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Carmelo Ciccia

Saggi su Dante
e altri scrittori

• Gioacchino da Fiore • Petrarca • Boccaccio • Goldoni •
• Leopardi • Manzoni • Mazzini • Nievo • Verga •
• Fogazzaro • Carducci • Pascoli • D'Annunzio • Pavese •
• Autori che hanno unito l'Italia •

1a edizione - 2007 • Luigi Pellegrini Editore, Cosenza
2a edizione riveduta - 2009 • literary.it

© Tutti i diritti riservati all'autore

In copertina: ritratto di Dante, opera di Luca Signorelli (Cortona, circa 1445-1523)

 

Per i 50 anni della mia laurea,
conseguita fra varie difficoltà
a causa di
povertà di famiglia,
carenza di libri,
complessità di programmi,
severità di docenti.

Catania 1957-Conegliano 2007

pag. 1 Indice

pag. 2

  • Dal Cane di Gioacchino al Veltro di Dante (Inf. I)
  • Dante e Celestino V (Inf. III)
  • Il folle volo d’Ulisse anticipato da Luciano (Inf. XXVI e altri)
  • L’onore e il disonore di Sicilia e d’Aragona (Purg.. III e VII, Par. X IX e XX)
  • “La gloria di colui che tutto move…” (Par. I)
  • Omaggio alla donna nel canto di Piccarda (Par. III)
  • Giustiniano e Romeo: impero ed esilio (Par. VI)
  • Fede e religiosità in Dante Alighieri

pag. 3

pag. 4

  • L’italianità del Nievo
  • Venezia e Oderzo nella narrativa di Giovanni Verga
  • L’eruzione etnea del 1886 nelle pagine di Verga e Aniante
  • Antonio Fogazzaro fra arte e propaganda
  • Carducci: “La nebbia agl’irti colli piovigginando sale…”
  • Pascoli e gli uccelli
  • Il ritorno di D’Annunzio
  • Il dramma di Pavese
  • Le poesie che hanno unito l’Italia

Dante e la coscienza nazionale

Il videomessaggio del Presidente della Repubblica del 28.9.2005 al 77° Congresso della Società “Dante Alighieri” tenutosi a Malta ripropone la considerazione della perenne attualità di Dante e della sua universale immanenza. Il presidente Ciampi ha espresso la sua soddisfazione per il fatto che Dante sta tornando nei teatri, nelle piazze e nelle coscienze degl’Italiani: “Partecipo con gioia — egli ha detto — alla sua riscoperta anche da parte dei giovani, nelle piazze d’Italia, nei teatri. Spero che questo successo si affermi anche in televisione”.

Eppure Dante a causa del nuovo andazzo scolastico è stato quasi estromesso dalla scuola italiana, essendo stato ridotto al minimo lo studio della sua vita e della sua opera, fino a renderlo quasi insignificante. Invece si deve sempre ricordare che Dante è un vanto dell’Italia perché questa gli diede i natali e la lingua, anche se il suo genio non ha confini nazionali, dato che appartiene a tutti gli uomini di tutte le epoche.

Le nazioni civili amano esaltare un proprio poeta e quasi identificarsi in lui, nel quale assommano e condensano il loro passato, le loro glorie, ansie e amarezze. Egli diventa perciò un mito e assurge a simbolo della nazione stessa.

Questo si può dire per l’Italia, di cui Dante è simbolo. Dire “Dante” significa dire “Italia”. Egli infatti indicò chiaramente i confini dell’Italia, affermando già nel 1300 l’italianità dell’Istria-Dalmazia e del Tirolo Meridionale, al di là delle cui montagne faceva cominciare l’Alemagna. Egli ne intuì l’unità nazionale, ne deprecò le lotte intestine, auspicò per lei un futuro da giardino dell’impero; e, perfezionando la lingua adottata dalla scuola poetica siciliana, portò la lingua e la letteratura italiana ad un altissimo prestigio che dura nei secoli. Come nota Francesco Novati (Lectura Dantis: il canto VI del Purgatorio, Sansoni, Firenze, 1903), l’invettiva “Ahi, serva Italia...” è “un grido prorompente dai precordi stessi della nazione a testificare della sua virtù mortificata, sopita, non ispenta. S’è affermato da taluno che il concetto dell’unità italiana fosse perito nel naufragio che sommerse ogni nostra istituzione sotto l’alluvione barbarica; che il nome stesso d’Italia avesse cessato di designare la penisola tutta quanta... Sempre, sempre, pur ne’ momenti più tristi il popolo nostro continuò a vagheggiare quasi inconsapevolmente l’antico gratissimo sogno, Italia unita, regina e dominatrice del mondo... Ma codesto sogno dell’unità, codest’aspirazione alla grandezza passata, queste speranze sempre deluse e sempre rinascenti nella gente latina... solo con Dante, solo per Dante, assorgono a trionfale manifestazione d’arte.”

