolse anche le funzioni di direttore della Scuola Normale. Nel 1946 fu nominato socio dell’Accademia dei Lincei.

Intellettuale e laico di sinistra, nello stesso 1946 fondò la rivista “Belfagor”, da lui diretta fino alla morte nella sua villa “Belfagoriana” di Marina di Pietrasanta, località in cui si trasferì nel 1950, e nel 1949 indirizzò una polemica lettera aperta a Pio XII contro la scomunica inflitta ai dirigenti comunisti. Dal 1956 fu consigliere comunale di Pietrasanta, eletto come capolista indipendente nella lista del partito comunista italiano.

Dopo aver superato una trombosi, nel 1959 si recò a Catania per una conferenza e per rivedere la casa e alcuni documenti del Verga. In quell’occasione, in un riservato incontro durato tutto il pomeriggio (31.3.1959), ricevette in visita l’allora giovane studioso Carmelo Ciccia (accompagnato e presentato dal critico letterario Antonino Gandolfo), col quale poi intrattenne una vivace corrispondenza. Morì improvvisamente a Marina di Pietrasanta [Nel supplemento del quotidiano “La Sicilia” di Catania (vedi pagine finali) la località di morte risulta Pisa.] il 14.8.1961, a meno di 69 anni d’età. Il telegiornale serale della RAI (unico allora esistente) ne diede una scarna notizia di due righe. È sepolto con la moglie a Marina di Pietrasanta, comune che ha istituito il Centro culturale “Luigi Russo”, contenente i suoi libri e le sue carte.

Della sterminata produzione del Russo, oltre alla citata monografia Metastasio, ricordiamo anzitutto il suo volume Giovanni Verga (1919), che con le successive edizioni del 1934, 1941, 1947 e 1955, restò fondamentale per gli studi verghiani e per la carriera del Russo stesso. Riguardano il Verga anche la ristampa dell’edizione originale delle Novelle rusticane con un saggio introduttivo (1924), i commenti ai Malavoglia (1925) e a Mastro-don Gesualdo (1934, 1955 e 1961), Opere scelte di Giovanni Verga (1953), Verga romanziere e novelliere (1959) e vari articoli.

Notevoli poi sono i seguenti libri: Il tramonto del letterato (1920, 1934, 1957, 1960), Salvatore Di Giacomo (1921), I narratori (1923, con varie edizioni fino al 1958), Storia dell’Università di Napoli (1924), Antologia critica sugli Scrittori d’Italia (1924), Machiavelli (1924, 1930, 1935, 1945, 1949), Abba e la letteratura garibaldina (1925), Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1928), Problemi e Discorsi di metodo critico (1929), Gabriele D’Annunzio (1938), Commedie fiorentine del Cinquecento (1939), La critica letteraria contemporanea (1942-43), La carriera poetica di Giacomo Leopardi (1943-44), Personaggi dei Promessi sposi (1945), I classici d’Italia (stessi anni), Ritratti critici di contemporanei (1946), Ritratti e disegni storici (1946-53), Carducci senza retorica (1957), Compendio di storia della letteratura italiana (1957, solo vol. I), Antologia della critica letteraria (1957). Rivelando il suo carattere di polemista, poi durato per tutta la vita, nel 1933 pubblicò un Elogio della polemica; seguirono De vera religione (1948-49), Il dialogo dei popoli (1953, 1955), Invito alla resistenza (1960). Ci sono anche sue edizioni commentate del Decamerone, della Gerusalemme liberata, del Principe, delle Poesie del Foscolo, dei Canti del Leopardi, delle Liriche e tragedie del Manzoni e dei Promessi sposi.

Luigi Russo riempì di sé per mezzo secolo le scuole, le università e i centri culturali. Insieme con il De Sanctis e il Croce, con cui costituisce una triade legata da un filo conduttore, diede un assetto critico alla letteratura italiana. Con lui altri critici emersero: Pistelli, Momigliano, Flora, Fubini, Manara Valgimigli, Sapegno... solo per citarne alcuni, le cui parole fecero testo e formarono delle generazioni di studenti e studiosi.

Il merito del Russo è notevole anzitutto perché egli capì la grandezza del Verga: dopo il giudizio del Croce, il libro del Russo (1919) fu il primo vero e proprio saggio sullo scrittore verista, che egli con le sue intuizioni collocò ai vertici dell’arte. Si può affermare senz’ombra di dubbio che il Verga oggi non sarebbe quello che è senza la valorizzazione fattane dal Russo, il quale prima capì l’“invenzione” della lingua verghiana e poi analizzò i personaggi e ne scoprì la poesia, in un’indagine attenta e minuziosa qual era nella sua capacità. Anche per quanto riguarda il Manzoni, il Russo diede giudizi esemplari: le figure dei Promessi sposi, le loro caratteristiche psicologiche, certe situazioni estetiche, storiche e morali sono attentamente indagate, vagliate e presentate. Certamente qui non possiamo esaminare tutte le opere del Russo, ma ci basta dire che un tempo la citazione di giudizi suoi e degli altri critici suddetti era sufficiente per essere considerati persone dotte. Se a tutto ciò aggiungiamo la polemicità e l’impegno civile, ne ricaviamo una robusta personalità, degna dell’elevata tradizione di pensiero dell’Italia Meridionale.

Precedenti bibliografici
1) Incontro con Luigi Russo in cerca di ricordi verghiani, “Tribuna Etnea”, Paternò, 2.V.1959;
2) Incontro con Luigi Russo, in “Silarus”, Battipaglia, lug.-ott. 1974;
3) Un incontro con Luigi Russo, in Impressioni e commenti, Gastaldi, Milano, 1974, pagg.117-120;
4) Il critico Luigi Russo, “Talento”, Torino, lug.-sett. 2000.

Appendice:
tre cartoline di Luigi Russo

I — (testo dattiloscritto, firma autografa)
Marina di Pietrasanta 11 mg. ’59

Caro Ciccia,
ho avuto la sua lettera, e anche il giornale “Tribuna Etnea”, tre giorni fa, al momento in cui mi accingevo a partire per Roma. Essendo proprio in macchina nel momento in cui ricevevo la posta, ho portato l’articolo con me, ma un viaggiatore, nel fascio dei suoi giornali, ha raccattato anche la mia “Tribuna Etnea”,ed io son rimasto con la voglia di leggere il suo articolo. Avevo appena appena dato un’occhiata, dove lei riferiva quell’aneddoto da me raccontato, secondo cui il Croce credeva che io vivessi di rendita. Le sarei molto grato, caro Ciccia, se me ne volesse mandare un’altra copia, perché temo che l’Eco della Stampa non riceva il foglio su cui lei l’ha pubblicato.
Mi ricordi alla professoressa Naselli, e coi migliori ricordi del mio soggiorno catanese mi abbia suo

Luigi Russo

II — (testo dattiloscritto, firma autografa)
Marina di Pietrasanta 25 mg. ’59

Caro Ciccia,
io ho ricevuto il giornale e la ringrazio molto. Debbo fare una rettifica: io non ho settant’anni, ma ne ho 66. Ho capito che lei si vuol vendicare di me, perché lo chiamo Ciccia. [Effettivamente al momento dell’uscita dell’articolo Luigi Russo aveva 66 anni e quasi mezzo. Nell’articolo era scritto: “quasi 70 anni”: e lui — come si vede — si risentì. Il destino poi volle ch’egli non arrivasse ai 70 anni.]. Mi scusi, e mi abbia con molta cordialità suo

Luigi Russo

III — (testo e firma autografi)
Porto d’Ischia, 8 giugno 1959

Caro Ciccia,
Ma io scherzavo semplicemente; degli anni me ne importa nulla, mi importa solo della salute e del lavoro. Ciccia in Toscana è parola affettuosamente spregiativa, e si dice degli uomini e delle donne che hanno molta ciccia addosso. [Evidentemente il Russo ha dimenticato che in Sicilia e in buona parte del Meridione il nome/cognome Ciccia significa “Francesca”, per devozione a S. Francesco di Paola (ipocoristico).] Io sono nato il 29 novembre 1892, e sono uno dei pochi letterati italiani che non ha mai falsificato la sua data di nascita. Sapesse delle mie ricerche su Beltramelli e e [Ripetuto girando cartolina.] su Bontempelli, che s’erano levati dieci anni. Perfino Salv. Di Giacomo si toglieva due anni, e solo il Verga fu scrupoloso tanto da comunicare la vera data di nascita (2 settembre 1940 [Svista del Russo invece di 1840.) a rettificare un’altra data corrente su lui: vedesse poi le donne: me le sono fatte tutte nemiche, perché per i Narratori ho fatto delle delle [Ripetuto rigirando cartolina.]e ricerche nell’anagrafe dei comuni di nascita. Dopo il 15 sarò di nuovo in Versilia. Cordiali saluti a lei e alla Naselli —

Suo L. Russo


CARMELINA NASELLI
(Catania 1894 - 1971)

Chi ebbe la ventura di recarsi a casa di Carmelina Naselli, a Catania, prima in via S. Michele e poi in via Enrico Pantano, poteva notare — oltre alla consueta quantità di libri tipica dei docenti universitari — anche vari oggetti d’uso popolare, che lei raccoglieva e custodiva con amore. Infatti, sotto il bonario aspetto della mater familias o pure della massaia, lei celava la stoffa della studiosa autentica e della ricercatrice appassionata. In pratica affiancò il Pitré e ne raccolse l’eredità, che a sua volta seppe fare ben fruttare.

Nata a Catania nel 1894, sebbene sua madre fosse di Treviso, la Naselli non aveva nulla di veneto, particolarmente nell’accento, che invece era quello tipico della città natale. Ebbe la sorella Concetta (docente di lettere nella scuola media) e il fratello Santi, che quando rimasero orfani divenne il nume tutelare delle sorelle, entrambe nubili.

Dopo la laurea a Catania (1919), Carmelina Naselli conseguì il diploma di specializzazione a Firenze con Guido Mazzoni (1921) e quindi fu docente di lettere nella scuola media; ma, appena conseguita la libera docenza universitaria (1936), cominciò ad insegnare nell’università di Catania: nella facoltà di lettere, dapprima lingua e letteratura italiana e poi letteratura delle tradizioni popolari, materia — quest’ultima — che dal 1956 cambiò denominazione in storia delle tradizioni popolari. Contemporaneamente negli ultimi anni insegnò ancora lingua e letteratura italiana nella facoltà di magistero, da cui si licenziò a decorrere dal 1959-60, continuando a rimanere in servizio soltanto nella facoltà di lettere fino al pensionamento (1966).

Intensa fu la sua vita culturale e sociale. Oltre agli impegni accademici, partecipava a convegni di studio in varie città italiane e collaborava a giornali e riviste specifiche. Inoltre teneva conferenze anche fuori Catania e dirigeva sodalizi. Fu presidente del comitato catanese della Società Dante Alighieri e della Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale, dopo essere stata segretaria e bibliotecaria di quest’ultima, dirigendo anche la rivista “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”. Fervida cattolica praticante, fu priora provinciale del Terz’ordine domenicano femminile. Spiccò per le sue elevate doti professionali e umane, particolarmente nei confronti degli allievi, per i quali era come una madre, comprendendone difficoltà e debolezze.

Morì a Catania nel 1971; e successivamente il comune le intitolò una via.

Le sue pubblicazioni (libri, opuscoli, estratti) sono tante, che difficilmente se ne può fare un regesto. Ad ogni modo potrà essere utile questo parziale elenco, i cui titoli indicano da sé l’ampiezza e la significatività degli studi:

• cura del volume Le vite de’ SS. Padri di Domenico Cavalca (1926)
Il martirio di S. Agata di un drammaturgo del seicento: Jacopo Cicognini (1927)
Recite goldoniane di filodrammatici catanesi nel sec. XVIII (1927)
Vincenzo Monti e Giuseppe Piazzi (1927)
Nel I centenario della nascita di Pietro Platania : 5 aprile 1828-5 aprile 1928 (1928)
Il nocciolo nel territorio di Linguaglossa e di Castiglione: saggio di botanica, di economia popolare e di demopsicologia: con canti popolari inediti (1929)
Uno storiografo del Risorgimento catanese: Vincenzo Finocchiaro (1930)
Ferdinando III a Catania nel 1806: da una relazione inedita del tempo (1930)
Letteratura e scienza nel Convento Benedettino di S. Nicolò l'Arena di Catania : con saggio bibliografico (1930)
L' Università di Catania nel sacco dell'Aprile 1849 (con documenti) (1931)
Il presepe di S. Maria di Betlem di Modica (1931)
Una sacra rappresentazione siciliana del sec. XVI (1931)
Terremoti etnei e storie di popolo (1931)
Arte sacra popolare siciliana (1932)
Per le denominazioni delle strade di Catania (1933)
Commediografi e accademici siciliani nel Seicento: Vincenzo Belando e Vincenzo Errante (1933)
Itinerari catanesi (1934)
La Vita nell’università di Catania dal secolo XV all’età nostra (1934)
Diffusione e interpretazione del paternostro di S. Giuliano in Sicilia: comunicazione tenuta al III congresso nazionale di arti e tradizioni popolari, Trento settembre 1934 (1935)
Satira di popolo nel Risorgimento siciliano (1935)
Studi di letteratura antica siciliana con due facsimili (1935)
La Mostra interprovinciale di arti popolari siciliane (Catania, ottobre-novembre 1936) (1936)
Un poemetto in onore della Regina Bianca su una eruzione etnea: testo siciliano del sec. XV (1937)
Vincenzo Casagrandi: in memoriam (1938)
Cenni storici sull'Istituto tecnico Carlo Gemmellaro, di Catania (1940)
Manto siciliano e faldetta maltese (1940)
Per la storia dell'imperfetto indicativo (1942)
Alessandro Citolini e la sua inedita grammatica italiana (1942)
Introduzione allo studio storico della lingua italiana (1945)
Saggio sulle ninne-nanne siciliane (1948)
Fonti inedite sulla rivoluzione del 1848 in Sicilia (1950)
Il quarantotto a Catania: la preparazione, gli avvenimenti (1951)
Foriano Pico: cantimpanca fiorentino del Seicento (1951)
Strumenti da suono e strumenti da musica del popolo siciliano: con dieci illustrazioni (1952)
Le donne nella festa di Sant’Agata a Catania, ossia Delle ’ntuppateddi (1952)
Spigolature per la storia del culto di S. Agata (1954)
Il grido del popolo catanese nella festa di Sant’Agata (1954)
L’ uomo-pesce nella novellistica e nelle rappresentazioni sceniche popolari (1954)
L’ antica canzone napoletana di Capodanno “Io te canto in discanto” (1955)
Le maschere lignee della Val d’Aosta (1956)
Per un dizionario del folklore modenese (1958)
Michele Catalano (1958)
Usanze relative al lutto in Sicilia (1960)
Notizie sui disciplinati in Sicilia (1962)
Pagine inedite del patriota Salvatore Brancaleone Pitta sul 1860 in Catania (1962)
Aggiunte alle tradizioni popolari nella Divina Commedia raccolte dal Pitré (1966)
La stichomythia della tragedia greca e l’indovinello popolare (1966)
Giuseppe Pitré, la musica popolare e il carteggio inedito col maestro F. P. Frontini (1968)
Gioco di madonna Bernardina mastra di scola (1969)
Manoscritti e opuscoli di Valentino Ostermann nelle biblioteche riunite di Catania (1969)
Lingua parlata e lingua scritta nel pensiero del Foscolo (1970)

La competenza in due versanti — letteratura italiana e tradizioni popolari — ha fatto sì che la Naselli si facesse portavoce dell’esigenza di conoscere le tradizioni popolari per capire meglio la letteratura, la quale spesso attinge proprio ad esse. È il caso di Dante: il Pitré aveva rilevato la presenza di tradizioni popolari nella Divina Commedia e alle sue rilevazioni poi la stessa Naselli ha fatto delle aggiunte; ed è il caso anche del Verga, che sulle tradizioni popolari basò gran parte della sua produzione.

Ebbene, se qualcuno legge la novella verghiana La coda del diavolo e non conosce la storia dell’usanza catanese delle ’ntuppateddi [Specie di chiocciole che hanno l’uscita tappata da un velo. Nella fattispecie la parola significa “imbacuccate”: usanza per la quale le donne catanesi in occasione della festa di S. Agata (5 febbraio) si mascheravano lasciando visibile solo un occhio e andavano per le strade con facoltà d’accompagnarsi in incognito a qualsiasi uomo gradito: usanza poi trasferita al Carnevale di Paternò.] non può capire e gustare a pieno l’arte del Verga, anche se nel caso particolare il Verga stesso ha fornito varie informazioni. E su tale usanza la Naselli ha fatto uno studio approfondito, tracciandone la storia fino ad arrivare alla Spagna, dando un’interpretazione personale e contribuendo così ad una più efficace lettura verghiana. [Per questo si veda: Carmelo Ciccia, Il mondo popolare di Giovanni Verga, già cit. pagg.95-96. La parte di questo lavoro intitolata “Le tradizioni popolari in Giovanni Verga” (pagg. 79-147) praticamente è rimasta una ricerca isolata nella critica verghiana. E qui colgo l’occasione per rinnovare i sensi della mia gratitudine (per avermela suggerita quale tesi di laurea nel lontano 1957) a Carmelina Naselli, che poi mi fece nominare suo assistente di lingua e letteratura italiana.] Si apprende così che questa era una specie di festa delle donne, in cui i ruoli uomo-donna si scambiavano e per un giorno comandavano le donne.

Ma questo è solo un esempio della connessione fra letteratura e tradizioni popolari, che dà ragione del lungo lavoro della Naselli e ne sottolinea il merito e l’importanza.

Precedenti bibliografici
1) Conferenza della prof.ssa Naselli a Paternò, “Tribuna etnea”, Paternò, 16.V.1959.


GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA
(Palermo 1896 - Roma 1957)

Nel suo libro Dopoguerra [Silvio Bertoldi, Dopoguerra, Rizzoli, Milano, 1993] lo storico Silvio Bertoldi conclude la trattazione dell’annata 1958 con un avvenimento straordinario: la pubblicazione del romanzo Il Gattopardo da parte dell’editore Feltrinelli. Commentando ampiamente l’avvenimento, lo storico afferma: “L’ltalia non aveva riconosciuto in tempo il suo maggiore scrittore contemporaneo. Il primo, dopo la guerra, ad avere con la sua opera un trionfo mondiale”. E qui pensiamo anche al premio "Strega" assegnato a quest’opera l’anno dopo, al favoloso film di Luchino Visconti, al dramma messo in scena da F. Enriquez, ai milioni di copie vendute, alle varie edizioni, traduzioni, riduzioni.

Ma chi era l’autore di questo capolavoro di tutti i tempi? Era il siciliano Giuseppe Tomasi, duca di Palma di Montechiaro e principe di Lampedusa, morto del tutto sconosciuto prima della pubblicazione dell’opera, che peraltro era stata rifiutata da editori come Mondadori ed Einaudi a cui egli stesso l’aveva proposta.

Al convegno letterario di San Pellegrino (BG) del 1954, in cui autori noti presentavano autori nuovi, intervenne anche il barone poeta Lucio Piccolo di Capo d'Orlando (ME), che poi fu presentato dal Montale e che era accompagnato dal cugino Giuseppe Tomasi. Questo era, dunque, un accompagnatore, ma nel contempo buon osservatore, silenzioso e attento. Quando nessuno poteva immaginare quello che sarebbe diventato, ai giornalisti che gli chiedevano chi fosse e che cosa facesse, si limitava a rispondere che era un principe e faceva il principe. Perfino Giorgio Bassani (l’autore d’opere famose come Storie ferraresi, Il giardino dei Finzi Contini, L’airone, ecc.), al quale va il merito d’averlo scoperto post mortem, ricordava di avere avuto da lui un fugace e silenzioso inchino. Soltanto dopo quattro anni e dopo che aveva letto e apprezzato il dattiloscritto del Gattopardo (fortunosamente pervenutogli da un’amica che a sua volta lo aveva avuto da un’altra amica) e averne deciso la pubblicazione nella collana da lui diretta per Feltrinelli, il Bassani venne a sapere il nome dell'autore che mancava sul dattiloscritto e che era appunto quello di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, proprio quel signore distinto da lui incontrato per un momento a San Pellegrino.

Giuseppe Tomasi apparteneva ad una delle più antiche e cospicue famiglie della nobiltà siciliana. Nella sua ascendenza ci sono un astronomo premiato alla Sorbona per la scoperta d’alcuni pianetini, una beata, un santo e un ambasciatore. Egli era nato a Palermo nel 1896 ed aveva vissuto la sua infanzia nel favoloso palazzo Butera di Palermo (poi distrutto dai bombardamenti nel 1943). Il periodo dell’infanzia sarà sempre visto dallo scrittore come un paradiso perduto; e di esso si ha un riflesso nel romanzo e in alcuni racconti. Finito il liceo, s’iscrisse all’università di Roma, in legge, ma non riuscì a laurearsi. Chiamato alle armi nella prima guerra mondiale, fu fatto prigioniero e internato in un campo di concentramento. Dopo cominciò a viaggiare, favorito dalla conoscenza di varie lingue (francese, inglese, tedesco, russo, spagnolo) e a leggere molto, preferendo fra i francesi Stendhal e fra gl’inglesi Shakespeare.

A Parigi e Londra lui era di casa. In uno di questi viaggi conobbe e sposò Alessandra Wolf Stomersee, una psicologa già divorziata, figlia di padre lettone e di madre italiana. Evitò per caso di partecipare alla seconda guerra mondiale, ma ne subì gli effetti. Dopo la guerra, diede delle lezioni private a giovani amici appositamente riuniti, lezioni di letteratura inglese e francese. Stimolato dalla partecipazione al convegno di San Pellegrino, scrisse in due anni il suo capolavoro, appartandosi in qualche caffè di Palermo, e alcuni racconti, tutti pubblicati postumi, come pure scrisse o revisionò le Lezioni su Stendhal. Morì a Roma nel 1957, dopo avere adottato come figlio un suo lontano cugino, Gioacchino Lanza.Una monografia completa su di lui è quella di Andrea Vitello [Sellerio, Palermo, 1987].

I Racconti [Feltrinelli, Milano, 1961] possono considerarsi come origine e conclusione del Gattopardo e perciò aiutano a capire questo romanzo, di cui hanno caratteristiche, stile, temi. Non tutti, però, furono scritti per la pubblicazione: i “Ricordi d'infanzia”, per esempio, hanno carattere memorialistico e di ricerca d’un paradiso perduto (come lui stesso scrisse); e perciò ripetono o integrano pagine del romanzo. “La gioia e la legge” è pressoché un esercizio letterario, nato (come riferì la vedova dello scrittore) dall’arrivo d’un panettone in omaggio. “Il mattino di un mezzadro” è il primo capitolo d’un progettato nuovo romanzo intitolato I gattini ciechi, romanzo quindi appena iniziato ma che ha in sé i germi d’una grande epopea e d’una larga riflessione, sulla scia di precedenti illustri come il Mastro don Gesualdo del Verga, che è in stretta connessione col Gattopardo, di cui riprende temi, personaggi e tecniche: i gattini ciechi (dice il proverbio: “1a gatta frettolosa fa i gattini ciechi") sono in campo sociale i successori dei gattopardi, e il capostipite della famiglia Ibba somiglia molto al Sedara del grande romanzo.

Dice Maria Corda Costa nell’introduzione all’edizione dei Racconti del 1991: "Già in queste pagine, però, risultano evidenti i temi tipici dello scrittore ... : l’amarezza e il senso di impotenza di fronte al decadere dell’aristocrazia, il disgusto per la nuova classe che si prepara a prenderne il posto, e anche — in qualche modo consolazione per gli sconfitti — il senso della vanità di tutte le cose, della provvisorietà del potere, dell’avvicendarsi inarrestabile delle fortune delle classi." [Feltrinelli/Loescher, Torino, 1991, pag. XIV]

Infine “La sirena” (titolo dato dall'autore) o “Lighea” (titolo dato dalla vedova), racconto scritto negli ultimi mesi di vita, richiama il mito dell’omonima misteriosa sirena, figlia di Calliope, che attira gli uomini fino al sacrificio della loro vita e riprende il tema del fascino esercitato dal firmamento, dall’iperuranio ed in particolare dal pianeta Venere, sul protagonista del grande romanzo; col quale ha in comune altri temi, come quello del grande caldo siciliano e del bel paesaggio dell’Isola. Il nome della sirena, alla quale fra l'altro è stato eretto un monumento a Nicastro (CZ), è greco e significa “splendente, chiara, sonora, dalla chiara voce”. Essa è presente come Ligea anche in Virgilio (Georgiche IV 336).

In un saggio su questo racconto [Liana De Luca, Un racconto di Tomasi di Lampedusa ambientato a Torino, “Le colline di Pavese” , S. Stefano Belbo, 1997] Liana De Luca fa due riferimenti: il primo ad una delle novelle marinare di Federico De Roberto, L’ebbrezza, rimasta incompiuta e pubblicata postuma, sull’incontro d’un capitano di mare e una sirena, e il secondo ad un racconto fantastico di Edgar Allan Poe, che — guarda caso — s’intitola proprio Ligeia e ha come tema portante l’intreccio amore-morte.

In un caffè di Torino (il Tomasi aveva fatto il militare a Torino e quindi conosceva bene la città) il giovane Paolo Corbera di Salina, che lavora come giornalista a “La stampa”, conosce l’anziano senatore Rosario La Ciura, ellenista di fama mondiale, emerito dell’università di Torino, il quale anche in incontri successivi e fuori del caffè gli fa delle confidenze per giustificare il suo celibato: alla vigilia d’un suo viaggio in Portogallo gli racconta che da giovane, presso la spiaggia siciliana d’Augusta sulla sua barca era salita la sirena Lighea, bestia ma immortale, promettendogli un amore sovrumano. E il narratore ne vagheggia il ricordo:

Il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare... Quell’adolescente sorrideva, una leggera piega scostava le labbra pallide e lasciava intravedere i dentini aguzzi e bianchi, come quelli dei cani. Non era però uno di quei sorrisi come se ne vedono fra voialtri... esso esprimeva soltanto se stesso, cioè una quasi bestiale gioia di vivere, una quasi divina letizia... Dai disordinati capelli color sole, l’acqua del mare colava sugli occhi verdi apertissimi, sui lineamenti di infantile purezza... Sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta che lenta batteva il fondo della barca. Era una sirena. Riversa poggiava la testa nelle mani incrociate, mostrava con tranquilla impudicizia i delicati peluzzi sotto le ascelle, i seni divaricati, il ventre perfetto; da lei saliva quel che ho malchiamato un profumo, un odore magico di mare, di voluttà giovanissima... La sua voce era un po’ gutturale, velata, risonante di armonie innumerevoli... Veniva a riva con le mani piene di ostriche e di cozze... succhiava il mollusco palpitante.

Lighea è capace di dare un amore sovrumano, ma anche la morte; e perciò Eros e Thanatos s’intrecciano sia qui che nella scena della morte del protagonista del Gattopardo, anch’egli cercatore d’amore-morte. Così alla fine del racconto si apprende che l’anziano senatore durante il viaggio in nave è caduto in mare e non è stato più ritrovato, forse andando a cercare nei fondali marini quella misteriosa sirena e la decantata felicità da lei offerta.

A sua volta Domenico Ierardo così aggiunge: "Lighea è simbolo della vita, della bellezza, dell’amore proprio in una novella dove aleggia il senso e il mistero della morte. E quest’ultima è sempre presente sì, ma non ci sembra in modo ossessivo come nel Gattopardo; qui accanto al cupio dissolvi, alla dissoluzione stessa, c’è una prepotente vita, l’amore legato alla più pura idea di bellezza, non certo delimitato e incarnato in un corpo di donna coi lineamenti sensuali di Angelica." [Domenico Ierardo, I racconti di Lampedusa come genesi del “Gattopardo”, “La procellaria”, Reggio Calabria, lug.-sett. 1991.]

Il Gattopardo, che per la De Luca è “il romanzo italiano più letto nel mondo”, è un romanzo storico, in un certo senso controcorrente: mentre ai tempi del Tomasi si affermava il neorealismo (indirizzato a sinistra), questo romanzo sembra fare un balzo indietro di cent’anni, incentrandosi sul mondo dei nobili in declino, praticamente come nei Viceré del De Roberto; ma oltre al De Roberto, altri autori siciliani sono presenti al Tomasi, ed in particolare Capuana e Verga.

Questo romanzo, che si snoda dal 1860 al 1910, coglie una famiglia dell’antica nobiltà siciliana, quella dei Salina che ha come stemma un gattopardo rampante, al momento del trapasso dal regno dei Borboni a quello dei Savoia. Perciò avvenimento importante è lo sbarco dei Mille con tutte le ansie che esso apporta nella nobiltà. Il protagonista del romanzo, don Fabrizio, grazie anche alla preveggenza di un suo nipote da lui adottato come figlio, il quale aveva detto testualmente “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, riesce ad inserirsi nel nuovo stato di cose e a mantenere il suo prestigio, tanto da essere proposto alla carica di senatore del nuovo regno; carica da lui decisamente rifiutata. Ma nel frattempo si fanno avanti gli spregiudicati, i volgari, gl’ignoranti facilmente arricchiti: saranno questi il nuovo ceto dirigente. Don Fabrizio quindi assiste con rassegnazione al fatale declino del suo ceto, che si consuma fra balli, banchetti e spensieratezze varie.

Nel romanzo, però, c'è anche il tema del sensuale amore fra Tancredi (il suddetto nipote) e la bellissima Angelica, figlia d’uno di cotesti arricchiti. E qui il nostro pensiero corre al mastro-don Gesualdo del Verga e a sua figlia Isabella.

Ma il romanzo tomasiano non si conclude con la morte del protagonista: si spinge al di là d’essa per circa un quarto di secolo con una specie di appendice in cui il già decantato mondo nobiliare appare come irrimediabilmente compromesso.

Molto di autobiografico è stato visto nel Gattopardo: già il protagonista può essere identificato con un antenato dell’autore, e lo stesso stemma col gattopardo è quello della famiglia Lampedusa. Il carattere del protagonista, poi, e perfino il suo fisico sembrano quelli dell’autore; ma la vedova di quest’ultimo ci teneva a smentire ciò, anche se di fatto i luoghi e certe vicende del romanzo sono quelli dell’infanzia dell’autore, da lui descritti in uno dei suoi racconti di cui abbiamo fatto cenno.

Fra i motivi dominanti del Gattopardo ricordiamo la morte, la ricerca di un ideale soprannaturale, la sensualità, il paesaggio, il processo al Risorgimento.

La morte domina il primo capitolo fin dalle prime parole (che sono quelle del Rosario) “Nunc et in hora mortis nostrae” e serpeggia in tutto il romanzo fino al capitolo della morte del protagonista e oltre ancora, fino alle ultime parole con cui si chiude il romanzo stesso “mucchietto di polvere livida” in cui va a sbattere la decrepita mummia del cane Bendicò. È chiaro che la polvere livida ha un ricordo della “pulvis” del mercoledì delle ceneri, trasformazione d’ogni essere animato. Dall’incipit all’explicit è presente, dunque, con presenza ossessiva, l’idea della morte. Basti pensare al ritrovamento del cadavere d’un soldato ucciso nel giardino del palazzo:

Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghie confitte nella terra, coperto di formiconi; e di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera. Era stato Russo, il soprastante, a rinvenire quella cosa spezzata, a rivoltarla, a coprirne il volto col suo fazzolettone rosso, a ricacciare con un rametto le viscere dentro lo squarcio del ventre, a coprire poi la ferita con le falde blu del cappottone: sputando continuamente, per lo schifo, non proprio addosso ma assai vicino alla salma. (1,2)

Qui sembra che ci sia un gusto per il macabro. In realtà il protagonista è ossessionato dall’idea della morte, che comunque rientra in una più vasta riflessione sulla transitorietà della vita umana, sulla sua fugacità e fragilità. Il tutto potrebbe essere un’accettazione rassegnata o una ripulsa costante; ma non sempre la posizione è netta e ben delineata.

Prendiamo anche l’episodio del coniglio ucciso durante una battuta di caccia:

Era un coniglio selvatico: la dimessa casacca color di creta non era bastata a salvarlo. Orribili squarci gli avevano lacerato il muso e il petto. Don Fabrizio si vide fissato dai grandi occhi neri che, invasi rapidamente da un velo glauco, lo guardavano senza rimprovero, ma che erano carichi di un dolore attonito rivolto contro tutto l’ordinamento delle cose; le orecchie vellutate erano già fredde, le zampette vigorose si contraevano in ritmo, simbolo sopravvissuto di una inutile fuga: l’animale moriva torturato da una ansiosa speranza di salvezza, immaginando di potere ancora cavarsela quando di già era ghermito, proprio come tanti uomini. Mentre i polpastrelli pietosi accarezzavano il musetto misero, la bestiola ebbe un ultimo fremito e morì; ma don Fabrizio e don Ciccio avevano avuto il loro passatempo; il primo anzi aveva provato in aggiunta al piacere di uccidere anche quello rassicurante di compatire. (111,4)

Qui, se da una parte c’è un indugio nei particolari della morte, dall’altra è evidente l’intervento dello scrittore che condanna la caccia, vista come passatempo inutile e crudele. Lo scrittore, dunque, si dimostra amico degli animali, che accomuna agli uomini nel destino finale: insomma, uomini o animali prima o poi siamo destinati ad essere nulla. Ed è significativa la protesta “contro tutto l'ordinamento delle cose”; infatti il coniglio non sembra avercela tanto contro chi lo ha ucciso, quanto contro il sistema. E si noti anche l’ansietà di salvezza, che poi è l’ansia di ciascuno a sfuggire al crudele destino, cercando di proiettarsi al di là d’esso.

Un ultimo esempio sulla morte è l’osservazione da parte di don Fabrizio della copia del quadro “La morte del giusto” di Jean Baptiste Greuze (1725-1805) nel palazzo Ponteleone durante il ballo. (VI,5)

Il principe si ferma a lungo a contemplare quel quadro, non certamente per un suo valore artistico quanto per le riflessioni che gli suscita sulla sua futura morte. E queste riflessioni assumono maggiore importanza se si considera che avvengono mentre gli altri si affannano nel ballo, e lui, solo lui, ha sentito il bisogno di appartarsi e riflettere.

Quanto all’ideale del soprannaturale, ricordiamo che lo studio del firmamento è per don Fabrizio un’evasione dalle meschinità della vita quotidiana, un rifugiarsi nell’iperuranio. Questo motivo, però, ci riconduce a quello dell’annullamento, perché il pianeta Venere o una donna dal misterioso fascino attirano in una sfera che sta al di là dei nostri sensi e quindi presuppongono il superamento della corporeità.

Allo stesso motivo della morte conduce quello della sensualità. Questa, così presente nel rapporto Tancredi-Angelica, e snodantesi per varie pagine, sta nel perpetuarsi del mancato appagamento, e quindi in un desiderio perennemente rinnovato. Questa è una novità del Tomasi rispetto a tanta narrativa contemporanea basata su un erotismo smaccato. E mentre Angelica sarebbe pronta a cedere, è Tancredi — un uomo — a resistere, mantenendo il rapporto in un clima di “tocca e fuggi”, un gioco che dura per parecchie pagine. La sensualità è — tutto sommato — desiderio d’annullamento, di superamento della corporeità. E sensualità trabocca, poi, dagli affreschi e dalle sculture dell’ambiente e dal carattere stesso del protagonista.

Quanto al paesaggio siciliano, bello sì ma micidiale per il suo caldo insopportabile che fiacca le fibre e la vita, non è esso stesso qualcosa che porta allo sfinimento, alla morte? Cosi voluttà e morte s'intrecciano. Basti vedere come avvizziscono con gli anni le belle donne e poi Angelica stessa... La bellezza è apparenza, fugacità, nulla.

E infine un cenno particolare merita il processo al Risorgimento che non tanto velatamente, il Tomasi conduce in tutto il romanzo. Questo aspetto non è stato molto messo in luce dalla critica; recentemente se n’è occupato Nunzio Zago in un saggio [Nunzio Zago, I Gattopardi e le Iene, Sellerio, Palermo, 1983] che prende titolo da una profezia del Tomasi per bocca di don Fabrizio: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene” (IV, 10). Lo scrittore prevede che dopo il lusso e l’alterigia dei nobili subentreranno i latrocini, i saccheggi e la sanguinarietà di sciacalli e iene.

Quello che non dà pace a don Fabrizio e al suo autore è che in Sicilia il Risorgimento non è servito a cambiare in meglio le sorti dell’isola, accentuando addirittura il suo isolamento e lo stato di sottosviluppo. E tutto ciò per colpa delle nuove classi dirigenti che sovrapponendosi agli antichi signori (che quanto meno avevano il senso dell’onore) hanno pensato solo a far carriera, arricchendosi a dismisura con ogni mezzo per lo più illecito. Praticamente i nuovi valori post-risorgimentali non furono altro che “valori in borsa”. Ecco dunque le genie di arrampicatori, ladri, sciacalli, sanguisughe del popolo siciliano...

Il Tomasi condanna decisamente tale sistema, non tanto perché conservatore, quanto perchè ha visto traditi gl’ideali del Risorgimento. E tuttora constatiamo le pessime qualità di tanta parte della nostra classe politica.

Profetismo e pessimismo ritornano nel colloquio del principe col famoso colonnello Pallavicino (cap. VI), quando questo afferma che alle camicie rosse si sostituiranno altre d’altro colore, e poi di nuovo rosse, ma per fortuna ci sarà lo Stellone a guardarci (buona stella o elemento dello stemma della Repubblica Italiana?).