Il problema dell’unità nazionale nell’ambito dell’impero universale è esposto nel De monarchia, opera esclusivamente politica, scritta all’epoca della discesa d’Enrico VII in Italia. Tutt’e tre i libri di cui essa si compone si rivelano interessanti anche oggi. In questa monarchia universale l’Italia è vista da Dante come il giardin dello imperio (Purg. VI 105).

Per Dante l’impero era romano; e l’imperatore, anche se eletto da tedeschi, era un principe romano e quindi italiano. Per questo motivo sarebbe stato necessario che i comuni si unissero, che le fazioni tacessero e che la pace e l’armonia regnassero sotto la guida di tale principe illuminato.

Le condizioni politiche dell’Italia di quell’epoca non consentivano una facile attuazione dell’idea dantesca. In molti canti della Commedia non mancano accenni alle lotte fratricide, alle usurpazioni e alle ribellioni dei signori italiani. Ma il quadro più evidente ed amaro si ha nel canto VI del Purgatorio, in quella famosa invettiva che comincia con le parole “Ahi, serva Italia...”. In essa, muovendo dall’occasionale abbraccio fra i due concittadini Sordello e Virgilio (i quali si erano abbracciati per il solo fatto di essere concittadini), Dante passa in rassegna tutta l’Italia, divisa in fazioni varie, straziata dalle lotte intestine, disobbediente all’imperatore.

Certamente l’idea dantesca della monarchia universale si è rivelata utopistica; ma il tentativo di costituire un’Europa Unita, superando le barriere e i nazionalismi locali potrebbe essere come un avvicinamento alla tesi dantesca, tanto più che anche la Costituzione italiana (art. 11) prevede una limitazione della sovranità nazionale a vantaggio della formazione di organismi politici supernazionali tesi alla pace mondiale. E anche perciò Dante potrebb’essere attuale per l’Europa.

Seguendo le orme di Gioacchino da Fiore e di S. Francesco, Dante — specialmente nella Divina Commedia — propugna una renovatio, rigenerazione dei costumi, vera palingenesi morale e civile di tutta la società.

La purificazione del papato, il ritorno alla semplicità e alla povertà delle origini e la spiritualizzazione della funzione pastorale sono desideri e auspici che Dante esprime di frequente nel poema, dove essi si trasformano in invettiva, ironia, sarcasmo, poesia. Per questo suo atteggiamento egli dovette spiacere a molti, dovette apparire come un ribelle, quasi eretico; e invece era uno che amava la religione, la patria, la giustizia e l’onestà. Quale anelito di sentimenti puri, quale sincerità, quali apprensioni si notano nelle sue apostrofi! Tutta la Divina Commedia è piena di questi sentimenti e di queste apprensioni.

Dante, precorrendo i tempi, con una lungimiranza davvero notevole, si dimostra moderno per queste sue idee, che non sono affatto medievali, tanto che proprio su tali idee di rispetto reciproco e d’indipendenza sono basati i rapporti fra Stato e Chiesa.

Il De monarchia non è soltanto un’opera dottrinale: nasce dal pressante bisogno del Poeta di migliorare e ordinare l’Italia e il mondo, l’aiuola che ci fa tanto feroci (Par. XXII 151). Questo bisogno trova poi completa estrinsecazione nella Divina Commedia, nella quale, accanto al poeta, appare lo scienziato, il filosofo, il maestro, perché essa è ...il poema sacro / al quale han posto mano e cielo e terra (Par. XXV 1-2).