Perciò Il Gattopardo può essere definito un romanzo storico, lirico, autobiografico, psicologico, psicanalitico, politico-sociale; e secondo i punti di vista può essere giudicato progressista o reazionario. Certo è che si tratta d’un romanzo di valore eccezionale, che, pur non potendo essere inquadrato in una specifica corrente letteraria, perché il suo autore è anomalo, tuttavia ha fatto epoca. Nel bagaglio culturale del Tomasi si ritrovano autori di storiografia, poesia, narrativa, saggistica, come Balzac, Stendhal, Proust, Kafka, il tanto amato Yets, Sade, Freud, Sartre, Jung, Croce, D'Annunzio, Salvemini, senza dimenticare Verga, Capuana, De Roberto e Pirandello, cioè l’alta classe scrittoria siciliana. Nel romanzo ci sono anche influenze dantesche ed evangeliche; e non si nasconde la conoscenza di Marx, nel cap. IV definito “un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome” e al quale non va nessuna simpatia da parte dell’autore, nonostante egli più volte dimostri viva simpatia per le sorti dei popolani e dei contadini. Per Mario Principato Il Gattopardo “è un attestato di altissima tensione morale e di sofferta esperienza umana, poeticamente espresso da uno scrittore che, prima di fregiarsi del blasone, sa di essere un vero uomo" [Mario Principato, I doveri sociali della nobiltà nella logica del Gattopardo, in "Rassegna di cultura e vita scolastica", Roma, genn.-febbr. 1988].

Nell’introduzione all’edizione de La Nuova Italia di questo romanzo (1967) Riccardo Marchese scrive: “Il diletto spirituale ricavato dalle sterminate scorribande nelle varie epoche della storia e nelle grandi letterature mondiali costituì probabilmente il filo conduttore della sua vita; un’esistenza che non perdette però mai di vista i grandi problemi dell’uomo e della società, nei quali anzi Lampedusa acuì a tal punto lo sguardo da concepire l’idea della stesura di un’opera narrativa... nella quale condensare tutto ciò che aveva imparato vivendo e meditando”. E non vorremmo trascurare il giudizio del Montale a proposito del Tomasi: “un uomo che ha tutto compreso della vita, un poeta-narratore dotato di una implacabile chiaroveggenza e di un sentimento dell’esistenza ch’è insieme storico e profondamente caritativo" [Eugenio Montale, Il Gattopardo, in “Corriere della sera”, Milano, 12. XII. 1958].

Ora è proprio questa visione della vita, con impossibili sbocchi nell’iperuranio, che provoca nello scrittore un senso di frustrazione; e questo a sua volta si trasforma in quel fine lirismo e in quel forte sentimento elegiaco rivolto al passato che pervadono tante stupende pagine dei Racconti e soprattutto del Gattopardo. Perciò, sotto questo punto di vista, un autore tanto vicino al Tomasi è il Verga, che pure gli è vicino sotto altri punti di vista: e qui pensiamo ai Malavoglia e ci ricordiamo che il Tomasi nei suoi "Ricordi d'infanzia” si vanta (quasi) d’avere nella casa di S. Margherita del Bèlice una copia dei Malavoglia con dedica autografa del Verga; al quale autore ci riporta l’apertura del cap. VIII (ed ultimo) del Gattopardo, che, per l’ampio respiro poetico e per la sottesa presenza d’un vago personaggio, ci sembra un calco dell’apertura della novella verghiana La roba.

Su questo capitolo VIII del Gattopardo concentra l’attenzione il Servello in un suo saggio [Antonio Servello, La Parte VIII del “Gattopardo” fra letteratura e teatro, “Otto/Novecento", Varese, nov.-dic. 1993], in cui, partendo dalle Lezioni su Stendhal del Tomasi, pubblicate postume nella rivista “Paragone” e poi in volume [Sellerio, Palermo, 1977], e riprendendo quanto si chiedeva Philippe Renard nella prefazione, afferma che notevole è l’influenza dello Stendhal sul Tomasi, il quale sembra aderire al cosiddetto “teatro di scrittori” e per mimica, scenografia, costumi, voce, pause usa il metodo del teatro applicato all’arte narrativa. Le figlie di don Fabrizio — Caterina, Concetta e Carolina — corrispondono, poi, alle sorelle Mascia, Olga e Irina delle Tre sorelle di Checov. Altre opere che hanno influito su questo capitolo sono Port Royal di Henri de Montherlant e i Dialoghi delle Carmelitane di Georges Bernanos: al primo autore si collega la parte delle reliquie, con l’adunata di prelati e cappelli, nonché la polemica col papa sul modernismo, che ricalca la polemica sul giansenismo; al secondo il modo di vivere in clausura delle tre sorelle, simile a quello delle suore, nonché la presenza e descrizione di vari conventi e certe narrazioni come quella dello sfondamento della porta di un convento e delle violenze subite dalle suore. Secondo il Servello, il Tomasi avrebbe tenuto presenti anche alcune opere del pittore dei giansenisti Philippe de Champaigne, come ad esempio l’Ex voto del 1662 che ritrae suor Caterina (nome corrispondente a quello di Caterina del nostro romanzo), figlia del pittore guarita da una paralisi che la costringeva alla sedia a rotelle come la nostra Caterina. Così dei Dialoghi ci sono parole tradotte come ombres-ombre, fantômes-fantasmi e perfino le côcher Antoine divenuto nel cap. 1 il cocchiere Antonino. Infine, a proposito della “polvere livida” che chiude il romanzo, il Servello nota che la parola “livida” ha in sé due emblematiche voci straniere: il verbo inglese to live = “vivere”, e il sostantivo spagnolo vida = vita; casuale coincidenza o voluta ricercatezza per riportare l’essenza del romanzo all’antinomia vita-morte?

Spigolando fra le pagine del Gattopardo quante cose si potrebbero dire, quante considerazioni e quanti confronti si potrebbero fare!

Ma è chiaro che tutto ciò presuppone un’attenta lettura dell’opera, attenta perchè un’opera come questa va letta e riletta con attenzione per poterne scoprire e gustare il contenuto, le ricercatezze stilistiche, il messaggio. Ed è un messaggio — quello di Giuseppe Tomasi di Lampedusa — sempre attuale: si pensi alla frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” detta a don Fabrizio dal nipote Tancredi. Ma anche la costruzione di certi personaggi così statuari e pieni d’implicazioni psicologiche, come don Fabrizio, Angelica, padre Pirrone, don Ciccio Tumeo e altre, ci dimostra che con questo romanzo siamo nelle alte sfere della creatività artistica.

Precedenti bibliografici
1) Note al “Gattopardo”, “La sonda”, Roma, maggio 1970;
2) Giuseppe Tomasi di Lampedusa / Note al Gattopardo / La Sicilia e i Siciliani / La morte del Principe e la fine di tutto, in Impressioni e commenti, Gastaldi, Milano, 1974, pagg. 77-85;
3) Il Gattopardo e il suo autore, in Atti della Dante Alighieri a Treviso 1989-1996, a cura di Arnaldo Brunello, vol II, Ediven, Venezia-Mestre, 1996, pagg. 274-282;
4) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “Silarus”, Battipaglia (SA), mag.- ag.1996. [Questo saggio ha ottenuto il trofeo “Silarus” (1° premio per la saggistica) nel 1996]

Appendice:
due lettere della vedova di Tomasi di Lampedusa listate a lutto

I — (testo e firma autografi)
Palermo 8 luglio 63

Gentilissimo Professore,
ho ricevuto la Sua lettera del 28 Giugno. Se Lei vuol scrivere un saggio sull’arte e sulla vita di mio compianto marito, sarebbe certamente indicato se io La potessi incontrare, visto che gli articoli dei giornalisti che non l’hanno mai visto e non conoscono nè le sue idee nè il suo ambiente, sono pieni di sbagli e di sviste.

Però io non sarò a Palermo durante il mese di settembre, ma mi troverò in Liguria, fra Ventimiglia e la frontiera francese. L’indirizzo è: Latte, presso Ventimiglia ligure, (Imperia), Villa Biancheri; nome di Lampedusa. Le faccio presente che un telefono non c’è, e sabato dopo le 12 e la domenica e festa i telegrammi non arrivano.

I “Racconti” (editore Feltrinelli, Milano via Andegari 6) si trovano nelle librerie. In quanto ai saggi che non sono saggi, ma lezioni impartite a suoi giovani amici, mio marito non pensava pubblicarli e l’anno prossimo si farà a Roma una revisione.

Spero che potrò esserLe utile e intanto Le mando i miei migliori saluti.

Alessandra di Lampedusa

II —
Palermo 25 Sett. 63
via Butera 28

Gentile Dr. Ciccia,
se Lei dovesse venire a Palermo, mi troverebbe ancora qui. La prego di telefonarmi prima fra le 12-16 al numero [...] per mettersi d’accordo sull’ora del nostro incontro.
Con tanti saluti

Alessandra di Lampedusa


ANTONIO ANIANTE
(Viagrande 1900 - Ventimiglia 1983)

La notorietà d’Antonio Aniante oggi è in declino, se non del tutto scomparsa, ma egli occupò le cronache culturali europee per una settantina d’anni di quel Novecento della cui omonima rivista, fondata da Massimo Bontempelli, egli fu collaboratore. Infatti fu scrittore, commediografo, autore di testi radiofonici e pittore. Pubblicò più di cinquanta libri, oltre a parecchi racconti, saggi e articoli isolati: troppe cose perché possano essere valutate univocamente, documentate, seguite o semplicemente elencate con esattezza, data la varietà di generi, case editrici, località, tempi, nonché la maggiore o minore precisione e attendibilità delle svariate fonti. In sostanza a tutt’oggi non esiste un regesto di così vasta produzione, cosa che sarebbe un’ardua impresa: e ciò dovrebbero tener presente anche i lettori di questo saggio.

Pur con tutte queste pubblicazioni, egli dovette patire la miseria, praticamente cercando di sopravvivere fra soffitte, botteghe, teatri e gallerie, e non morire di fame. Come ha scritto Rita Verdirame, la sua vita si svolse “sotto il segno del nomadismo, della provvisorietà delle scelte, del vagabondaggio intellettuale”. [Rita Verdirame, Antonio Aniante / Il viandante irrequieto di Viagrande, in “Guida turistica di Viagrande”.]

In tutte le sue opere l’Aniante dimostrò fervida fantasia, possesso d’adeguati mezzi espressivi e capacità d’attrarre lettori, ascoltatori e spettatori. I suoi generi andavano dal leggero al drammatico, al fantascientifico, al magico-favolistico, all’orrido, all’autobiografico. Secondo l’Imbornone, nell’opera dell’Aniante c’è “la Sicilia filtrata dal novecentismo di marca bontempelliana, con cui l’autore supera la grezza realtà attraverso il ricorso alla favola, al realismo magico”. [Ferdinando Imbornone, Sicilia (Letteratura delle regioni d’Italia / Storia e testi), La Scuola, Brescia, 1987, pag. 62] Non per nulla nel racconto La veletta (già Il velo d’Agata) egli immaginò ironicamente il Mafioso che vola e vive nell’aria come esponente d’una realtà — quella della mafia — impalpabile e sfuggente, ai limiti del magico e del fiabesco.

Antonio Aniante era pseudonimo d’Antonio Rapisarda, nato a Viagrande (CT) nel 1900, che girovagò per l’Europa e soggiornò per molti anni in Francia. Il suo esordio avvenne a 16 anni con la pubblicazione del volumetto di poesie Costellazioni, al quale due anni dopo egli fece seguire la raccolta di novelle Divertimenti e la tragedia storica Quinziano [Quinziano era il proconsole romano che nell'anno 251 fece torturare e giustiziare S. Agata, patrona di Catania. Il suo nome ritorna nel successivo racconto “La veletta” (dapprima intitolato “Il velo d’Agata”), incluso nel libro I racconti della montagna di fuoco dello stesso autore.], che fu rappresentata a Catania. Ma nel 1919 egli passò in Francia, dove cominciò a vivere una vita da scapigliato, facendo incontri importanti per la sua carriera e scrivendo opere teatrali. Quinziano era il proconsole romano che nell'anno 251 fece torturare e giustiziare S. Agata, patrona di Catania. Il suo nome ritorna nel successivo racconto “La veletta” (dapprima intitolato “Il velo d’Agata”), incluso nel libro I racconti della montagna di fuoco dello stesso autore.

Nel 1923 a Catania, dove lo aveva riportato la nostalgia, pubblicò I segreti di Cagliostro, ma subito si spostò verso il nord, a Napoli, Firenze, Milano e Torino, dove conobbe lo scrittore-editore antifascista Piero Gobetti e pubblicò Sara Lilas (Gobetti, Torino, 1925), suo primo impegnativo romanzo, e la galante e romanzesca Vita di Bellini (Gobetti, Torino, 1925), presto divenuta Vita amorosa di Vincenzo Bellini (Pervinca, Milano, 1926).

Nel 1926 andò a Zafferana Etnea, da cui però per la noia fuggì presto. Da questo momento egli s’accorse d’essere nato per il nomadismo; e, nonostante qualche breve riflusso nostalgico, la sua vita si svolse lontano dalla Sicilia, della quale però aveva assimilato la temperie letteraria, avendo conosciuto in loco scrittori come Giuseppe Villaroel, Vitaliano Brancati, Giacomo Etna ed Ercole Patti, nonché tendenze veristiche, futuristiche e comunque di sperimentalismo linguistico d’avanguardia presenti nel capoluogo etneo.

A Roma salì presto alla ribalta grazie ad opere teatrali e narrative che colpirono il pubblico. Le sue commedie d’avanguardia scritte per il Teatro degl’Indipendenti avevano temi e ambienti siciliani, ma risultavano surreali per ispirazione ed espressione linguistica: Mezz'uomo (1925, specie di farsa interpretata da Ettore Petrolini), Gelsomino d'Arabia (1926), Bob-Taft (1927), La femmina del toro (1927), che il Marinetti elogiò quale opera futurista senza trama, Il fecondatore di Siviglia (1928, in collaborazione con P. Solari), Allirilla (Carabba, Lanciano, 1928), Carmen Darling (1929) e Carmen (1930). Nel frattempo aveva pubblicato il romanzo sensuale Amore mortale (Iris, Roma, 1928), cui seguirono sulla stessa falsariga opere narrative come La piccola traviata e Venere Ciprigna, ricche di parodie e intrecci stilistici, fra donne libidinose e ridicoli pseudo-protagonisti, i quali celavano il vero protagonista, cioè lo stesso Aniante, che così cercava di riscattare le sue frustrazioni esistenziali.

Nel 1929 ebbe inizio la sua seconda permanenza in Francia, dove, mentre s’immergeva nella caleidoscopica vita della capitale, continuava a rimuginare la sua Sicilia, percependo, accanto al calore e alla solidarietà degli amici, anche la sua intrinseca solitudine, che si riversò poi nelle sue autobiografie così cariche di magica “sicilitudine”: Il paradiso dei 15 anni (Ceschina, Milano, 1930), Ricordi di un giovane troppo presto invecchiatosi (Bompiani, Milano, 1939), Confession d’un petit sicilien (Mercure de France, Paris, 1939), Né sur le Mont Gibel (1946) che allude alla sua nascita sotto l’Etna o Mongibello, Obbrobriose confessioni (Corbaccio dall’Oglio, Milano, 1952), in cui fra l’altro narrò con grande rimpianto la morte della pittrice turca Halé Mafaf, alla quale s’era legato nell’unico grande amore della sua vita, e Figlio del sole (Ceschina, Milano, 1965). Fra il 1930 e il 1932 pubblicò i romanzi Ultime notti di Taormina (Treves, Milano, 1930), Un jour très calme, Enfant hystérique e Terremoto (Milano, Roma, 1932), in cui rivelò un erotismo comico alla Brancati e una discrasia fra la Parigi della vita quotidiana e la Sicilia dei sogni e dei ricordi.

In questa fase della sua vita venne a contatto con gli esuli politici italiani e lui stesso fu dal governo italiano accusato d’antifascismo per la biografia Mussolini (Grasset, Paris, 1932), specchio del momento storico, cui fece seguire Italo Balbo, maréchal de l’air (Grasset, Paris, 1933), Gabriel D’Annunzio: Saint Jean du Fascisme (Mercure de France, Paris, 1934), La poésie, l’action et la guerre: défaite de l’esprit du Sud (Mercure de France, Paris, 1935) e L’Italie fasciste devant la guerre (Nouvelle revue critique, Paris, 1936). Intanto a Parigi, dove gestiva la galleria e libreria “Jeune Europe”, nel 1934 veniva arrestato Carlo Levi per antifascismo, mentre con Vie et adventures de Marco Polo (1936: opera poi curata in Italia da Gualtiero Amici per Trevisini, Milano, 1966) l’Aniante nel 1937 ottenne il “Prix Littéraire de l’Académie Française”, imponendosi anche nel mondo culturale francese.

Alla fine della guerra l’Aniante continuò a vagare fra Svizzera, Germania e Francia. Nel 1947 compì un viaggio in Italia e visitò anche la Sicilia. Quindi nella sua nuova residenza di Nizza compose La double vie de Maeterlinck (Editions Universelles, Paris, 1949), La forêt merveilleuse, Voyage en Sicile, La fin du monde, La baja degli angioli (Ceschina, Milano, 1951), La zitellina (Cappelli, Bologna, 1953), la commedia in tre atti e nove quadri La Rosa di zolfo (Cappelli, Bologna, 1957), che nel 1958 fu recitata da Domenico Modugno, L'uomo di genio dinnanzi alla morte (Cappelli, Bologna, 1958), I racconti della montagna di fuoco (Sansoni, Firenze, 1968), La canicola (Ceschina, Milano, 1969), I catanesi: tipi e costumi di una società pittoresca e scanzonata, a cura di Giovanni Centorbi (Giannotta, Catania, 1970) e l’ironica autobiografia Memorie di Francia, ovverossia il Rapisardino arcimiliardario a Montparnasse (Sansoni, Firenze, 1973). In collaborazione con Alberto Cecchi, compose l’Avventura amorosa di Cristobal Moreno.

Alcune opere egli scrisse o adattò anche per la radio: è il caso di ricordare Mammolinette, Obbrobriose confessioni, Mezz’uomo, Fecondatore di Siviglia, Carmen, L’angioletto, Allirilla, Viaggio di nozze.

Nel 1965 col Figlio del Sole ottenne a Venezia il premio selezione “Campiello”; e questa fu praticamente la sua più grande affermazione, che lo rese noto per molto tempo, cioè fino a quando poté essere in salute e attivo. Infatti con l’età avanzata dovette soffrire, oltre che di vari acciacchi, soprattutto di solitudine, lui che aveva avuto molti conoscenti ed estimatori, due dei quali furono il giornalista e scrittore Giuseppe Longo, direttore di prestigiosi giornali come “Il gazzettino” di Venezia e “L’osservatore politico-letterario” di Milano, nonché della connessa casa editrice Pan, e il letterato-filosofo Gino Raya.

Nel 1976 nell’“Osservatore politico-letterario” pubblicò La triade catanese Tempio, Verga, Raya; per l’amico Raya sempre nel 1976 scrisse la prefazione a Tre vinti (La fiera letteraria, Roma) e l’anno successivo pubblicò Il famismo, esposizione e apologia della teoria del Raya, un volumetto che ha l’articolato sottotitolo Cogito? No / Mangio / Dunque sono (Pan, Milano, 1977).