Al riguardo è opportuno riportare qualche pensiero su Dante formulato durante il nostro Risorgimento che potrebbe considerarsi valido ancor oggi. Ugo Foscolo nel suo poderoso Discorso sul testo della Commedia di Dante così scrisse: “Dante vide che le lingue fanno nazioni; e che molte provincie, ove non compongano una nazione, non possono ottenere mai lingua. Fors’anche presentiva che le animosità provinciali cresciute sino dall’età barbare, ed inferocite anche a suoi danni, avrebbero negato all’Italia di possedere una lingua comune a tutte le sue città.” A sua volta Giuseppe Mazzini nello scritto Dell’amor patrio di Dante così dice: “O Italiani! Studiate Dante; non sui commenti, non sulle glosse, ma nella storia del secolo in ch’egli visse, nella sua vita, nelle sue opere. — Da quelle pagine profondamente energiche, succhiate quello sdegno magnanimo onde l’esule illustre nudriva l’anima; ché l’ira contro i vizi e le corruttele è virtù. Apprendete da lui come si serva alla terra natia, finché l’oprare non è vietato, come si viva nella sciagura.” Vincenzo Gioberti nell’opera Il primato morale e civile degli Italiani, attribuendo una parte rilevante di tale primato a Dante, così afferma: “Il merito sovrano di Dante è di essere stato il primo a cogliere le potenziali bellezze della parola evangelica e ad improntarle in una nuova lingua; onde il suo poema è veramente la Bibbia umana del nuovo incivilimento, e il principio dinamico della nostra letteratura.” Cesare Balbo apre la sua Vita di Dante dichiarando: “Dante è gran parte della storia d’Italia; la sua vita è quella dell’italiano che più di niun altro raccolse in sé l’ingegno, la virtù, i vizi, le fortune della patria; insomma dell’italiano più italiano che sia stato mai. Ond’è che il nome di Dante tanto più risplendette e sempre tra le generazioni successive, quanto più elle tornarono a virtù; e che non ultima fra le ragioni di patrie speranze, è il veder redivivo il culto e lo studio di lui.” E infine Francesco De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana sentenzia: “La Divina Commedia non è un concetto nuovo, né originale, né straordinario, sorto nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo meravigliato. Anzi il suo pregio è di essere il concetto di tutti, il pensiero che giaceva in fondo a tutte le forme letterarie, rappresentazioni, leggende, visioni, trattati, tesori, giardini, sonetti e canzoni. L’Allegoria dell’anima e la Commedia dell’anima sono gli schemi, le categorie, i lineamenti generali di questo concetto.”

Qualcuno ha definito Dante “uomo del millennio”, a causa dell’universalità del suo genio, che spaziava dalla poesia a tutti i campi dello scibile, fino a stimolare le grandi scoperte geografiche del Rinascimento e dominare con la sua imponenza l’intero millennio: si pensi a Cristoforo Colombo che nel suo diario di bordo parlò del Monte Purgatorio, con chiara allusione al “folle volo” d’Ulisse (Inf. XXVI 85-142), e a Galileo Galilei e Isacco Newton che perfezionarono l’intuizione dantesca della forza di gravità (Inf. XXXIV 110-111). Ma, considerato che siamo entrati nel terzo millennio cristiano e il culto di Dante è ancora vivo, quanto meno tra gli anziani, si potrebbe correggere la precedente definizione, definendolo ora “uomo dei millenni” a causa della sua perenne attualità.

E anche per questo occorre che la figura e l’opera di Dante siano sempre più diffuse, conosciute e amate, specialmente tra i giovani.


Dante nelle arti figurative

Innumerevoli sono stati attraverso i secoli gl’illustratori di Dante e delle sue opere, particolarmente della Divina Commedia, la quale certamente si presta a ciò per la molteplicità e varietà di situazioni, personaggi e riferimenti; sicché volerne fare una rassegna completa, magari ragionata, non è assolutamente possibile. Evidentemente si possono solo indicare alcuni artisti, secondo le proprie limitate conoscenze.

Primo illustratore ante litteram del poema dantesco può essere considerato Gioacchino da Fiore (Célico, CS, circa 1130-Canale di Pietrafitta, CS, 1202), il quale a priori disegnò per i suoi fini simbolico-didascalici parecchie figure da cui poi Dante trasse ispirazione per alcune sue famose immagini poetiche e che a volte seguì dettagliatamente. Ne discende che — come più volte ho avuto occasione di sostenere[5] — i testi della Divina Commedia, e specialmente quelli commentati per le scuole, devono essere corredati di tali figure, comprese nel Liber figurarum e in altre opere di Gioacchino: e ciò, per una migliore e più chiara intelligenza di vari canti.