Negli ultimi anni — anche per giornali e antologie — si dedicò a novelle, leggende, favole e filastrocche siciliane caratterizzate da un’atmosfera sognante, quali La fanciulla rapita (“Come fu come non fu / la picciuttedda [Giovinetta.] non tornò più. / - Cicco, alla mamma / cantami come fu ...”), Cirino cantante ballerino (“Festa a Viagrande / che sorge sulla lava / dorme addosso a un vulcano gigante, / caldo ha l’inverno, fredda ha l’estate…") [Il nome e la vicenda ritornano nel racconto “Festa dell’aglio”, incluso nel libro I racconti della montagna di fuoco dello stesso autore.], Settemariti (“Settemariti, /Settemariti, uno lo lascio / uno lo piglio, / ti son morti / sette mariti.”). Questi ultimi versi fanno parte del citato libro I racconti della montagna di fuoco, e precisamente dell’omonimo racconto dapprima intitolato “Il bersagliere Marummetta”, in cui un bersagliere, disperso in guerra e presunto morto, torna invece al paese e accoltella l’ultimo uomo di sua moglie Ogninella, vendicando così l’onore perduto e uccidendo poi anche sé stesso.

Il titolo I racconti della montagna di fuoco non è del tutto pertinente, perché in realtà soltanto la prima parte del libro è ambientata nei dintorni dell’Etna, mentre le altre due parti si svolgono in Francia, pur con qualche riferimento alla Sicilia. In ogni caso l’ambientazione in questa regione ha poco o nulla del verismo e delle istanze sociali del Verga, limitandosi a qualche nota di colore locale come nell’onomastica (Aita = Agata, Arcideale = Acireale, Panicauru = Panecaldo, Varanni = Viagrande, Pràssido = Placido, Carrapipi = Caropepe, poi Valguarnera, Cicco = Francesco, ecc.). Il libro si basa su situazioni fra il fantastico e il sentimentale, con un tono favolistico e un linguaggio talora aulico, che va dall’ironico al musicale e al poetico, in una prosa in cui anche certe rime concorrono all’armonia. Nella seconda parte, poi, dedicata ai racconti dei cavalieri “del più grande amore”, mentre “La castellana di Larini” ci ricorda il racconto “Lighea” del Tomasi di Lampedusa, gli altri sei ci ricordano il romanzo Le menzogne della notte del Bufalino. E nella terza parte l’autore esalta la natura (paesaggi, frutti, fiori e animali montani) del bosco sopra la Costa Azzurra (Peira Cava, Lucéram, Turini, ecc.)

In questo libro il racconto iniziale, ora intitolato “La veletta” ma dapprima e con più attinenza intitolato “Il velo d’Agata”, rievoca un’eruzione etnea, in cui per fermare la lava — come altre volte — il popolo s’affida al potere miracoloso del velo di S. Agata custodito in un forziere della cattedrale di Catania. Però nella narrazione dell’Aniante il cardinale-arcivescovo Giuseppe Fràncica-Nava [Il suo nome ritorna nel successivo racconto “Il palio del Simeto”), incluso in questo stesso libro.], fallito l'esperimenti dell'opposizione del velo, vorrebbe sacrificare alla natura un’orfanella, soprattutto per salvare le sue proprietà minacciate dall’eruzione: ma quando la fanciulla avanza verso il patibolo, la lava si ferma davvero. Certamente qui lo scrittore, falsando anche nomi e situazioni, irride e denigra la religione, riportandola ad una superstizione vera e propria, in un continuo spirito satirico e addirittura sarcastico. L’invenzione del sacrificio umano è tanto più orrenda in quanto attribuita ad un cardinale definito “santo”, che con tale tentato omicidio cercherebbe di salvare le sue proprietà, colludendo anche con la mafia. Tuttavia artisticamente la novella è fra gli scritti dell’Aniante più riusciti: in poche pagine e con poche pennellate lo scrittore ha colto l’anima della Sicilia, quella Sicilia per lui magica e affascinante come una sirena, piena di miti, di contraddizioni e di superstizioni. La successione delle scene è rapida e concisa, la parola pronta e precisa, la psicologia della gente profondamente scandagliata. Si veda com’è descritta bene S. Agata; si veda il Mafioso che corre sul suo calessino fra terra e cielo, lui solo in una via Etnea deserta ed enorme; si veda come procede sul fuoco la verginella Àita, “tutta sola, minuscola e fragile”, col velo miracoloso sopra la testina! Nessuno inorridisce, nessuno tenta d’impedire questo sacrificio cruento; ognuno pensa al suo “particulare”; e l’innocente, come in una tragedia greca o in un episodio biblico, è pronta ad immolarsi in questo olocausto. Ma per fortuna la lava si ferma.

Furono queste le ultime scintille d’un grande ingegno. Ritiratosi a Ventimiglia, patì solitudine, freddo e fame, nonostante che qualche amico come il Raya facesse appelli per concedergli una dignitosa vecchiaia. Morì a Ventimiglia [L’Enciclopedia generale De Agostini (1992) indica in Sanremo il luogo della morte.] (IM) nel 1983. L’anno dopo, il 6-7-8 gennaio 1984, si tenne all’albergo “Sheraton” di Catania un convegno nazionale su Antonio Aniante, i cui atti furono curati da Enea Ferrante.

Precedenti bibliografici
1) L’eruzione etnea del 1886 nelle pagine di Verga e Aniante, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 18.VI.1986.


SALVATORE QUASIMODO
(Modica 1901 - Napoli 1968)

In occasione del centenario della nascita di Salvatore Quasimodo, celebrato anche con l’emissione d’un francobollo commemorativo, Giovanni Raboni ha espresso parole aspre nei confronti del poeta modicano, della sua poesia e dell’assegnazione a lui del premio “Nobel”, prospettandone un ridimensionamento. Riprendono così le antiche polemiche che accompagnarono quel riconoscimento, il quale di fatto ha nociuto ad una serena fruizione della poesia quasimodiana. A parte il gesto poco corretto nei confronti d’un collega che è sulla stessa barca, un giudizio così pesante non ci sembra giustificabile, anche perché offende difensori del Quasimodo del calibro di Carlo Bo, Gianfranco Contini e Francesco Flora.

Nel 1959 per molti costituì una sorpresa l’assegnazione del premio “Nobel” per la letteratura al Quasimodo: forse i giurati, che volevano insieme un chiaro esponente della lirica italiana e un emblema della nuova Italia democratica, non poterono mettersi d’accordo su uno degli altri due candidati ermetici e ripiegarono su di lui. In particolare Giuseppe Ungaretti, che molti davano per premiato, fu il grande sconfitto di quella tornata: ed è a lui che doveva andare quel premio, il quale gli fu negato solo per motivi politici, per una collusione col fascismo presunta, perché in realtà la cattedra universitaria conferitagli “per chiara fama” non gli fu mai revocata come invece era stato minacciato.

Ora, mentre costui fece buon viso a cattiva sorte, l’altro sconfitto di quella tornata, cioè Eugenio Montale, non riuscì a digerire quell’assegnazione, tanto che al “Corriere della sera” (dove lavorava) bloccò la notizia per due giorni e dopo la criticò con livore perché per quel rivale francamente non nutriva simpatia e malignamente ne evidenziava una certa artificiosità costruttiva. Egli, però, ebbe modo di rifarsi presto della delusione, perché nel 1975 lo stesso premio fu assegnato a lui, furbo e ben appoggiato; mentre all’Ungaretti non era rimasto che leccarsi la ferita con il ricevimento e la medaglia d’oro offertigli dal presidente del Consiglio Moro nel 1968 per l’80° compleanno.

Eppure il premio “Nobel” assegnato al Quasimodo non ha fatto sfigurare l’Italia; semmai le ha conferito orgoglio, particolarmente alla Sicilia, regione che aveva dato i natali a lui e all’altro “Nobel”, Pirandello. Infatti, mentre la poesia del Montale dopo i capolavori dei primi anni andò sempre più scadendo, fino a ridursi a prosa o tiritera, quella del Quasimodo mantenne alta la quota, riuscendo gradevole e ricevendo notevoli apprezzamenti ancor oggi.

Ed a maggior ragione deve apparire giusta quell’assegnazione al Quasimodo dopo che nel 1997 tale premio, attribuito ancora una volta all’Italia, è stato invece assegnato ad un letterato (?) come Dario Fo: un’inopinata assegnazione che ha lasciato sconcertati quanti s’aspettavano premiato Mario Luzi per la sua serietà e la sua pluridecennale devozione alla poesia.

Salvatore Quasimodo nacque a Modica (allora SR, ora RG) nel 1901 e fu costretto a trascorrere l’infanzia e la giovinezza al seguito del padre, capostazione delle ferrovie, abitando in varie località siciliane, quali Modica, Sferro di Paternò, Roccalumera, Imera. Così frequentò le scuole elementari e tecniche ora in una località ora in un’altra finché si diplomò come geometra. Intanto a Messina aveva conosciuto gli orrori dell’immediato dopoterremoto e ne era rimasto sconvolto. Iscrittosi al politecnico di Roma con l’intenzione di diventare ingegnere, dovette interrompere gli studi per lavorare in varie città; e intanto studiava per conto suo il greco e il latino. Fece diversi lavori, fra cui quello d’impiegato al genio civile, soffrendo anche la fame, tanto che nel delicato Epitaffio per Bice Donetti (la prima moglie) ricordò con amara gratitudine la condivisione di quegli anni difficili.

Nel 1930 il cognato Elio Vittorini a Firenze lo introdusse nell’ambiente della rivista “Solaria”, presso la quale pubblicò la raccolta di liriche Acque e terre. L’anno dopo ad Imperia conobbe Camillo Sbarbaro e altri scrittori gravitanti sulla rivista “Circoli”, presso cui pubblicò la raccolta Oboe sommerso.

Nel 1934 a Milano venne a contatto con un gruppo d’antifascisti, fra cui Aligi Sassu, Renato Guttuso, Leonardo Sinisgalli, Sergio Solmi e Francesco Flora; e nel 1936 pubblicò Erato e Apollion, una raccolta in cui dimostrava d’essersi ormai fatto le ossa come poeta e d’avere trovato la sua via, lontana da certo apparato retorico e declamatorio del tempo, divenendo un esponente di primo piano dell’ermetismo.

Nel 1938 al seguito del direttore Cesare Zavattini entrò nella redazione del settimanale “Tempo”, occupandosi di critica teatrale e pubblicò la raccolta antologica Poesie, in cui si riscontrano elementi poetici dei decadentisti francesi Baudelaire, Verlaine, Rimbaud e Mallarmé.

Nel 1940 uscì la traduzione dei Lirici greci, un lavoro che pur non provenendo da un antichista, non solo conservava il fascino dell’antichità ma lo potenziava con un nuovo afflato poetico. E fu per questo forse che lo stesso anno egli fu nominato “per chiara fama” docente di letteratura italiana nel conservatorio musicale milanese “Giuseppe Verdi”, dove rimase in servizio fino alla morte.

Nel frattempo il Quasimodo ebbe accesso alla casa editrice Mondadori di Milano e con questa nel 1942 pubblicò una raccolta di liriche dal titolo Ed è subito sera, che comprendeva anche Nuove poesie 1936-1942, e un’antologia di traduzioni virgiliane dal titolo Il fiore delle Georgiche. L’anno dopo egli fu incarcerato per renitenza militare e, finita la guerra, di cui pure conobbe gli orrori, nel 1945 s’iscrisse al partito comunista. Contemporaneamente andava pubblicando traduzioni di Sofocle, Eschilo, Shakespeare, Omero, Catullo e il Vangelo secondo Giovanni.

Il suo impegno politico non fu limitato ai due anni di militanza nel partito comunista, ma si allargò ad una visione politica dell’attività letteraria e nella fattispecie nel portare alla ribalta e sottolineare episodi e aspirazioni legate alla guerra, alla lotta partigiana, al riscatto sociale.

Ormai egli era diventato un autore di casa Mondadori; e qui pubblicò le raccolte Con il piede straniero sopra il cuore (1946), Giorno dopo giorno (1947), La vita non è sogno [Il titolo riprende in negativo quello del capolavoro La vida es sueño del celebre drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la Barca (1600-1681)] (1949), Il falso e vero verde (1956), con echi sia di Iacopone da Todi sia di Neruda, La terra impareggiabile (1958) e Dare e avere (1966): lavoro — quest’ultimo — che con note diaristiche e autobiografiche prefigura una specie di bilancio della propria vita. Nel frattempo erano uscite altre sue traduzioni teatrali; e il Quasimodo, anche grazie alle traduzioni di proprie opere, aveva raggiunto una notorietà tale che gli consentiva d’essere invitato e ben accolto all’estero: in Russia (dove si ammalò), in vari Stati d’Europa e in America.

Nel 1953 gli era stato assegnato il premio “Etna-Taormina”, il più importante e prestigioso riconoscimento letterario regionale che qualche anno dopo sarebbe stato assegnato anche al poeta veneto Andrea Zanzotto e che, col “Viareggio” del 1958, preparò la strada al “Nobel” del 1959. Nel 1960 gli fu conferita dall’università di Messina la laurea in lettere ad honorem: in quell’occasione venne pubblicato il suo polemico saggio Dante del 1952, uscito intorno al 1954 e quindi incluso nel volume Il poeta e il politico e altri saggi (Schwarz, Milano, 1960).

Morì improvvisamente a Napoli nel 1968 per emorragia cerebrale ed è sepolto nel famedio di Milano, il reparto cimiteriale dei personaggi illustri.

La poesia di Salvatore Quasimodo certamente ha avuto alterna fortuna presso la critica. Però, dopo un’iniziale diffidenza forse protrattasi più del giustificabile, oggi viene riscoperta e mostra una nuova valenza. Una prova si è avuta in occasione del centenario: salvo qualche nota stonata, le manifestazioni e iniziative, con oratori e critici d’alto livello anche delle zone italiane più restie alla cultura meridionale, hanno messo in luce l’ottimo lavoro compiuto da questo poeta, che ben giustifica il premio ricevuto. Sicché si è ritornati a leggere Quasimodo e ad apprezzarlo.

Nella sua produzione si sogliono distinguere due o tre momenti: nel primo viene alla luce la sua novità poetica, consistente in un ermetismo che risente dell’Allegria dell’Ungaretti e del decadentismo di poeti francesi come Rimbaud e Mallarmé, anche se egli si pone in una posizione di superamento dello stesso decadentismo, che dichiara di rifiutare; nel secondo, pressappoco intorno al ’45, emergono i temi della guerra e della lotta partigiana, con l’impegno sociale del poeta; nel terzo, che tuttavia non è scisso dagli altri due, il poeta si dà alle traduzioni, con l’occhio attento anche all’attualità e non senza esprimere un larvato disagio per la sua precedente scelta politica.

Si è discusso sulla fedeltà delle traduzioni quasimodiane, per il fatto che lui non aveva frequentato scuole classiche. In realtà questo è un problema che sorge per ogni traduzione: al Quasimodo non interessava fornire altre traduzioni letterali, che magari esistevano a iosa, ma sue costruzioni poetiche ricavate da testi antichi o stranieri. Poi non è vero che non avesse studiato i classici: si era formato da autodidatta, studiando sodo anche il latino e il greco; e non c’è niente di male se si basò su traduzioni altrui per creare sue opere di poesia. Del resto c’erano i precedenti illustri del Monti per quanto riguarda il greco Omero, del Foscolo per quanto riguarda l’inglese Sterne e del Vittorini per quanto riguarda vari scrittori inglesi e americani. E probabilmente la traduzione quasimodiana dei lirici greci è la più riuscita dal punto di vista strettamente poetico fra quelle oggi esistenti.

Caratterizzata dalla guerra e dal dopoguerra, la sua poesia, che volentieri si affida alle ali del classico endecasillabo, oscilla fra dolore e angoscia, solitudine e morte, sia pure con l’occasionale balsamo dell’amore, ma contiene un elemento principe che la trasforma in fiaba: il senso dello sradicamento e dell’esilio d’un poeta costretto a girovagare fin dall’infanzia e che, dalla sostanziale solitudine dell’alienante mondo della metropoli, si rivolge alla sua terra natale come a quella dell’irrimediabilmente perduta innocenza ed edenica felicità. Perciò i paesaggi della Sicilia vengono mitizzati, s’illuminano nell’animo e nella pagina del poeta.

In lui la Sicilia diventa un’isola di sogno, fornendogli una notevole capacità evocativa quasi sensuale. Il vento di Tindari, le colonne e i templi d’Agrigento, le latomie di Siracusa, gli eucalipti, gli olivi saraceni, gli aranci, gli oleandri, le strade e le trazzere sono elementi mitici e magici d’una geografia sognata. Raramente la poesia si è condensata così bene in un epifonema come quello di “Ed è subito sera” (dalla raccolta Acque e terre):

Ognuno sta solo sul cuor della sera
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

E se da una parte si fissano nella memoria dei lettori certe immagini di crudeltà come quelle del figlio crocifisso al palo del telegrafo e quelle di Auschwitz, dall’altra ammalia la malinconica visione di ciò che il poeta ha vissuto e lasciato: così la “Lettera alla madre” (in La vita non è sogno) è insieme occasione di nostalgia, confessione, rifugio. Praticamente in essa c’è la storia umana e poetica del poeta:

«Mater dulcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d’acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo ad uomo. So che non stai bene, che vivi,
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d’amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.» [...]

Già l’invocazione Mater dulcissima, che richiama la litania della Madonna e che con termini scambiati ritorna a conclusione della lirica, colloca la madre e tutta la lirica in una dimensione sacra. Il poeta confessa che non è triste vivendo nel Nord, fra nebbie e alberi gonfi di pioggia, ma che non è in pace con sé stesso: tutto sommato, egli cerca ancora qualcosa che non ha trovato e che ormai teme di non trovare mai; e non sa esattamente se il sacrificio imposto alla madre, lasciandola nella solitudine, sia valso a qualcosa. Allora il poeta ricorda il sé stesso d’un tempo,

quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca [...]
da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d’eucalyptus. [...]

Il momento del distacco è collocato in un ambiente mitico, dove frutti, un fiume classico, uccelli, sale ed alberi tipici come gli eucalipti formano un paradiso terrestre. Il poeta ha sempre in mente l’orologio della cucina della sua infanzia e auspica che esso non venga guastato o distrutto dal tempo, perché tutta la sua infanzia è trascorsa guardando quell’orologio e i fiori dipinti sul suo quadrante. Egli vuole avere ancora quell’infanzia, povera ma fiabesca; e nel suo slancio fanciullesco, nel suo ripiegarsi verso un passato lontano ed irrimediabilmente perduto, nella mollezza dei versi e nella delicatezza delle immagini e dei sentimenti, egli ha saputo simboleggiare chiunque ha detto addio alla terra natia per soddisfare lontano da essa un bisogno di sopravvivenza o di maggior benessere.