Probabilmente il primo ritratto di Dante è quello dipinto da Giotto (Vespignano, FI, circa 1267-Firenze 1337) in un affresco del palazzo del Bargello di Firenze. Il volto, pur con qualche traccia d’alterigia, mostra la coscienza di sé e la fermezza di chi è chiamato a grandi imprese e sta per affrontarle impavido.

Poi vanno ricordati i codici, che con splendide miniature, illustrano la Divina Commedia, a volte contenendo anche ritratti di Dante: ad esempio il cod. Templ. del sec. XIV (bibl. Laurenziana, Firenze) e il cod. Riccardiano 1040 del sec. XV (bibl. Riccardiana, Firenze), quest’ultimo probabilmente miniato da Giovanni Del Ponte (o Giovanni di Marco, Firenze 1385-1437), che mette in risalto particolarmente il naso aquilino e la fronte corrugata del Poeta. Alla fine del sec. XIV risale il cod. Estense conservato nella Biblioteca Estense di Modena e pubblicato nel 1995 presso Priuli e Verlucca: la preziosità dell’opera è dovuta non solo all’antichità, alla qualità della carta e alle vicende storiche del manoscritto, ma anche alle delicate miniature che lo accompagnano e illustrano.

Di Domenico Di [o Del] Michelino (Firenze 1417-1491) va ricordata la grande tavola “L’allegoria della Commedia” del 1465 (cattedrale di S. Maria del Fiore, Firenze), in cui è Dante stesso che, accanto alla sua città, spiega la visione dei tre regni dell’aldilà, fra cui campeggia nello sfondo il monte del purgatorio, come un’odierna gigantesca torta nuziale che ha al culmine gli sposi Adamo ed Eva.

Sandro Botticelli (Firenze 1445-1510) ci ha lasciato la prima illustrazione organica della Divina Commedia. Pur con una timida ispirazione rinascimentale, individuabile ove consentito dai soggetti, in questa produzione di solito domina una leggerezza di segno quasi adombrante la metafisicità dell’ambiente e l’etereità dei personaggi; ma a volte (ad esempio nel “Lucifero”) viene espresso un realismo terrificante degno delle miniature medievali. Occorre precisare che essa è considerata una produzione botticelliana minore, esile e fragile, importante solo per i dantisti, tanto che è addirittura meno famosa di quella del Doré.

Luca Signorelli (Cortona, AR, 1445/1448-1523) lasciò nel duomo d’Orvieto una serie di grandiosi affreschi illustranti i tre regni dell’aldilà. C’è un prevalere del nudo in ardite soluzioni mai tentate fino ad allora, con ammassamenti osceni o grotteschi di dannati, prevalenza di particolari anatomici e scarso risalto del significato religioso: migliore riuscita espressiva si ha nei piccoli quadri in monocromato dello zoccolo con episodi o personaggi danteschi. Molto noto e interessante è invece il suo ritratto di Dante “laureato” e intento a leggere.

Raffaello Sanzio (Urbino, PU, 1483-Roma 1520) ci lasciò un Dante sdegnoso nel famoso affresco della “Disputa del Sacramento” delle Stanze Vaticane, ponendogli in capo anche lui quella corona d’alloro tanto desiderata dal Poeta, ma che la sua città mai gli concesse.

Fra le edizioni cinquecentine della Commedia vanno ricordate per la loro importanza quella curata da Alessandro Vellutello, stampata a Venezia nel 1544 dal tipografo Francesco Marcolini, al quale sono attribuite le numerose illustrazioni di stile fiabesco e — si direbbe — naïf, e quella curata da Cristoforo Landino (Firenze 1424-Pratovecchio, AR, 1498) e Alessandro Vellutello, stampata a Venezia dagli eredi di Francesco Rampazzetto nel 1578 e che contiene anch’essa numerose incisioni in legno, fra l’altro indicanti le supposte misure degli ambienti e oggetti danteschi.

Alla Divina Commedia vanno ricondotti alcuni lavori di Michelangelo Buonarroti (Caprese, AR, 1475-Roma 1564) quali “Il giudizio universale” e specificamente alcune figure mitologiche come Caronte (Cappella Sistina del Vaticano). L’artista fu accusato d’oscenità e paganesimo, e perciò si procedette a forzosi rimaneggiamenti, ma dopo si capì il valore della sua arte. Si può dire che egli trasse dal poema dantesco la terribilità di certe situazioni e la statuarietà di certi personaggi, che a sua volta fece risaltare.