Per il poeta il vento di Tindari viene dalla Grecia e va verso la Grecia: porta ad un mondo mitico i cui valori sono evidenziati anche nel lessico (“Thànatos Athànatos”, “Agrigentum”, “Eucalyptus”...) , perché egli ci teneva ad essere siculo-greco e si vantava d’essere nato in una terra, come quella di Siracusa, che aveva rappresentato una grande civiltà. Infatti, dietro suo suggerimento, in alcuni testi e giornali egli è detto nato tout court a Siracusa: è il caso della copertina di Tutte le poesie dell’Oscar Mondadori (1965) [Anche nel supplemento del quotidiano “La Sicilia” di Catania (vedi pagine finali) e a pag. 490 del volume Il Novecento di Giovanni Getto e Gianni Solari (vedi Bibliografia) la località di nascita risulta Siracusa; mentre per quanto riguarda la località di morte a pag. 411 del vol. IV dell’antologia La cultura letteraria in Italia e in Europa con pagine critiche di Bruno Basile e Paolo Pullega (vedi Bibliografia) essa risulta Roma e nella rivista “Nuovo frontespizio” di Rimini, giugno 2002, pag. 19, essa risulta Amalfi (SA), località in cui egli si recava in vacanza, poi stabilendovisi, e dove è stata organizzata una mostra commemorativa per il centenario della nascita. In realtà fu colpito dall’emorragia ad Amalfi e morì a Napoli, dov’era stato trasportato d’urgenza.]. Da ciò si capisce perché egli scrisse tanto della Grecia, ne tradusse i grandi autori, ne ereditò lo spirito vitale e poetico: perché in effetti era un poeta siculo-greco.

In definitiva il premio “Nobel” assegnato a Salvatore Quasimodo non solo è stato meritato a pieno titolo, ma è un’ulteriore prova di quanto la Grecia e la Sicilia hanno saputo dare al mondo civile.


GINO RAYA
(Mineo 1906 - Roma 1987)

Nato a Mineo (CT) il 25 giugno 1906, Gino Raia (con la i) si cambiò il cognome in Raya (con la y) a 18 anni, quando — studente a Catania — cominciò a pubblicare saggi ed articoli vari, fondando anche la rivista “Ebe” di cui però fu direttore Vitaliano Brancati. A 23 anni vinse il concorso nazionale a cinque cattedre d’italiano e latino nei licei classici e cominciò la carriera di docente. Fu al “Garibaldi” di Palermo e poi al prestigioso “Gulli e Pennisi” d’Acireale, del quale fu preside negli anni dal 1949 al 1955. Nel frattempo conseguì la libera docenza di lingua e letteratura italiana e passò all’insegnamento universitario, nelle università di Catania e di Messina e nell’istituto universitario di Magistero di Catania.

Compiuti 40 anni di servizio, andò in pensione e si stabilì a Roma, dove di fatto risiedeva da prima e dove morì per un improvviso attacco apoplettico il 2 dicembre 1987.

Gino Raya è — com’ebbe a definirlo Antonio Aniante — “il maestro proibito del nostro tempo”. Letterato, filologo, critico, filosofo, ha lasciato ai posteri oltre mezzo secolo d’attività principalmente sostanziata nella teoria del famismo da lui formulata e difesa, che però gli è costata tante avversioni e sfortune. I suoi libri sono una trentina: dai testi fondamentali della sua dottrina (La fame, filosofia senza maiuscole; L’arte di uccidere; L’amore come antropofagia; L’arte come danza; Critica fisiologica; ecc.), a quelli letterari (Storia della letteratura italiana; Ottocento letterario; Il romanzo; Francesco De Sanctis; Penne del Novecento; Stendhal; ecc.), a quelli specificamente verghiani (Giovanni Verga; La lingua del Verga; Bibliografia verghiana, Lettere a Dina; Lettere a Paolina; Verga e i Treves; ecc.), a quelli di narrativa (Tre vinti; Storie).

Nel 1956 fondò e quindi diresse la rivista “Narrativa”, che dieci anni dopo, per adeguarsi al nuovo pensiero e metodo critico, cambiò il titolo in “Biologia culturale” e con questo titolo è rimasta fino alla morte del Raya. In essa spesso sono apparse originali schede “fisiologiche” di lettura in chiave famistica di personaggi e avvenimenti del passato e del presente: perciò potevano collaborare ad essa soltanto i sostenitori del famismo e quindi non è mai apparsa in essa la firma di Carmelo Ciccia che, nonostante l’amicizia, sostenitore non era. Egli collaborò anche ad altri giornali e riviste (fra cui “Il giornale d’Italia”, “La Sicilia”, “Otto/Novecento”, “La fiera letteraria”, “Fermenti”, ecc.) e teneva spesso delle conferenze in cui illustrava i risultati delle sue ricerche e della sua speculazione.

L’attività dell’ultimo ventennio fu dedicata, oltre che al famismo, al Verga e al verismo: se discutibili sono la sua teoria del famismo e la sua critica fisiologica, non si può negare l’importanza della sua attività relativa al Verga e al verismo. Del Verga — fra l’altro — ha voluto continuare il ciclo rimasto interrotto dei vinti. Dopo la pubblicazione de La duchessa di Leyra, per la quale il “Corriere della sera” aveva annunciato la scoperta d’un inesistente manoscritto verghiano, il Raya scrisse gli altri due romanzi L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso e li raccolse tutt’e tre sotto il titolo Tre vinti (La fiera letteraria, Roma). Intanto lo stesso anno amici ed estimatori pubblicavano un altro volume di narrativa già uscito molti anni prima e ora riveduto ed accresciuto: Storie (Spes, Milazzo). Si ricordano anche un manuale di bibliografia ragionata su Capuana e l’edizione dei saggi di Gino Ferretti, dai quali ha avuto inizio la sua nuova visione filosofica e critica.

Ci fu sicuramente ostracismo nei confronti di questo personaggio scomodo, che non figura nemmeno nell’enciclopedia della letteratura Garzanti e nel dizionario degli autori italiani Bompiani e la divulgazione delle cui tesi era fatta da lui stesso o da pochi amici, uno dei quali, il citato Antonio Aniante, definì il famismo “una rivoluzione a livello dei millenni" [Prefazione a Tre vinti, La fiera letteraria, Roma, 1976]. Di questi amici, oltre a Domenico Cicciò e Luigi Volpicelli, anzitutto va ricordato per la devozione personale e la fedeltà d’interpretazione Pasquale Licciardello; mentre è sicuramente significativa la dettagliata e documentata esposizione delle invidie e delle magagne degli oppositori del Raya, nonché appassionata difesa di lui e nell’insieme lucida analisi della situazione intellettuale ed editoriale dell’Italia, in cui pontificano vere e proprie cosche, fatta post mortem da Paolo Anelli in un apposito libro [Paolo Anelli, Il silenzio delle farfalle infilzate: la danza della vendetta di Gino Raya, Firenze Atheneum, Firenze, 1991].

Il famismo rayano, rifacendosi alla corporeità ed escludendo ogni forma di metafisica, faceva derivare ogni azione e reazione, comprese le opere letterarie, dalla fame: e il Raya, se da una parte trasformò l’homo sapiens della tradizione in homo edens di questa “rivoluzione”, dall’altra dedusse un nuovo metodo critico, che, dovendo anzitutto esaminare la fisiologia degli autori, fu da lui battezzato “critica fisiologica”. È evidente che questo comportò per il Raya una rivisitazione in chiave famistica della nostra storia letteraria e quindi il crollo di alcuni miti o almeno il loro ridimensionamento. C’era poi una serrata lotta del Raya, antimaiuscolaro per eccellenza, nei confronti delle “maiuscole” e dei “maiuscolari”: e forse fu questa la cosa che maggiormente infastidì.

Però gli oppositori, se qualche obiezione potevano muovere circa la teoria e il metodo critico del Raya, null’altro se non elogi avrebbero potuto dire sulle sue ricerche ed intuizioni relative al Verga e al verismo: a nostro parere, se Luigi Russo (peraltro uno degli avversari del Raya) resta il più grande interprete e commentatore del Verga, Gino Raya ne è stato il più grande studioso e il più profondo conoscitore, data l’enorme quantità di manoscritti passati in rassegna, esaminati e catalogati — e perciò giustamente nel 1964 gli è stato conferito il premio “Verga” del comune di Catania —; tanto verghiano lui stesso da essersi assunto l’onere di completare l’interrotto ciclo dei vinti con la stesura da parte sua dei tre romanzi mancanti: La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso. La pubblicazione del primo di questi tre romanzi fu anche un colpo letterario e giornalistico, in quanto che allora (1973) il “Corriere della sera” annunciò che era stato scoperto il terzo romanzo verghiano del suddetto ciclo, mentre nel successivo momento della pubblicazione si chiarì che l’autore del romanzo era il Raya.

Né va dimenticata la finezza delle sue Storie (distinte in sacre, mondane, politiche, morali e letterarie), in cui in uno stile scorrevole e piano e a volte con sottile umorismo l’autore porta alla ribalta personaggi del passato e del presente, c’introduce nelle loro case e nei loro ambienti, demolisce i miti e rapporta alla statura umana perfino gli dei.

Perciò, a parte il loro caratteristico tono frizzante, umoristico e polemico, è per la numerosità e qualità dei libri (pubblicati anche da grandi case editrici, quali Le Monnier, Vallardi, Cedam, Garzanti e Petrini, oltre che dalla consueta Ciranna) e soprattutto per le sue ricerche ed intuizioni relative al Verga e al verismo che al Raya (fra l’altro tradotto in varie lingue e incluso in antologie anche straniere) dev’essere dato un posto di riguardo nella cultura italiana e particolarmente nella storia della critica letteraria.

Precedenti bibliografici
1) La critica fisiologica, “La sonda”, Roma, giugno 1970;
2) rec. a L’arte di uccidere, ibidem, ag.-sett. 1970;
3) rec. a Giovanni Verga, ibidem, febbr. 1971;
4) rec. a Bibliografia verghiana, ibidem, lug. 1972;
5) Gino Raya e la critica fisiologica in Impressioni e commenti, Virgilio, Milano, 1974, pagg. 111-115;
6) I vinti di Verga e quelli di Raya, “Silarus”, Battipaglia, sett.-ott. 1979;
7) Ricordo di Gino Raya, “La procellaria”, Reggio Calabria, genn.-marzo 1988;
8)Gino Raya a dieci anni dalla morte, “Il corriere di Roma”, Roma, 30.IX.2001.

Appendice:
alcune lettere e cartoline di Gino Raya [Dal voluminoso carteggio durato 20 anni e comprendente una settantina fra lettere e cartoline, vengono riportate (per intero o in parte) soltanto quelle che abbiano attinenza con quanto qui esposto, fra cui l’ultima lettera del Raya con allegata poesia, inviata 40 giorni prima della sua morte, quasi a testamento “per i posteri”.]
(testo e firma sempre autografi)

I
Catania, 10 ott. 1967.
Caro Ciccia, trovo qui il Suo volume verghiano con la cordiale lettera del 31 ag. (la corrispondenza che mi perviene a Catania non mi viene girata a ROMA, dove Le consiglio d’indirizzarmi sempre, come qui segnato). Precedenti: appena saputo del vol., me l’ero procurato. Appena lettolo, avevo scritto a Gastaldi perché mi fornisse il Suo indirizzo (ma a ciò non mi è stato risposto). Intanto avevo scritto una recensione, che è apparsa nel recentissimo fasc. della mia rivista “Biologia culturale” (settembre: vedi retro). Appena tornerò a Roma (tra una diecina di giorni) Le invierò il fascicolo. Intanto La ringrazio delle espressioni di stima contenute nel libro e della affettuosa lettera. Suo G. Raya

II
Roma 28.7.70.
Carissimo, Ricevo dall’Eco d.[ella] st.[ampa] il tuo lucido e nello stesso tempo affettuoso articolo sulla Crit. fs. nella Sonda di giu. Grazie di cuore. Ti spedisco un plico con L’arte di uccidere e un altro volumetto dell’amico verghiano inglese; in segno di affetto, non perché ti debba assolutamente preoccupare di recensirlo. Stasera vado a Catania per il 2° appello: pochi giorni di caldo! L’està veneta sarà più mite? o sei a Paternò?

Aff.te, tuo Gino Raya

III
Roma 15.X.70.
Carissimo, Rientrando da Cat., trovo la tua rec. all’ars necandi nella “Sonda” di ag.-sett. Ti ringrazio assai di quest’ultima. Preparo subito un bis del fasc. di giugno, che le patrie poste avranno relegato chissà dove chissà dove, e frugo, tra i ritagli verghiani del ’70, sinché trovo l’art. [tuo] sull’Ed.[izione] t.[ele] v.[isiva] del Mastro[-don Gesualdo]. Il saggio delle aggiunte, che hai visto nella rivista, era proprio un pizzico delle nuove schede che vado preparando per la 2^ ed. della Bibl.vergh. che conto di stampare in dicembre-gen. prossimo. Faccio subito la scheda sul tuo art., e così son sicuro di non smarrire il ritaglio nel gran mare dei suoi confratelli. Ho innanzi, intanto, le bozze di un’altra, sontuosa, nuova ediz. verghiana.— Insieme con la rivista, ti spedirò un mio “Verga” cirannino. — Abbiti i miei più cordiali auguri e saluti. Raya

IV
Roma 11.3.71.
Caro Ciccia, da vero masochista (leale contropartita di sadismo), io ti ringrazio della tua recensione al mio Verga cirannino. In parte hai ragione in parte si spiega la tua irritazione perché non ho citato il tuo lavoro. Senza, peraltro, che ogni mio o altrui scritto la proporzioni e ritmi: che — per me almeno — non è possibile superare. Se io, per es., ti trascurassi nella Bibl. vergh. (della cui ediz. sto correggendo le bozze) sarei oltremodo deplorevole; ma che in un breve scritto, volto soprattutto a denunziare l’ignobile giuoco degli ideologi, io eviti di fare un lungo impossibile elenco di tutti gli altri critici (o, peggio ancora, dei soli miei amici) ciò può dispiacere (e me ne rendo conto) alla tua prima lettura, ma (spero) non alla seconda. Cerca, ti prego, di considerare ciò leggendo la rivista di marzo ’71 che esce fra pochi giorni, dove c’è un § nuovo della Scheda riguardante appunto I critici.
Statti bbuono. Aff.te, Raya

V
[Roma] 10 sett. 1972.
Caro Ciccia, Non so se il tuo indirizzo sia ancora questo; ad ogni modo tento. Rientrando a Roma trovo un ritaglio dell’Eco d. st. con la tua rec. alla Bibl. verghiana. Abbiti molti cordialissimi ringraziamenti ed auguri.

Gino Raya

VI
[Roma] 20 lu. 1974.
Caro Ciccia, Ricevo oggi il tuo volume Impressioni e commenti. Me ne rallegro e ti ringrazio del buon ricordo, e delle pagine che mi riguardano. A modesto segno di simpatia accludo una ordinazione per il tuo editore, che ti prego di trasmettere. Ora vado a Chianciano [...].
Auguri e cordialità dal tuo vecchio Gino Raya

VII
Roma 16.4.77.
Carissimo, Stamane arrivano, insieme, la cart. ill. da Parigi e la lett. del 31. Sono lieto della traduzione francese delle tue histoires e delle buone notizie di Pino Della Selva. La sua età, la sua solitudine, la sua povertà, la sua grandezza umana e figurativa, formano un contesto che mi stringe il cuore al solo pensarci (e ci penso spesso).

Noi benino, e vi ricordiamo con affetto. A giorni uscirà (ed. Pan, Mil.) un volumetto di Antonio Aniante, Il famismo. Aff.te, Gino Raya

VIII
Roma 14.I.1978.
Caro Ciccia, ti ringrazio delle [tue] Storie, un elegante volume che invita alla lettura. Aprendo a caso, ho gustato La campagna elettorale, anche per la sensibilità “antimaiuscolara” che — vedo — abbiamo in comune. Abbiti i più cordiali auguri e saluti
Gino Raya

IX
28 sett. 1979.
Caro Ciccia, Al ringraziamento provvisorio che ti ho porto da Fiuggi giorni fa, faccio ora seguire, con cognizione di causa, quello effettivo. Il tuo art. sui Tre vinti è apprezzabile da qualsiasi angolazione, solo che essa rispetti anche la tua. Lo ricorderò, insieme alla tua conferenza, nel fasc. di “Biol. cult.” di dic. [...]
Ancora grazie e auguri affettuosi,
Gino Raya

X
Roma 4.V.1983
Caro Ciccia, Nella “Tecnica della scuola” del 20 apr., che ricevo oggi, vedo il tuo articolo sulla Scuola facile. Non c’è capoverso che non dica cose giuste e vere; è la prima volta che mi sento così concorde con un tuo scritto, che provo il bisogno di dirtelo, subito, e con piacere. Ne farò un “appunto” in “Biol. cult.” di giugno prossimo. Auguri e cari pensieri a tutta la tua famigliola. Raya

XI
Fiuggi, 23 ott. 1987.
Caro Ciccia, Da giugno a nov. io son qui, con qualche parentesi romana; se a ciò aggiungi la lentezza dell’età, capirai come in questo momento di relativa distensione mi ricordo che tu rispondesti bensì a una mia lettera riguardante quel tuo omonimo di Paternò; lettera che sarà certamente a Roma e di cui mi ricordo improvvisamente per mandarti questo saluto ciociaro. Il mio ind. di qui è [...].

Ricordo che mi dicevi di non aver più Filippa; cercherò, quando sarò a casa, di mandartela con un foglio di soggiorno obbligato. E ricordo che ti dolevi di non avere collaborazioni retribuite; io non ne ho neanche, e non ne cerco. La [Svista del Raya invece di Là.] dove c’è da masticare, in grande o in piccolo, si formano — sempre più spudoratamente — cerchie di “addetti al lavoro”, i quali ostacolano in tutti i modi l’ingresso agli “estranei”: unico conforto, per me, l’osservazione del meccanismo fagico, tanto più evidente quanto più dissimulato dalla maiuscole. Ti accludo come documento per i posteri cui tu forse parlerai, la mia unica poesia [presente nelle Storie].
Tuo Gino Raya

Una due zampe, come aperitivo.
Poi s’accoppiò, la mantide affamata.
Poi divorò il compagno, e fu l’amore.

Aprile a La Manon. Urlo di madre:
Resta con me! E resta, il figlio ucciso.

Aprile a Reno. Dorme la sciatrice. Tommaso gira, a caso. Sonia è buona.
Sul pavimento resterà il suo cuore.

Ma il cuore e il pube di Renée d’Olanda
trovan posto nel frigo di Sagawa.


VITALIANO BRANCATI
(Pachino 1907 - Torino 1954)

Nato a Pachino (SR) nel 1907 da famiglia benestante e colta, Vitaliano Brancati si laureò in lettere a Catania, intraprendendo subito la carriera dell’insegnamento a Roma. Qui aderì all’ideologia fascista, un’eco della quale è presente nei suoi drammi Feodor (1926) ed Everest (1930), che pure riscossero successo. Nel 1933 rientrò in Sicilia e abbandonò le posizioni fasciste, insegnando e collaborando a giornali e riviste.

L’invadente suggestione dell’erotismo appare già nel romanzo Singolare avventura di viaggio (1934); ma la sua vera carriera di scrittore ebbe inizio col romanzo Gli anni perduti (1938-1941), in cui, oltre al rifiuto del fascismo, è presente un coacervo d’ironia, satira e grottesco che poi ritornerà nelle opere successive, come il famoso romanzo Don Giovanni in Sicilia (1941), in cui si evidenziano i caratteri della narrativa brancatiana: in una città invasa dal caldo del sole e del sesso (Catania), i giovani sono ossessionati dall’eros, e si mettono in mostra con i loro discorsi a volte gergali, la loro gestualità, le loro eccitazioni e le loro frustrazioni.

Nel 1945 pubblicò la raccolta di novelle Il vecchio con gli stivali, in cui descrisse la dura vita sotto il fascismo con l’avversione di chi doveva subire delusione e oppressione. Quell’anno, tornato a Roma, riprese a frequentare gli ambienti letterari e giornalistici della capitale, cominciò a collaborare al “Corriere della sera” e scrisse anche dei saggi politici in cui, pur lontano dal fascismo, dimostrava di non avere le idee chiare. Nel frattempo pubblicò il romanzo Il bell’Antonio (1949), in cui continuò a sviluppare il filone dell’erotismo siciliano presentando in un’amara farsa un giovane bellissimo ma impotente; e, sposata l’attrice Anna Proclemer, scrisse per lei la commedia La governante (1952).

Dopo la morte dello scrittore, avvenuta a Torino nel 1954, ma con la sua preventiva autorizzazione, fu pubblicato il suo romanzo incompiuto Paolo il caldo, in cui ai soliti temi dell’esasperata sessualità si aggiunge la frustrazione per non poter raggiungere le soddisfazioni cercate, specialmente quando il protagonista è un uomo sulla cinquantina che, abbandonato dalla moglie, si accorge di precipitare nella stupidità. In questo romanzo è stata vista una vena autobiografica nella felice adolescenza del protagonista trascorsa in Sicilia all’insegna d’un erotismo sfrenato, nel suo trasferimento in una Roma si direbbe barocca, nel suo abbandono da parte della moglie, nelle sue frustrazioni sessuali: motivi che velano di malinconia le pagine finali.

Il Brancati, che ebbe problemi con la censura e da alcuni fu considerato anche un anticonformista e un moralista depresso, portò nelle sue opere la realtà d’una gioventù spinta dalle pulsioni sessuali, nonché tutto il suo modo di fare che caratterizzava vasti strati della società. Era la realtà del gallismo, fenomeno tipico siciliano o meglio catanese, cioè di quei maschi vanagloriosi che, passeggiando per strade di lusso come la via Etnea o sedendosi ai suoi caffè, si vantavano con colorito linguaggio d’avventure amorose magari mai vissute ma semplicemente fantasticate nell’inseguimento del sesso femminile. Sotto questo punto di vista le sue opere sono interessanti per le note di costume. Spesso le goffe situazioni sprigionano delle risate, le quali però — più che divertire — graffiano a causa dell’evidente messa in stato d’accusa d’una società neghittosa che si adagia sui suoi vizi, senza pensare di cambiare, per uscire dalla fantasticheria alla realtà dell’operosità e della produttività.

La sua fortuna artistica è dovuta anche al cinema e al teatro, che per lungo tempo si sono impadroniti di quei temi e tipi, facendone delle opere che hanno avuto successo più che altro per la loro impostazione pruriginosa e inaugurando così uno specifico filone.


ELIO VITTORINI
(Siracusa 1908 - Milano 1966)

Ci sono diverse analogie di vita fra Elio Vittorini e il suo cognato (più anziano) Salvatore Quasimodo, di cui sposò la sorella Rosa: anche il Vittorini, nato a Siracusa nel 1908, fu costretto a seguire il padre nei vari spostamenti e a fare studi tecnici in scuole di varie località siciliane; e anche lui un bel giorno del 1924, dopo averlo tentato più volte, fuggì dalla Sicilia e andò in Friuli, dove cominciò a lavorare nel campo dell’edilizia. Intanto, rivelando precocemente la sua vocazione letteraria, collaborava al quotidiano “La stampa” di Torino, allora diretto da Curzio Malaparte; e nel 1927 nella rivista “La fiera letteraria”, allora a Milano, fu pubblicato il suo primo racconto, Il ritratto di re Giampiero, che rivelava già uno scrittore in atto.

Nel 1929 cominciò a collaborare alla rivista fiorentina “Solaria”; e nell’articolo Scarico di coscienza apparso nell’“Italia letteraria” di Roma espose dettagliatamente le sue idee in materia di rinnovo della letteratura, propugnando una dimensione europea, respingendo autori come la triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio e il Verga stesso, indicando gli esempi da seguire: André Gide, Marcel Proust e Italo Svevo.

Nel 1930 si trasferì a Firenze come correttore di bozze del quotidiano “La nazione” e da autodidatta cominciò a imparare l’inglese con l’aiuto d’un altro operaio. Quindi divenne segretario di redazione della rivista “Solaria” e con Enrico Falqui curò l’antologia Scrittori nuovi, collaborando anche a riviste fiorentine come “Il bargello” e “Campo di Marte”. L’anno dopo, in un articolo di “Solaria” intitolato Tendo al diario intimo, mostrò di rifiutare la narrativa retorica a favore d’una narrativa autobiografica e diaristica alla maniera di Proust. Intanto apparve il suo primo libro, una raccolta di racconti brevi intitolata Piccola borghesia, e nel 1932 scrisse Viaggio in Sardegna, che fu pubblicato nel 1936.

Nel 1933-34 il Vittorini pubblicò a puntate in “Solaria” il suo romanzo Il garofano rosso, che, sequestrato per oscenità, poi poté uscire in volume a sé stante solo nel 1948. Intanto traduceva opere di David Herbert Lawrence, Edgar Allan Poe, William Faulkner e John Steinbeck, diventando sempre più interessato alla letteratura anglo-americana.

Nel 1935 iniziò la composizione del romanzo lirico Erica e i suoi fratelli, un cui lungo frammento apparve in “Campo di Marte”, ma dovette interromperlo a causa della guerra di Spagna, che lo coinvolgeva idealmente come antifascista. Fra il 1937 e il 1939 nella rivista “Letteratura” pubblicò a puntate il romanzo Conversazione in Sicilia, il quale, rivelando influssi della narrativa americana, uscì in volume a sé stante di poche copie nel 1941, mentre il suo vero lancio con una grossa casa editrice avvenne nel 1942, procurandogli un’ammonizione da parte del regime con l’accusa di lavoro antinazionale e immorale. In questo romanzo, considerato il suo più importante, il ritorno in Sicilia è visto come un disperato tentativo di ritrovare le primigenie radici umane, che però rappresentano un mondo offeso, implicante una denuncia di responsabilità.

Nel 1938, a causa delle vessazioni dei fascisti locali, lasciò Firenze e si trasferì a Milano, dove cominciò a frequentare scrittori in auge come Montale, Moravia, Piovene e Pavese con lo scopo d’organizzare un’antologia di scrittori americani. Questa, infatti, con traduzioni da parte del Vittorini e d’altri autori, uscì nel 1941 col titolo di Americana, ma, siccome favoriva la nascita d’una corrente di simpatia filo-americana (poi assunta dal cinema) alla ricerca d’un clima di libertà, fu subito censurata dal regime.

Nel 1943 fu arrestato e rimase in carcere per pochi giorni. Dopo l’8 settembre, passò alla Resistenza e fondò il giornale “Il partigiano”, cominciando anche a collaborare al giornale “L’unità”, di cui poi nel dopoguerra diresse l’edizione milanese. Nel 1945 pubblicò il romanzo Uomini e no ispirato alla vita partigiana, da lui rievocata con accenti insieme lirici e documentaristici, fondò e diresse “Il politecnico”, una rivista politico-culturale d’alto impegno civile, e s’iscrisse al partito comunista, in cui rimase fino al 1951, cioè fino a quando assunse una posizione nettamente critica nei confronti dello stesso, al quale poi mosse varie accuse, specialmente nel 1956, in occasione del XX Congresso del partito comunista sovietico e della feroce repressione sovietica della rivolta d’Ungheria.

Nel 1947 uscì il romanzo Il Sempione strizza l’occhio al Fréjus, allegoria della ripresa dei rapporti sociali dopo la guerra, e nel 1949 Le donne di Messina, auspicante la nascita d’un’Italia migliore dalle macerie della guerra. Nel 1951 assunse la direzione della collana “I gettoni” della casa torinese Einaudi e cominciò a curare le opere di grandi scrittori italiani. Nel 1956 pubblicò il romanzo La garibaldina, cui era annesso anche il romanzo Erica e i suoi fratelli, e l’anno dopo diede alle stampe Diario in pubblico, una raccolta di suoi interventi politico-culturali.

Nel 1959 fondò e diresse con Italo Calvino la rivista “Il Menabò”, che aprì un dibattito sullo sperimentalismo letterario degli anni ’60 e a cui cominciarono a collaborare autori di grido, mentre nel 1965 assunse la direzione del “Nuovo Politecnico” dell’editore Einaudi. Quindi passò a Milano come direttore editoriale della casa Mondadori; e a Milano morì nel 1966. Postumi uscirono i libri Le due tensioni (1967), Le città del mondo (1969) e Nome e lacrime (1972).

Elio Vittorini appartiene a quella schiera d’intellettuali italiani (Quasimodo, Vittorini, Silone, ecc.) che, auspicando una società più umana e più giusta, aderirono al partito comunista italiano, nel quale vedevano l’unica via per una radicale riforma, ma dal quale si dissociarono delusi non appena scoprirono il lato dispotico del comunismo sovietico. Praticamente egli propugnava un nuovo umanesimo, avente un ruolo attivo nella società. Documento del suo travaglio è la polemica che nel 1946 si svolse sulle pagine del “Politecnico” fra il Vittorini stesso e Palmiro Togliatti circa i rapporti fra politica e cultura. Il Vittorini e altri intellettuali auspicavano un rinnovamento artistico-culturale capace di incidere sulla politica, ma senza una dipendenza diretta dalle centrali di partito. A questa polemica ne seguirono altre con altri dirigenti comunisti, che ebbero come conseguenza la fine della rivista nel 1947.

Dopo i primi racconti giovanili il Vittorini trovò la sua via nell’equilibrio fra l’esigenza lirica e l’impegno etico-sociale. Scrittore rappresentativo del clima di rinascita del dopoguerra e delle sue aspettative, egli si sottopose a costante verifica fra l’evocazione d’un mondo mitico-simbolico ambientato in Sicilia, o che dalla Sicilia prende spunto, e la rispondenza dell’arte a intenti sociali.

Certamente la Sicilia del Vittorini non è una Sicilia storico-geografica; o, se lo è, è solo la base di partenza d’un interesse artistico che poi si sviluppa sul filo della sua ideologia. La sua narrativa, portando alla ribalta la grande miseria, lo sfasciume sociale, l’incapacità politica dello Stato poliziesco, rappresentava un potente atto d’accusa e nel contempo postulava l’esigenza d’una riflessione storica circa i mezzi e i metodi d’una grande opera di giustizia sociale. È una narrativa che non può essere inquadrata in nessuna corrente italiana e risentì piuttosto di quella americana; ma da noi c’erano motivi nuovi e originali che quella americana non conosceva. Perciò è comunque una narrativa tutta italiana, che lasciò una traccia profonda nella nostra letteratura anche per il dibattito a cui era connessa: un dibattito che per la sua vitalità non s’estinse con la morte dello scrittore.


ALFIO FERRISI
(Montclair 1916 – Trieste 2005)

Nato a Montclair (Stati Uniti d’America) nel 1916 da emigranti siciliani, Alfio Ferrisi trascorse la sua adolescenza a Paternò fino alla laurea in giurisprudenza, conseguita nell’università di Catania. Successivamente, chiamato alle armi e destinato in Friuli, intraprese la carriera di polizia; e fu prima commissario e poi questore nel Triveneto e in Lombardia. Si stabilì infine a Trieste, sua patria adottiva, svolgendovi un notevole ruolo culturale, visto che la sua passione è sempre stata la cultura, intesa non soltanto come partecipazione attiva a manifestazioni culturali, ma anche come creazione artistica.

I suoi libri sono: Lucciole (Cividale del Friuli, 1944, liriche), Il mio giardino (Società Artistico-Letteraria, Trieste, 1970, prose poetiche); Altezza! Eccellenza! (Ramponi, Sondrio, 1970, racconti); Ritratto di famiglia (Lorenzini, Udine, 1985, romanzo autobiografico); La primavera del vescovo (Ellemme, Roma, 1989, romanzo autobiografico); Lazzaro, la moglie e la concubina (Reverdito, Trento, 1993, romanzo fantascientifico e autobiografico). Vi sono poi sue opere inedite.

Come si vede, eccettuata la fase iniziale delle liriche, la produzione del Ferrisi si è snodata in forma narrativa, coinvolgendo l’autobiografia, la riflessione, la fantasia; ma è soprattutto sull’onda della memoria che l’autore ha scritto, ed in particolare della memoria siciliana. Sebbene abbia vissuto poco in Sicilia, dove peraltro è ritornato frequentemente per quello che lui ha definito “turismo della memoria”, quel poco gli è bastato per alimentargli la vena e forgiargli lo stile. Infatti egli si è impregnato di sicilianità soprattutto grazie ai genitori siciliani, che gli hanno trasfuso il fascino del dialetto e del mondo contadino. Egli ha custodito quel mondo sempre con particolare attaccamento, nel suo cuore e nella sua mente, rivelandone le tracce nel suo parlare quotidiano e nel suo scrivere letterario. Ed è a quel mondo, che poi è il favoloso mondo dell’infanzia — magicamente trascorsa nell’ambiente paesano della Sicilia e di cui la lontananza spazio-temporale ha colorato tutto di poesia —, che egli ha attinto il meglio della sua produzione.

Certo, le opere d’Alfio Ferrisi sono tutte interessanti e tutte rivelano la mano d’un artista che sa il fatto suo, perché egli si è formato alla scuola dei classici e alla dura disciplina della guerra: ad esempio, nei due ultimi romanzi sono notevoli le implicazioni storiche, fantascientifiche, psicanalitiche; in esse ritorna ancora il motivo autobiografico e con l’età si accentua l’atteggiamento di meditazione d’uno scrittore ormai maturo; e inoltre la tecnica stilistica è sempre bene strutturata, andando dal lirismo al giallo. Però è nelle prime tre opere in prosa che si trova il meglio.

Alcune pagine di questi tre libri sono già incluse in antologie scolastiche; ma i lettori, ed i suoi concittadini in particolare, dovrebbero sapere che in libri come Il mio giardino e Ritratto di famiglia, oltre che in certi racconti di Altezza! Eccellenza!, c’è uno scrittore straordinario, meritevole di entrare nelle scuole e nelle biblioteche, oltre che di essere apprezzato nei più alti consessi.

In queste opere Alfio Ferrisi è andato alla ricerca di quel paradiso irrimediabilmente perduto che è il giardino d’aranci della proprietà paterna. Nonostante le speranze e delusioni che in esso risiedono, questo giardino è da lui fantasticamente e insistentemente inseguito nel tentativo di riappropriarsi della sua terra, dei suoi frutti, dei suoi colori, dei suoi umori; e con ciò dei genitori, dei parenti, degli amici, del dialetto, delle usanze, delle feste, dei costumi e in ultima analisi d’un’infanzia e d’un’innocenza che non tornano più!

Ed è significativo il fatto che nel romanzo Ritratto di famiglia l’autore-viaggiatore-emigrato parta da una grande stazione ferroviaria dell’Italia Settentrionale in direzione d’un piccolo paese meridionale che non esiste più come lui lo ricorda, ma che esisteva veramente ed era il suo paese: quel paese che ha un nome preciso e che lui, nella sua sbrigliata fantasia, vuole rimettere in piedi così com’era e con gli abitanti d’una volta.

Tutto ciò potrebbe far pensare ad uno scrittore pesantemente ammalato di nostalgia. Eppure, se queste opere si leggono con attenzione, ci si accorge che dei suoi sentimenti il Ferrisi ha saputo fare arte. Egli si è espresso non solo con obiettività, ma anche con la tecnica d’un esperto scrittore, usando sempre il registro giusto e imbastendo uno stile del tutto personale, a cui la sottesa musicalità e le delicate pennellate hanno conferito l’aura della poesia.

Ed è per questo che il nome d’Alfio Ferrisi va annoverato fra quelli dei più validi scrittori del sec. XX.

La sua seppur breve esperienza di vita fra gli emigranti in America ha lasciato in lui una traccia profonda, tanto che egli ha voluto simularne la corrispondenza postale all’epoca ricevuta dai lontani parenti e amici siciliani. Questa ricostruzione si rivela fedele, perché il Ferrisi ha rifatto moduli espressivi ed errori tipici. Da essa traspaiono le sofferenze e le umiliazioni dei nostri antenati analfabeti o quasi, i quali dovevano servirsi d’improvvisati scrivani o anche improvvisarsi scrivani essi stessi per mantenere i contatti con gli emigranti. E oggi chi ha conosciuto quella realtà e legge lettere del tipo seguente, non può non commuoversi di fronte a così disarmante semplicità, che rispecchia l’eroismo della società contadina d’una volta:

Lettera ad un emigrante siciliano
inviata da un amico di Paternò
[Inedita]

Caru amicu,
ti mannu sta littra pi fariti sapiri ca staiu beni di saluti è cosi spero sentiri di te e di la to muggheri e figghi ti fazzu sapiri macari ca scecca fici mpudditru che già sauta ca pari ncavaddu non ti vogghiu cuntari lastimi u giardinu siccò ca cifu a gilata e ci lassò locchi sulu pi cianciri e allura ogni matina cu scuru minni vaiu o quattrucanti a piduarimi ma non mi pigghia nuddu pi azzappari ca mancu i patruni cianno sordi e allura mi nni vaiu a ricogghiri mennuli interra ne chiusi ammensu i ficudinnia ca simmi vidi u massariotu mi spara cu fisciò
Minnaiaiutu macari a cogghieri sparici finocchi rizzi e ciconia a chiana i catania ma e luntanu ca sira marricogghiu cu scuru u frummentu cai arricugghiutu spiculiannu spiculiannu nastati finiu e ma muggheri nun ciavi nenti pimpastari namaidda e allura accatta u pani na putia a cridenza ca spiriamu di putiri paari annunca maiu a pristari i sordi o camiu ca ti dunanu du sordi e dopo nanno ni volunu centu non ciaiu autru da diriti ma tu ca stai a merica addumari lampiuni a sira e poi i stuti a matina ta passi bonu a merica è sempri a merica e nun ce nuddu ca mori di fami ca pi santabarbara ci fu unmartorio santabarbaruzza ca nuddu ciaveva sordi paccattari asasizza e costi di maiali giranu i parrini strati strati pricogghiri sordi pi spararici i bummi ma mancu ci abbastanu paddumari i cannili na chiesa grazie a sta bona monaca da chiesa do priatorio ca sapi scriviri macari acarcarara comu sulu sacciu parrari e comu tu micapisci e comu mi nsignanu matri epatri tarracumannu iu ca ti vogghiu beni statti a merica e non fari a minghiata ca fici ma patruzzu quannera picciottu bonarmuzza ca pigghiò u papuri cu sa muggheri che era ma matri e iu ca era picciriddu e sinni turnanu o paisi amuriri di fami salut e salute
lamico to di paternò Alfio ferrisi
10 dicembre '94

“Caro amico,
ti mando questa lettera per farti sapere che sto bene di salute e così spero di sentire di te, di tua moglie e dei tuoi figli. Ti faccio sapere anche che l’asina ha fatto un puledro, il quale già salta come un cavallo.
Non voglio raccontarti lamentele: il giardino [d’aranci] è seccato perché c’è stato il gelo, che ci ha lasciato gli occhi solo per piangere; e allora ogni mattina col buio me ne vado [al piano dei] Quattro Canti per cercare d’ingaggiarmi, ma non mi prende nessuno per zappare, perché nemmeno i padroni hanno soldi; e allora me ne vado a raccogliere mandorle da terra nelle chiuse, in mezzo ai fichidindia, col rischio che se mi vede il custode della masseria mi spara col fucile.
Sono andato anche a raccogliere asparagi, finocchi selvatici e cicoria alla Piana di Catania, ma è tanto lontano che la sera mi ritiro col buio. Il frumento che ho raccolto spigolando spigolando d’estate è finito, e mia moglie non ha niente per impastare [il pane] nella madia; e allora compra il pane in bottega a credito: e speriamo di poter pagare, altrimenti devo farmi prestare i soldi dall’usuraio, dove ti danno due soldi e dopo un anno ne vogliono cento.
Non ho altro da dirti: ma tu che stai in America ad accendere lampioni la sera e poi li spegni la mattina, te la passi bene: l’America è sempre l’America e non c’è nessuno che muore di fame. Qua per S. Barbara ci fu un mortorio — S. Barbaruzza! — perché nessuno aveva soldi per comprare la salciccia e costate di maiale: i preti andavano girando per le strade per raccogliere soldi con cui fare sparare le bombe, ma i soldi raccolti non bastarono nemmeno ad accendere le candele in chiesa.
Grazie a questa buona monaca della chiesa del Purgatorio che sa scrivere — anche se nello stretto dialetto [dei fornaciai di Paternò], come soltanto io so parlare, come tu mi capisci e come m’insegnarono padre e madre, io che ti voglio bene ti raccomando: statti in America e non fare la stupidaggine che fece il mio caro padre quand’era giovanotto — cara buon’anima! —, il quale prese il vapore insieme con sua moglie, che era mia madre, e con me, che ero un bambino, e se ne tornò al paese a morire di fame.
Tanti saluti
l’amico tuo di Paternò Alfio Ferrisi
10 dicembre ’94”

Il brano è pieno di riferimenti autobiografici: la festa di S. Barbara, la parrocchia del Purgatorio, il padre lampionaio in America, la venuta in Sicilia dell’autore bambino, tanta miseria e tante sofferenze in quegli anni. Il commento sta nei fatti stessi e nella capacità del Ferrisi di rendere linguisticamente un momento storico della Sicilia.