Federigo Zuccaro o Federico Zuccari (Sant’Angelo in Vado, PU, 1540 - Ancona 1609) connotò col fratello Taddeo la vita artistica romana. Dopo essere riuscito brillante in altre sue opere per la chiara impostazione architettonica, l’armonia delle decorazioni e la ricchezza cromatica, illustrò la Divina Commedia in una serie di grandi tavole che vanno da 43 x 59 a 48 x 149 cm. e che recentemente sono state riprodotte in un volumone di gran lusso (e gran costo) della casa editrice Salerno di Roma. Le tavole (per lo più a matita rossa e nera, ma anche a penna e acquerello) comprendono anche citazioni di versi e didascalie autografe, in cui il pittore cerca di mettere in luce la straordinaria forza espressiva di Dante. In tale lavoro, realizzato quando si trovava all’Escorial dov’era stato chiamato dal re Filippo II di Spagna, egli utilizzò anche alcuni dei suoi soggetti con cui aveva affrescato la cupola di Santa Maria del Fiore di Firenze (in minor parte precedentemente affrescata dal Vasari), riuscendo tuttavia mediocre nel suo fiorentino Giudizio universale. Era un manierista eclettico: per certi versi i suoi disegni cercavano di ripescare la tradizione classica; e, se da una parte egli operava nell’ambito della Controriforma cattolica, dall’altra il suo studio del naturale, con influssi della scuola veneziana, preludeva alla crisi del manierismo verificatasi a cavallo dei due secoli. Certamente la sua illustrazione dantesca ha un respiro grandioso, anche dal punto di vista architettonico, perché sa cogliere non solo le vicende ma anche le tensioni del testo poetico, ottenendo un risultato artistico che fino al 1908 non era stato uguagliato, se quell’anno Corrado Ricci poteva definirla “la maggiore e più interessante illustrazione dantesca che l’Italia abbia mai prodotto”. Per convincersene basterebbe guardare il nobile castello del limbo, la mistica processione del paradiso terrestre e la visione finale del paradiso.

Anche gli stranieri rivolsero presto la loro attenzione al mondo dantesco. Il pittore e incisore (oltre che poeta) inglese William Blake (Londra 1757-1827) riversò nei suoi disegni preparati per la Divina Commedia il senso mistico ed ingenuo d’un fanciullo folle e visionario, improntandoli ad un romanticismo astratto, a volte contagiato da un esoterismo satanico.

La corona d’alloro fa bella mostra di sé anche nel Dante acquietato perché pacificamente addormentato di Johann Friedrich Overbeck (Lubecca 1789-Roma 1869) e Philipp Veit (Berlino 1793-1877), autore — quest’ultimo — che ha lasciato anche un ciclo pittorico sul Paradiso (Sala Dantesca, Custodia di Terrasanta, Roma).

Francesco Scaramuzza (Sissa, PR, 1803-Parma 1886) affrescò la Sala di Dante della Biblioteca Palatina di Parma, oltre che il Tempietto petrarchesco di Selvapiana e una sala del Museo d’antichità di Parma, con intonazioni romantiche e vaghi riflessi del Correggio. Ma la sua opera più importante è l’originale illustrazione della Divina Commedia, una delle più aderenti al testo dantesco per la naturalezza delle immagini e l’intrinseca bravura dell’artista. Dei 243 quadri in 240 cartoni (73 per l’Inferno, 120 per il Purgatorio e 50 per il Paradiso), egli ne dedicò ben 18 al solo canto XXXII dell’ultima cantica, tanto era attratto dallo scenario dell’Empireo ideato dal Poeta, in cui egli trovò molto materiale per le sue interpretazioni pittoriche, grazie ai numerosi beati indicati da S. Bernardo e visti da Dante. Gli atteggiamenti e gli attributi iconografici dei personaggi, nonché gli ambienti, sono tesi a sviluppare la pietà religiosa del lettore-osservatore e quindi a valorizzare il messaggio dantesco. Notevole è la figura dell’aquila dei canti XVIII-XX del Paradiso, già magistralmente realizzata da Gioacchino da Fiore nel suo Liber figurarum.

Dante Gabriel Rossetti (Londra 1828-1882) era figlio del patriota e letterato abruzzese Gabriele Rossetti, esule a Londra, il quale volle dare a lui il nome di Dante perché egli stesso dantista. I suoi dipinti più famosi sono “Il saluto di Beatrice”, “Il sogno di Dante” e “Beatrice morente”. Quale fondatore della cosiddetta “fratellanza preraffaellitica”, voleva rifarsi ai maestri rinascimentali anteriori a Raffaello; e riversò in queste immagini il suo carattere malinconico, coniugando il disegno fiorentino al colore veneziano. Risale al 1921 il suo Canzoniere di Dante Alighieri con 12 illustrazioni pubblicato a Torino per la Società tipografico-editrice e di cui un’altra edizione fu pubblicata successivamente dalla Stern di Torino.

È del 1865 l’edizione del Tommaseo (Pagnoni, Milano) con 55 disegni di Carlo Barbieri e Federico Faruffini, incisi da Giuseppe Gandini, che poi il letterato e politico Luciano Scarabelli immeritatamente definì “spropositate bruttezze”.

Il corredo illustrativo della Divina Commedia disegnato da Gustave Doré (Strasburgo 1832-1883) è certamente il più popolare ancor oggi: la fama è probabilmente dovuta alla prevalente attività d’illustratore d’opere letterarie (di Milton, Rabelais, Balzac, La Fontaine, Cervantes, Bibbia, Ariosto, ecc.) espletata da questo pittore e incisore, che con tratti robusti, marcati e decisi, coglie bene gli aspetti più realistici dell’opera dantesca, nonostante il predominio dei toni cupi anche fuori dell’inferno.

Alberto Martini (Oderzo, TV, 1876-Milano 1954) trattò anche altri soggetti letterari (come Il Morgante Maggiore del Pulci, La secchia rapita del Tassoni, l’Amleto dello Shakespeare, i Poemucci in prosa del Mallarmé, Les Orientales dell’Hugo, Il cuore del De Amicis, La vita della Vergine e altre poesie del Rilke, il Pinocchio del Collodi, ecc.), esponendo nelle principali mostre di tutto il mondo, ma deve l’estrinsecazione del suo interesse dantesco al concorso indetto nel 1901 dalla casa editrice Alinari di Firenze per la realizzazione d’un’edizione illustrata della Divina Commedia. Ne nacque una serie di disegni a china, matita, acquerello e guazzo colorato, nonché litografie, in cui dimostrò — anche con numerose annotazioni e citazioni accanto agli stessi disegni e in quaderni a parte — una dettagliata conoscenza del poema sacro e un amore profondo per il poeta, che praticamente poi durò a lungo, concretandosi in molte altre figure dantesche. Il suo stile, ora scarno e nervoso, ora composito e pacato, si può definire simbolista europeo e precursore del surrealismo, anche se in certa cupezza (pur tipica dell’inferno) e spigolosità a volte si scorgono le influenze d’artisti nordici come Albrecht Dürer. Prevalentemente bianconerista, qualche volta egli si servì anche di colori a pastello; ma in ogni caso predilesse l’espressione dei volti, talora con tratti astratto-futuristi. Notevole è anche un espressivo ritratto di Dante, nel quale la fierezza del personaggio è mitigata dalla consapevolezza del proprio ruolo. In definitiva il Martini risulta non un semplice illustratore della Divina Commedia, ma un dantista che interpreta e fa sua l’alta fantasia del poeta. Citare qui i disegni più significativi è impossibile, dato che sono tanti (praticamente relativi ai personaggi ed episodi più noti e ad altri a cui egli stesso con la sua sensibilità attribuisce importanza); e inoltre di certi personaggi ed episodi esegue varie versioni, a volte soffermandosi a fare e rifare un atteggiamento o una postura per meglio rendere il testo: è il caso del verso “e caddi come l’uom che ’l sonno piglia” (Inf. III 136), divenuto motto della grandiosa mostra del cinquantenario, per il quale l’artista studia a lungo la posizione del gomito nella caduta per sonno, e del conte Ugolino (Inf. XXXII-XXXIII), per il quale studia a lungo la posizione della testa e l’espressione del volto.

Col Martini è doveroso ricordare anche altri artisti che parteciparono allo stesso concorso e di cui sono stati esposti i quadri nella mostra organizzata dal comune d’Oderzo a palazzo Foscolo, nel cinquantenario della morte del suo concittadino: Duilio Cambellotti (Roma 1876-1960), Galileo Chini (Firenze 1873-1956), Vincenzo La Bella (Napoli, sec. XIX-XX), Serafino Macchiati (Camerino, MC, 1861-Parigi 1916), Armando Spadini (Poggio a Caiano, PO, 1883-Roma 1925) e il vincitore del concorso Alberto Zardo (Padova 1876-Firenze 1959).