Precedenti bibliografici
1) rec. a Il mio giardino , “La sonda”, Roma, febbr. 1971;
2) rec. a Ritratto di famiglia , “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 14.X.1985;
3) rec.a La primavera del vescovo, ibidem, 7.VIII.1992;
4) rec. a La primavera del vescovo, “Il sodalizio”, Rimini, dic. 1992;
5) rec. a Lazzaro, la moglie e la concubina , “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 25.I.1994;
6) Alfio Ferrisi: scrittore della memoria, in “Il corriere di Roma”, Roma, 15.III.2001.
7) Alfio Ferrisi annoverato fra i maggiori, “La gazzetta dell’Etna”, Paternò (CT), 30.IV.2005.


GESUALDO BUFALINO
(Comiso 1920 - 1996)

“Hic situs luce finita”. Queste parole poste sulla tomba di Gesualdo Bufalino a Còmiso (“Qui sepolto alla fine della sua giornata”) completano il cerchio della sua vita e chiariscono il valore della sua attività: sono le parole che nel suo romanzo Diceria dell’untore egli immagina che vengano scritte sulla tomba di Sebastiano Mancuso, il personaggio (forse più vicino e più caro all’autore) che si uccise nel sanatorio perché incapace di resistere all’attesa dell’imminente morte e ai rimbrotti dei compagni più rassegnati. Praticamente questa è una di quelle che, scritte nel dotto e pomposo linguaggio funerario meridionale, egli chiamò “lapidi ricopiate”. Ma ora quelle parole vengono ad assumere un significato emblematico: infatti la lux latina è “luce del sole”, “giorno”, “vita”. Ed esse dicono al visitatore e al passante che con la fine della vita di quell’uomo lì sepolto si è spenta una grande luce: quella appunto che Bufalino ha rappresentato per la cultura italiana del ’900.

L’uscita nel 1992 di Diceria dell’untore, “nuova edizione accresciuta da pagine inedite e dagli archivi dell’opera” — come recita la copertina dell’edizione Bompiani — ha riportato i lettori indietro d’una diecina d’anni, quando scoppiò il caso Bufalino: un caso simile a quello del Gattopardo; solo che il principe Tomasi di Lampedusa cessò di vivere mentre era alla ricerca d’un editore per la sua opera, la quale fu stampata postuma, grazie alla “scoperta” post mortem da parte d’un intenditore come Giorgio Bassani. Invece Gesualdo Bufalino ha avuto la fortuna di vedere pubblicata la sua primogenita, sia pure tardivamente, e di raccogliere i meritati allori riservati ai capolavori.

Il ritardo nella pubblicazione, tuttavia, è imputabile allo stesso autore, alla sua incertezza, alla sua timidezza o pudore che sia: la lunga e tormentata gestazione della Diceria fra scritture e riscritture, cancellature, integrazioni, ritorni indietro, decisioni, indecisioni, durò più di vent’anni; e solo per caso nel 1981 l’autore fu “scoperto” e costretto a tirare fuori il suo malloppo, a ordinarlo e pubblicarlo.

Quest’aggiunta di nuove pagine inedite “dagli archivi dell’opera” ci convinse sempre di più che quel tormento non finiva mai: perché pubblicare dieci anni dopo queste pagine inedite? o erano esse “nuove” nel senso che erano state scritte dopo la prima edizione nonostante la dichiarazione ch’esse esistevano anche allora? e quindi furono omesse? Tutto è lecito nell’invenzione artistica.

Queste pagine “nuove” sono state pubblicate in appendice e comprendono: “poesie”, “epigrafi cancellate”, “lapidi ricopiate” e varie. Invece le “istruzioni per l’uso”, pubblicate con la seconda edizione, risultano solo rimaneggiate e integrate. Insomma, non c’è stata pace per Gesualdo Bufalino, per la sua Diceria dell’untore, per quei poveri personaggi consunti dalla tisi.

Gesualdo Bufalino, nato nel 1920 a Còmiso (RG), dove risiedeva fino alla morte avvenuta nel 1996 per incidente automobilistico, conobbe le tristi esperienze della guerra e della prigionia, ammalandosi di tisi. Ricoverato prima a Scandiano (RE) e poi a Palermo, riuscì (unico del gruppo) a scampare alla morte per quella malattia e a tornare al suo paese. Laureatosi, intraprese la carriera dell’insegnamento letterario. La pubblicazione della Diceria, coronata dal premio “Super Campiello”, ha segnato l’avvio d’un’intensa attività letteraria, che lo ha visto passare da editori siciliani come Sellerio ad editori settentrionali come Einaudi e Bompiani, con una serie di romanzi, racconti, saggi, traduzioni. In questo contesto si segnalano Museo d’ombre, in cui l’autore riporta vecchi mestieri, antiche locuzioni, illustrazioni e stampe d’una volta, e Le menzogne della notte, coronato dal premio “Strega”, Argo il cieco ovvero i sogni della memoria, L’uomo invaso e altre invenzioni, Il Guerrin Meschino. Nel 1992 presso Bompiani sono uscite le sue Opere 1981-1988 a cura di Maria Corti e Francesca Caputo. Nel 1993 egli ha vinto il premio “Boccaccio” e nel 1994 ha pubblicato presso Bompiani Bluff di parole: aforismi, citazioni, diario, pensieri vari. Infine nel 1996, due mesi prima della morte, sempre presso Bompiani, è uscita la sua ultima fatica, Tommaso e il fotografo cieco ovvero il patatrac. Per il teatro ha lasciato la commedia La panchina. Infine va citato l’opuscolo Cere perse, un’edizione Sellerio del 1985 limitata a sole 160 copie e subito introvabile. Di Bufalino va ricordata poi l’intensa collaborazione ad importanti quotidiani e periodici.

° ° °

L’attività di Bufalino, una volta “esplosa” con la Diceria, ha proseguito nel tempo come espressione d’un maestro dell’arte letteraria. Le sue opere sono sempre state nuove, interessanti e valide. Ma è innegabile che il meglio va ricercato nella Diceria, la quale — come abbiamo visto — fu un autentico caso letterario.

Sintomo del travaglio di quest’opera può essere considerato il titolo, il quale — come ci dice l’autore stesso nella guida finale del libro — giunse alla formulazione attuale dopo varie alternative: Annale del malanno, Elegos in baroco, Il labbro gonfio, Le vanitose agonie, Aegri ephemeris, Totentanz... Il significato complessivo di diceria indicato dall’autore è “racconto, dettato, monologo con in più una insinuazione di scarsa credibilità, come di uno sproloquio mormorato all’orecchio”; e nel ritorno alla vita del protagonista l’autore insinua “una educazione alla catastrofe, di cui probabilmente non saprà servirsi, ma anche la ricchezza di un noviziato indimenticabile nel reame delle ombre”. [Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, Bompiani, Milano, 1992, pag. 178]

Già nelle prime pagine dell’opera si notano il presentimento della morte e un languido fatalismo che la pervadono. Non sfugge a nessuno, poi, lo stile variegato di barocchismi, ma spesso lirico, elegiaco, musicale e cantabile come una triste ballata. La profonda cultura dell’autore affiora in frequenti citazioni, che non sono dotte esposizioni o erudite esternazioni, ma sostrato al pensiero e al linguaggio, tanto che, anche senza le spiegazioni in appendice (pur sempre utili), la forma non assume l’aspetto d’un voluto ermetismo: siamo in presenza d’una narrativa forte, vigorosa, impegnata, non d’evasione.

Accanto al fatalismo c’è la pena. È — quella di Bufalino — una pena dignitosa e composta, aggravata dalla ricerca d’un perché di non facile rinvenimento. La celata e timida ricerca di Dio e dell’aldilà a volte si trasforma in ansietà, ma senza apprezzabili esiti per uno scrittore che altrove si dichiara cattolico, mentre nel racconto l’io narrante è apertamente miscredente.

Ogni giornata che perviene a conclusione è strappata alla morte. Che pena, che struggimento, che delirio in quella fredda attesa della morte, cui si va incontro giorno per giorno, cogliendo l’attimo fuggente ora nell’indifferenza, ora nella trasgressione, ora nell’irrisione della divinità, ora nella bestemmia vera e propria. Qui Dio non c’è, o se ce n’è una larva è molto lontano. Facilmente si scivola nel meccanicismo, nel carpe diem d’oraziana memoria.

Tutti i personaggi del racconto sono come birilli pronti a cadere, e cadono inesorabilmente l’uno dopo l’altro. Solo l’io narrante si salva ed esce vivo dal sanatorio. È un miracolo o un capriccio della sorte? Eppure egli porta con sé le stimmate del suo calvario, incubo e monito, nell’allucinazione d’una non verità. La vida es sueño o il sogno è vita?

In un paesaggio maestoso e spettacolare come quello della Conca d’Oro — tutto pieno di solarità, calore e colore — convivono la vita e la morte, che pure non fanno spettacolo, rientrando nei canoni d’una banale quotidianità. Ed è in questo scenario, in questa contraddizione, che si consumano delle esistenze: esse cadono recise come da tagli automatici, tanto che il passaggio delle salme e i loro funerali restano insignificanti.
Soltanto la morte dell’amletica Marta assume un significato simbolico, che nei tratti del suo svolgersi secco e traumatizzante s’inscrive nel grandioso affresco del Trionfo della Morte noto a tutta l’iconografia funeraria.

Il presentimento della morte, presente — si direbbe — in ogni pagina, trova sublimazione nei momenti d’elegia e d’alto lirismo, perciò più vicini alla poesia che alla prosa. Al riguardo non è trascurabile la parte aggiunta “lapidi ricopiate”, che nella serenità del “dopo” — pace eterna — non può fare dimenticare il travaglio e l’angoscia del “prima”. Ma tutte le pagine “nuove” dell’appendice vanno lette con attenzione, e non anticipate alla lettura del racconto, perché a conclusione possa essere posta l’ineluttabilità del fato e la sofferenza che ne deriva.

Di fronte a questa sofferenza, che prevale dal punto di vista umano sui valori dell’opera d’arte, il lettore compartecipe s’inchina con spontaneo e sentito rispetto; e la calda stretta di mano che avrebbe voluto dare allo scrittore Gesualdo Bufalino, a lettura finita e meditata della Diceria dell’untore, non è solo per complimentarsi della bella opera d’arte, ma anche per esprimere solidarietà a chi ha vissuto un’esperienza così drammatica e ha saputo trasfondere nei lettori il brivido della testimonianza.

A proposito di questo romanzo un cenno merita l’omonimo film prodotto dalla RAI in collaborazione con l’Istituto Luce. Scritto e diretto da Beppo Cino, esso s’è avvalso di noti attori come Franco Nero, Lucrezia Lante Della Rovere, Remo Girone, Vanessa Redgrave, Dalila Lazzaro e Totò Cascio. Il film, realizzato con profonda serietà e competenza professionale, è riuscito a trasferire sullo schermo tutto il pathos del romanzo, grazie agli scenari, ai dialoghi, all’interpretazione e alla colonna sonora di Carlo Siliotto. Altamente lirico, suggestivo e drammatico, questo bellissimo film è una valido complemento al romanzo stesso. E perciò è un vero peccato che esso non sia mai approdato al cinema; e per quanto riguarda la televisione, è stato messo in onda in ore notturne: destino scontato di tutto ciò che è culturalmente valido e utile! Ad ogni modo, esso è reperibile in certi negozi di videocassette.

Alla Diceria dell’untore si è ispirato Mario Minozzo per il suo libro Diceria dell’inquieto (ediz. Ghedina e Tassotti, Bassano del Grappa) che qui si ricorda solo per le analogie. L’autore, morto nel 1989, ha lasciato una specie di testamento: anche in questo libro, dove la parola dominante è pure “morte”, c’è il grande trauma del protagonista vissuto in un campo di concentramento e poi riuscito a fuggire.

° ° °

Oltre a Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino merita una particolare attenzione anche il romanzo Le menzogne della notte (Bompiani, Milano, 1988).

L’opera è stata definita “una favola di rutilante invenzione” e “Decamerone notturno”. In effetti del Decamerone ha l’impianto, la cornice, il novellare, una fantasia accesa e sbrigliata che sembra non aver limite, anche se in essa ben poco c’è di boccaccesco nell’accezione a noi pervenuta di questo aggettivo.

In una sinistra fortezza-prigione d’un regno borbonico, quattro condannati a morte per lesa maestà trascorrono la loro ultima notte raccontando ciascuno la propria vita. Sono: uno studente, un barone, un soldato e un poeta. Ad essi s’aggiunge un misterioso quinto condannato, detto frate Cirillo, che fa da ipocrita regista. I quattro si accorgono di questa presenza strana e, sospettosi, imbastiscono i loro racconti in modo da non far capire chiaramente se dicono la verità o no, “fra verità e menzogna, fra menzogna e verità”, anzi sembra proprio che la gran parte di questi racconti siano menzogne, e quindi Le menzogne della notte. Sarà poi il finto frate a costituire l’epilogo della vicenda quale “diabolus ex machina” o “il diavolo custode”.

Dunque si tratta d’un giallo, anche se non chiaramente dichiarato, perché questo romanzo è anzitutto un’opera altamente letteraria, tuttavia così avvincente e così veloce verso l’epilogo da avere in sé la tecnica del giallo. Perciò il lettore è come incatenato dalla lettura, ma non soltanto perché preso dall’ansia di conoscere la fine (e qui bisogna avvertire di non andare a cercare subito la fine), bensì per le elevate qualità del narratore, che ha saputo mescolare vari ingredienti fino ad ottenere un libro di grande valore e successo.

Alcune di queste qualità di Bufalino erano già emerse nella Diceria: la profonda cultura, la grande capacità di comprendere il cuore umano, il linguaggio. E nella Diceria [Op. cit., pag. 110] si faceva cenno a Sciarazada, la narratrice delle Mille e una notte, che raccontava per rinviare un’esecuzione capitale: accenno anticipato a queste Menzogne.

La cultura di Bufalino non è neppure qui occasione di dotte dissertazioni, ma è il sedimento vitale della sua scrittura. Mondo classico, letteratura, storia e religione sono gli elementi di cui l’autore spesso fa uso e che a volte costituiscono la spina dorsale della narrazione.

Quanto alla capacità di comprendere il cuore umano, se non ci fosse stata essa — e in abbondanza — non avrebbero visto la luce opere come la Diceria stessa e questa. I racconti di questo libro sono imperniati su questa comprensione, su quelle ansie, segrete aspirazioni, amori, passioni, ideali, invidie, gelosie, ecc. che determinano i comportamenti umani e — tutto sommato — l’andamento della storia.

Il linguaggio di Bufalino in quest’opera è una vera e propria ricerca personale: l’autore vuole esprimersi con un linguaggio burocratico dei primi dell’Ottocento: da ciò la frequenza d’anacoluti, metafore, termini e costrutti che sanno d’obsoleto e cerebrale:

I locali del pianterreno, vi s’accede da un loggiato di colonne ossia galleria, e servono agli usi militari e civili. Volendone aver cognizione e rassegnandoli criticamente all’ingiro, primo occorre il corpo di guardia, spesso tumultuoso di voci, con panchetti, rastrelliere, buffetterie di riserva...

Tale linguaggio, che ad ogni modo non è sempre come quello sopra esemplificato, rispecchia poi la qualità del parlante; sicché può essere ingenuo nello studente, altezzoso nel barone, arrogante o enfatico nel soldato, lirico e trasognato nel poeta, mistificatorio nel finto frate. È certo che non facilmente si dimentica la vivezza d’alcune pagine in cui appaiono delle fanciulle che con la loro grazia, la loro bontà, il colore degli occhi e la delicatezza dei tratti non si sa se siano reali ovvero se la loro evocazione sia espressione d’un sogno mai realizzato e ora portato al patibolo come ultima aspirazione e chimera. Certo non tutte le donne descritte sono così, perché anzi ce ne sono anche di brutte e ci sono anche scene d’un realismo crudo che disturba, ma è in immagini come quelle sullodate che si esprime il meglio della fantasia e dell’arte di Bufalino, anche se a qualcuno queste possano sembrare di maniera.

I personaggi di queste Menzogne vivono una vita eroica fino alla fine: implicati in un’avventura che forse in origine non avevano cercato, si sentono protagonisti d’una storia che vogliono vivere fino in fondo; e la vivono pur con le contraddizioni e le ansie che può dare la costruzione per loro d’un patibolo e la prova della mannaia su un innocente gatto. Eppure in questa indefinibile notte, lunga come un’eternità e nello stesso tempo breve come un baleno, rimangono fedeli al tipo che si sono costruito o è stato loro imposto. Il confessore è addirittura messo in fuga: e bandendo la religione, il pentimento, il sentimentalismo (ma non il sentimento), si dimostrano freddi e coerenti fino all’ultimo: ma sono integralmente umani, più vicini al ser Ciappelletto del Boccaccio che ai martiri dell’oleografia storica.