Amos Nattini (Genova 1892-Parma 1985), appartenente ad una famiglia di tradizioni marinaresche, fin da ragazzo dimostrò una spiccata passione per la pittura e la grafica, non solo come artista, ma anche come collezionista, tanto da essere poi definito “custode del bello”. Nel 1921, in occasione del sesto centenario della morte di Dante, realizzò una serie di tavole dantesche che costituirono l’illustrazione d’una speciale edizione della Divina Commedia e furono anche esposte a Parigi, Nizza e L’Aja, riscuotendo dappertutto un notevole successo. L’interesse di questo pittore per Dante s’estese per una ventina d’anni e s’estrinsecò meglio quando egli si ritirò nell’ex eremo benedettino d’Oppiano di Gaiano (PR), fissandovi la sua casa-studio. Le sue figure dantesche, d’intonazione liberty ed “eroica”, risentono del clima dannunziano del momento e i suoi personaggi tendono ad apparire dei superuomini, tanto che l’artista si meritò la seguente dedica da parte del D’Annunzio sul frontespizio delle Laudi: “Ad Amos Nattini, che sa come l’Arte moderna domandi un’anima eroica, offro queste grida verso gli eroi (Parigi, maggio 1914)”. La sua arte, che rivela una grande cultura, affonda le radici nel Rinascimento, ed in particolare in quel senso di perenne primavera e di giovanile spensieratezza, anche se i modelli classici sono da lui rivissuti e oltre all’umanesimo vi si trova il decadentismo. Il suo Inferno naturalmente ha un’impostazione cupa e “scottante”, ma il suo viaggio storico-artistico sa bene approdare agli esiti luminosi e spirituali del Paradiso.

Bruno Saetti (Bologna 1902-Montepiano, PO, 1984), direttore dell’Accademia di Belle Arti di Venezia e noto affreschista e mosaicista, specializzatosi nella tecnica dell’affresco a strappo, rivolse la sua attenzione anche all’illustrazione di famose opere letterarie. Ne nacquero i poderosi volumi illustrati in folio del De rerum natura di Lucrezio nella versione d’Enzio Cetrangolo, della Divina Commedia di Dante Alighieri e di 50 Poesie d’Eugenio Montale. Le sue tavole dantesche oscillano fra la tecnica affreschistica e il bozzetto a matita: in esse viene dato rilievo al personaggio principale del racconto, mentre gli altri restano nell’ombra o sono appena abbozzati. Tuttavia ne risaltano bene le caratteristiche tanto in soggetti corposi, come il regale Bonifacio VIII, quanto in quelli eterei, come le vaghe “postille” delle anime nelle sfere celesti, le quali per il deciso bozzettismo sembrerebbero un intrico di linee. In ogni caso il tentativo del Saetti rivela la mano esperta del maestro, attento non solo agli esiti artistici, ma anche ai fondamenti letterari.

Nel 1924 presso l’UTET di Torino uscì una pregevole edizione dell’Inferno a cura di Guido Biagi con 2 tavole e 180 figure nel testo. Dopo la morte del Biagi, la continuazione è stata affidata a Enrico Rostagno e Giuseppe Lando Passerini.

Il caso di Domenico Antonio Tripodi detto “l’Aspromontano” (S. Eufemia d’Aspromonte, RC, 1930) è del tutto particolare: egli non è un pittore qualsiasi prestatosi occasionalmente a Dante, ma un pittore dantista nel senso che ha studiato e assimilato la Divina Commedia, fino a farne parte essenziale della sua cultura e del suo modo d’esprimersi artisticamente, diventando uno dei più noti nel mondo anche grazie ai numerosi riconoscimenti ottenuti in Italia e all’estero. Il Tripodi, che vive a Roma, ha trattato Dante con una profonda conoscenza della vita e dell’opera, ma soprattutto dello spirito che anima scene e personaggi. I suoi quadri danteschi, nei quali prevalgono i colori caldi, sono anzitutto un atto di grande amore per Dante e per tutto ciò che il divino Poeta rappresenta per la nostra civiltà e per la nostra formazione personale; inoltre sono l’espressione d’una convinta fede e d’una profonda riflessione, ch’egli ha potuto fare grazie alla sua preparazione non solo dantesca, ma anche biblica e teologica. In ogni caso essi sono il segno d’una costante ricerca di verità e d’una grande spiritualità. E il suo catalogo della mostra dantesca tenuta nel 2001 nel castello di Roccasinibalda (RI) — dove peraltro si è svolta tutta una serie di manifestazioni dantesche culminate nella mostra storico-bibliografica sulla Divina Commedia dal sec. XVI al sec. XX — è una vera e propria monografia illustrata, impreziosita dalle figure del Tripodi e dall’esegesi d’autorevoli dantisti.[6] Notevole anche la sua mostra a Mosca.