I luoghi delle vicende non sono precisati, ma si capisce che fra d’essi c’è la Sicilia, la terra di Bufalino. D’essa abbiamo certi accenni, certe descrizioni, certi termini dialettali o di provenienza regionale (bàsole, basolato [Le bàsole sono le piastre di pietra lavica con cui si pavimentano le strade e il basolato è il relativo lastricato.], ecc.), indicatori d’un amore e d’una derivazione madre-figlio del resto mai negati.

Messaggi: certo vari messaggi ci sono in questo libro; ma il più scottante è forse questo, contenuto nel cap. IV:

la morte non è né buio né luce, ma solo abolita memoria, cassazione e assenza totale, incinerazione senza superstiti scorie, dove tutto ciò che è stato, non soltanto non è più né sarà, ma è come non fosse mai stato...

E nel cap. XIV, ultimo, che è come un’appendice, il quinto personaggio, non più misterioso, dice:

Io chi sono? Noi, gli uomini, chi siamo? Siamo veri, siamo dipinti? Tropi di carta, simulacri increati, inesistenze parventi sul palcoscenico d’una pantomima di cenere, bolle soffiate dalla cannuccia d’un prestigiatore nemico?

Qui l’essere, il parere e il palcoscenico della pantomima ci ricordano Pirandello e il pirandellismo, fra l’altro ricordato nel cap. precedente, quando lo stesso personaggio parla di “ingiustizia d’essere nato” e di non avere, nessuno, “una solida identità, un roccioso, imperturbabile, responsabile IO”.

Ma questo è l’eterno problema dell’essere, dell’apparire, del vivere e del morire: pur affrontando la morte con fermezza, questi personaggi, compreso il quinto, non possono non arrovellarsi nel cercare di capire il perché e l’essenza della vita; e, pur andando alla ricerca d’un’immagine, d’un momento, d’un ideale, d’un sentimento da tener fisso e con cui suggellare l’ultimo istante e l’attimo estremo, sembrano più afflitti dal non poter dare una convincente risposta a questo interrogativo di fondo.

Ed è questo interrogativo che costituisce — fra l’altro — il filo conduttore fra la Diceria e le Menzogne.

° ° °

Non è possibile qui passare in rassegna tutte le opere di Bufalino; ma un cenno merita certamente Tommaso e il fotografo cieco, che non si sa se definire con esattezza romanzo, autobiografia o fantascienza. Ma forse in essa c’è un po’ di tutto ciò, anche se la definizione di romanzo è la più corrente. L’opera è una specie di diario scritto dall’ex giornalista Tommaso, un uomo portato ad un facile ripiegamento su sé stesso e ad una costante riflessione sulla vita e sul perché delle cose, tanto che si è costruito una vita alternativa, distaccata, intenta esclusivamente all’osservazione dello strano comportamento dei suoi coinquilini al fine di trovare ancora una riprova dell’assurdità insita in ogni azione umana.

Suo compagno di ventura è un fotografo cieco che rimedia con la macchina fotografica alla sua cecità, ma questo viene ucciso in circostanze misteriose, avendo ripreso scene di una vicenda torbida e tragica; e la pellicola impressionata si perde. Per dare la caccia a questa pellicola, Tommaso accetta di ritornare nella vita attiva, prima rifiutata; ma proprio quando ha ritrovato il rullo, egli resta seppellito nel crollo del suo condominio.

A questo punto sembrerebbe che il racconto possa dirsi terminato; ma all’improvviso si scopre che tutta questa vicenda non è altro che il contenuto d’un romanzo scritto dall’ex giornalista Tommaso ed inviato per un giudizio ad un amico fotografo e cieco; e con un continuo passaggio dalla realtà all’invenzione letteraria si scopre inoltre che Tommaso è veramente morto nell’identico modo in cui nella finzione aveva immaginato.

Quello che Bufalino chiama “epiprologo” finale significa che questa storia si conclude (epilogo) così come potrebbe cominciare (prologo), venendosi perciò a stabilire un circuito operativo o meglio un interscambio fra i due concetti d’epilogo e prologo, i quali per l’autore simboleggiano l’impossibilità di mettere ordine nell’assurdità della realtà che a volte sembra o è apparenza e immaginazione.

L’opera si snoda fra ironia e ricercatezza, con punte d’ermetismo in quanto che l’autore non vuol dire tutto chiaramente, ma lascia al lettore il compito di trovarsi lui le soluzioni, gl’intendimenti, le riflessioni opportune. È evidente, poi, un certo pirandellismo, del resto congeniale in chi è nato e vissuto in una terra dai forti contrasti, dove l’essere e l’apparire costituiscono un dualismo non sempre antinomico ma spesso simbiotico.

Bufalino si è celato ora in Tommaso ora nel fotografo cieco. Il sottotitolo Il patatrac non indica soltanto – in modo onomatopeico – il crollo del palazzo, ma anche un colpo di scena o meglio una successione di colpi di scena che rendono questo libro anche un giallo. Nel contempo, quasi per una sorta di divinazione o presagio, il patatrac rappresenta il tragico schianto della vita dell’autore, che così si congeda da noi, e quindi la fine di tutto.

° ° °

Alcuni cenni merita anche quell’opuscolo Cere perse, fra la narrativa e la saggistica, stampato in pochissime copie. I fortunati che ne sono in possesso si accorgono subito che ci sono le migliori qualità di questo scrittore, che sa esprimere giudizi e fare critica anche “giocando” con le parole. Ad esempio, per lui “pirandellismo” è una coniugazione di bizzarria, sofisma e pietà; l’aggettivo “kafkiano” richiama corridoi e polvere di tribunali, “dove dentro pile immani di pratiche si nasconde una colpa taciuta di Dio”; e “borgesiano” può riferirsi a disguidi del tempo, “giochi di sogni, di spade e di specchi”. E conclude con una massima: “nell’aiuola della retorica non c’è fiore da cui non sia possibile spremere una goccia di misterioso e ironico miele” (pag. 32). Praticamente è ciò che anche lui sa fare.

Nel brano L’inchiostro del diavolo, con l’ironia e la brillantezza che lo caratterizzano, lo scrittore fa una dissertazione sull’errore, tipografico o di qualsivoglia natura, che, presente dappertutto, può capitare a chicchessia ed in qualsiasi momento. Così un tale cercava le Indie e per sbaglio trovò l’America; e chissà quanti possono ricevere una lettera indirizzata ad altri ovvero il cui contenuto avrebbe dovuto andare ad un destinatario diverso da quello indicato sulla busta. E immaginiamoci quanti e quali errori possono derivare dall’uso del computer. Scrive ad un certo punto Bufalino: “Forse è Dio che ha pensato il mondo, ma è il diavolo che ogni mattina lo stampa.” E al colmo dell’ironia alla fine esclama: “Signore Iddio, signor diavolo, signor compositore, pietà” (pag. 36).

Infine nel brano Il mare inesistente si dimostra acuto dantista commentando in modo originale il canto XXXIII del Paradiso e facendo rilevare che la terzina di versi 94-96, piuttosto tortuosa, sembrerebbe un arzigogolo se alla fine non ci fosse “lo scatto elettrico d’una visione”:

Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli all’impresa
che fe’ Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

Secondo lui, Dante, condizionato dal fatto che rime in argo ce ne sono pochissime, dovette costruire un ponte plausibile fra la sua esperienza del divino e l’impresa di Giasone; e ci riuscì meravigliosamente, diluendo quest’ultima in un endecasillabo.

E questo può bastare a dare un’idea dell’acutezza di pensiero e delle capacità espressive di questo scrittore.

° ° °

Nonostante che sia stato uno scrittore timido, schivo e appartato, Gesualdo Bufalino in una quindicina d’anni è riuscito a conquistarsi un posto di tutto riguardo nella letteratura, fino ad apparire — con Tomasi di Lampedusa, Sciascia e Consolo — uno dei più alti esponenti della narrativa contemporanea. Le sue opere sono collocate nelle collane dei classici contemporanei dei grandi editori e hanno avuto anche un’opera omnia curata da critici di alto prestigio. La sua fama, partita dalla Sicilia, ha subito varcato i confini di quest’isola per raggiungere e superare quelli dell’Italia.

Eppure egli è rimasto ancorato alla Sicilia come ad una madre, fino a viverci e morire, senza aspirare ad emigrare nelle grandi metropoli del Centro o del Nord. Da questa madre terra ha tratto la sua linfa, ma ha saputo universalizzare il suo alimento fino a raggiungere i vertici della poesia, che quando è vera non conosce confini.

Della realtà siciliana egli ha messo in luce aspetti contrastanti: il bello e il brutto, l’attraente e lo scostante, il povero e il ricco, il dolce e il violento; e ha invitato i lettori ad accettarla e amarla così com’è, cioè come un luogo di delizie e di penitenze insieme.

I molti anni di silenzio, di studio e di ricerca sono serviti a formarlo per poi farlo esplodere in una luce abbagliante, nel cui alone è sempre vissuto senza veder mai offuscata la sua fama, ma rimanendo sempre sulla cresta dell’onda letteraria, avendo la capacità di rinnovarsi col dire cose nuove e sapendo comunque conservare la sua fisionomia.

Bufalino è rimasto estraneo alle correnti e le sue letture si sono rivolte più che altro al passato, come quelle d’un buon professore di scuola secondaria; ma da ciò egli ha tratto un gran vantaggio, producendo una narrativa che attinge alla tradizione europea ottocentesca e a quella più alta siciliana. Se da una parte egli riflette continuamente sulla morte, dalla cui presenza — si può dire — è assillato, dall’altra non manca nelle sue opere una riflessione più profonda sulla letteratura, che in lui viene a configurarsi come poesia del tempo passato e della memoria. Nella sua produzione s’intrecciano spunti autobiografici e analisi critiche, in un impasto spesso sontuoso, a volte barocco, ma d’un barocchismo non deteriore, non retorico e non aulico, bensì in uno stile originale ed elegante, che diventa il timbro particolare della sua voce, in un’epoca in cui la sciatteria, le manipolazioni e gli sperimentalismi trasgressivi hanno fatto tramontare l’originalità, la ricercatezza e l’eleganza.

Tutti ormai — e non solo Elvira Sellerio dall’alto della sua casa editrice — riconoscono a Bufalino una sensibilità geniale, fortemente mediterranea o meglio siciliana, capace di scandagliare l’animo umano nelle sue pene e nelle sue debolezze, in un coacervo di scetticismo e pessimismo, ironia e compassione.

Lo scetticismo di Gesualdo Bufalino si manifestò anche in politica. Egli fu un intellettuale né impegnato né amante della politica, né fu un patriota nel senso tradizionale della parola. Ma a volte alta e decisa è risuonata la voce di questo scrittore isolano fortemente legato all’Italia: “Per quanto io mi consideri un cinico in fatto di patriottismo, nell’unità della mia patria credo ancora e non mi rassegnerei all’idea di considerare Manzoni, Gadda e Testori come scrittori non più italiani, ma stranieri.” Questo dimostra il valore della sua presenza nel mondo della cultura e della società italiana; e non solo la Sicilia — anche se anzitutto la Sicilia — ma l’Italia tutta con orgoglio riconosce in lui uno dei suoi figli più grandi, che le hanno dato lustro.

La prova di ciò si è avuta in occasione della sua improvvisa scomparsa. La morte, che era stata sempre presente fino all’ossessione nella vita e nell’arte di Bufalino, è venuta a ghermirlo all’improvviso, e forse anche per questo ha provocato negl’italiani sconcerto e dolore. Per alcuni giorni radio, televisione e giornali hanno parlato di questa improvvisa scomparsa, dell’importanza di questo scrittore, del significato della sua presenza, del peso della sua opera. In quest’occasione Bufalino è stato ritenuto un luminare della patria, un punto di riferimento perduto, anche se statisti e politici nazionali sono stati deplorevolmente assenti ai suoi funerali.

Ed è molto significativo il fatto che il direttore d’orchestra Claudio Abbado abbia voluto fare un ricordo di Gesualdo Bufalino e un omaggio alla sua memoria nel corso del suo solenne concerto al teatro municipale “Romolo Valli” di Reggio nell’Emilia il 7 gennaio 1997, in occasione del bicentenario della bandiera italiana.

Concludiamo con le parole di Carlo Castellaneta che così lo ha commemorato: “Come Sciascia, Bufalino era una coscienza intransigente dell’Italia contemporanea. Dalla sua Còmiso, il paese che non aveva mai lasciato, vedeva più lontano di tanti altri. Le sue radici non erano un ostacolo alla comprensione del mondo, ma il trampolino per misurarlo con la diversità. È questa l’eredità che lascia a tutti noi. Di ogni latitudine.” [In “Donna moderna”, Segrate (MI), 27.6.1996]

Precedenti bibliografici
1) Il caso Bufalino, “Il sodalizio letterario”, Rimini, genn.-giu. 1994;
2) Le “Menzogne” di Bufalino, ibidem, marzo 1995;
3) Uno scrittore siciliano entrato nella letteratura / La eredità di Bufalino, in “La gazzetta dell’Etna”, Paternò, 16.VII.1996;
4) La forte narrativa di Gesualdo Bufalino, in Atti della Dante Alighieri a Treviso 1996-2001, Antiga, Cornuda, 2001, pagg. 428-435. [Questo saggio è stato finalista al premio “Mario Pannunzio” di Torino per la saggistica nel 2001.]

Appendice:
una cartolina di Gesualdo Bufalino

(testo e firma autografi – timbro postale: Vittoria, 10.5.1994]

Ringrazio del cortese e apprezzabile scritto — Cordialità
Gesualdo Bufalino


LEONARDO SCIASCIA
(Racalmuto 1921 - Palermo 1989)

Leonardo Sciascia, nato a Racalmuto (AG) nel 1921 e formatosi letterariamente alla scuola di Luigi Pirandello, fu maestro elementare fino al 1957, quando lasciò il suo incarico per dedicarsi a tempo pieno alla narrativa, a cui per un certo periodo unì la passione politica, che poi lo vide anche parlamentare nazionale ed europeo.

Esordì come poeta con Favole della dittatura (1950) e La Sicilia, il suo cuore (1952), una produzione trascurabile, anche se già vi affioravano i segni del futuro impegno etico-sociale. Queste poesie in seguito egli le dimenticò, anzi disse che non gl’interessava più la poesia: in realtà egli aveva l’esigenza d’esternare meglio il suo impegno etico-sociale: e questo poté farlo nella narrativa. Quindi nel romanzo Le parrocchie di Regalpietra (1956) fece emergere una Sicilia tradizionale, coi suoi usi e costumi, a volte di stampo veristico, ma non senza la sottolineatura della miseria e della prospettiva dell’emigrazione come speranza di sopravvivenza.

Nel 1958 pubblicò la raccolta di racconti Gli zii di Sicilia; ma fu nel 1961 con Il giorno della civetta che — grazie anche al cinema — esplose il caso Sciascia, un autore che da allora in poi fu considerato uno dei più grandi “giallisti”, ma che alla passione per l’investigazione e il brivido associò sempre il suo impegno etico-sociale, descrivendo una Sicilia impastoiata dalla mafia e da certa politica colludente. Sull’onda del successo seguirono a getto continuo: Consiglio d’Egitto (1963), Morte dell’Inquisitore (1964), L’onorevole (1964), A ciascuno il suo (1966), Recitazione della controversia liparitana (1966), Il mare colore del vino (1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), Il contesto (1971), Todo modo (1974), La scomparsa di Majorana [Il fisico Ettore Majorana (Catania 1906), allievo di Fermi, scomparve nel 1937 senza che più nulla si sia saputo di lui.] (1975), I pugnalatori (1976), Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia [Riprende il titolo Candido ovvero l’ottimismo di Voltaire.] (1977), L’affaire Moro [Analisi del caso del presidente della Democrazia Cristiana rapito e ucciso dalle brigate rosse.] (1978), Dalle parti degl’infedeli (1979), Il teatro della memoria (1981), Kermesse (1982), La sentenza memorabile (1983), Il cavaliere e la morte (1988), Una storia semplice (1989).

Fu anche saggista: al Pirandello dedicò i libri Pirandello e il pirandellismo (1953) e Pirandello e la Sicilia (1967), giudicando la sicilianità del drammaturgo agrigentino come espressione della crisi esistenziale moderna. Inoltre scrisse i saggi Feste religiose in Sicilia (1965), La corda pazza [Allude alla commedia pirandelliana Il berretto a sonagli.] (1970) e La Sicilia come metafora (1979). Nel 1979 pubblicò Nero su nero, una specie di diario in cui approvò l’accusa di pessimismo rivoltagli, e nel 1985 in Occhio di capra registrò come in un dizionario una serie di modi di dire e aspetti magici ed evocativi della Sicilia.

Morì a Palermo nel 1989.

Leonardo Sciascia è stato considerato da alcuni solamente un saggista che si esprimeva “a tesi” nella poesia, nella narrativa e nel teatro, portando avanti delle istanze etico-sociali ben determinate. Alcuni delitti da lui narrati sono rimasti impuniti; e perciò si è parlato di gialli irrisolti. La sua passione per l’investigazione lo portò in certi casi ad assumere egli stesso il ruolo d’investigatore in concorrenza con le forze dell’ordine, mettendo a repentaglio la sua vita, minacciata dalla mafia.

Nelle sue opere è evidente l’accusa alla classe politica dominante in Sicilia di aver incrementato o perlomeno tollerato il fenomeno mafioso; anche se a volte — come nel Consiglio d’Egitto — egli cerca nel passato le cause delle sconfitte d’un tempo per poter capire meglio le cause delle sconfitte odierne. Insomma, dietro i delitti egli adombra la presenza di qualche politico o d’una intera classe politica. Da ciò scaturisce il suo pessimismo, col quale lo Sciascia si colloca sulla scia dei Verga, Pirandello e Tomasi di Lampedusa: pessimismo che non è più il fatalismo verghiano, ma che ora si colora di tinte politiche, potendosi individuare via via i responsabili d’un siffatto stato di degrado.

È per questo che lo Sciascia può essere definito un narratore d’idee più che di fatti: i fatti gl’interessano meno delle idee. E sono queste ch’egli vuole portare avanti, magari facendole scaturire dai fatti stessi. Praticamente con le sue inchieste poliziesche egli ha denunciato le piaghe della società siciliana e auspicato una società migliore dal punto di vista etico e civile.

Infatti, quando — come nel romanzo Il giorno della civetta — un brillante ufficiale dei carabinieri che è riuscito a trovare il bandolo dei delitti, individuandone i mandanti, viene trasferito sul più bello, allora appare nella sua evidenza lo strapotere politico che mette il bastone fra le ruote della giustizia, di fatto incrementando il fenomeno mafioso; e ciò anche se al trasferito vengono — si fa per dire — concessi gli onori delle armi, con il riconoscimento da parte del capomafia che il nuovo comandante è solo un “quacquaraquà”, cioè un uomo senza carattere e senza dignità.

Pertanto è sbagliato ritenere lo Sciascia un semplice “giallista”, dato che invece la sua produzione è caratterizzata da una forte valenza etica con funzione di denuncia sociale e s’inquadra di diritto nella letteratura meridionalistica: opera meritoria nel cammino della Sicilia verso il progresso.


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