Nel 1934 Paolo D’Ancona (Pisa 1878-Milano 1964), sulla base di lunghi studi sulla precedente arte figurativa riferita a Dante, curò con Nicola Zingarelli (Cerignola, FG, 1860-Milano 1935) un’importante edizione della Divina Commedia corredata di numerose e pregevoli illustrazioni scelte fra quelle apparse dal ’300 al ’900.

Marcello Cagnato (Treviso 1913) nella sua nutrita serie di sculture dantesche — spesso terrecotte di piccole dimensioni — fissa con delicata finezza e perizia il mondo e i personaggi di Dante, anche quelli meno importanti dal punto di vista della validità artistica del Poema, cogliendoli nelle espressioni caratterizzanti. La tematica dantesca del Cagnato, che ha avuto notevoli riconoscimenti anche all’estero, si può dire quasi esclusiva nella sua produzione, estrinsecandosi nella proposizione d’una molteplicità d’episodi anche secondari, a volte ignorati o dimenticati.

Nel 1965, in occasione del VII centenario della nascita di Dante, la Biblioteca Vaticana curò l’edizione d’un codice urbinate latino della Divina Commedia con fotolitografie della Flam di Milano. Lo stesso anno e per la stessa occasione Aldo Martello ne curò un’altra edizione con pregevoli fotolitografie di Annibale Belli, pubblicata a Milano.

Vittorio Ribaudo (Palermo 1937), artista e campione di tennis, illustra la Divina Commedia dal 1973 ed ha scoperto l’importanza del legno come materia pittorica fin dal 1965. Il suo si può definire un genere figurativo classico, appartenente alla migliore tradizione italiana. Vari sono i materiali e le tecniche che utilizza, preferendo il legno di qualità diverse, che è insieme scolpito e dipinto a tempera, olio, miniatura, e ricorrendo a volte a marmo, sughero e pelle: sicché la sua arte è insieme scultura e pittura, e come tale va osservata e valutata, in un connubio di forma e colore. Ovviamente i legni di quest’artista rappresentano personaggi ed episodi ben noti, ma a volte essi stessi concorrono all’orrido dell’inferno con certa forma mostruosa, ricca di simbologia e di suggestione. L’artista ha progettato d’illustrare l’intero poema sacro: Inferno su legno, Purgatorio su marmo (ma a volte su tela, agate del Brasile e vetro di Murano) e Paradiso su pietra preziosa; e le sue illustrazioni, nei cataloghi accompagnate dai rispettivi versi danteschi, costituiscono un utile vademecum per il lettore-spettatore che voglia intraprendere un proficuo pellegrinaggio insieme con Dante e con lo stesso Ribaudo, il quale si dimostra buon conoscitore del poema e dello spirito del sommo poeta. Per curiosa coincidenza il suo ritratto di Dante per atteggiamento e vestiario è molto vicino a quello del Martini, anche se il labbro risulta più pronunciato. Oltre che a Dante il Ribaudo s’è dedicato all’Orlando furioso dell’Ariosto e ad alcune opere del Verga e d’altri autori, nonché agli aspetti paesaggistici e folcloristici della Sicilia e della Sardegna, pur senza ignorare le regioni settentrionali, dove pure ha lavorato: ad esempio, nel comune di Virgilio ha realizzato all’aperto un quadro-monumento rappresentante Dante e Virgilio. Vivendo ad Augusta, nei pressi dell’antica Mègara Iblea (SR), egli, che è detto “Rubens siciliano” forse per una certa reviviscenza e “successore di Guttuso” per essere nato nella stessa provincia, si è attivato per il gemellaggio con la Mègara greca, volendo collegare la sua arte alla grande classicità. L’artista, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti, comprese lauree e cittadinanze ad honorem, ha lavorato anche per chiese, monasteri, cimiteri, industrie, stabilimenti di moda, centri culturali e case editrici. Sue opere si trovano nelle principali città dell’Italia e dell’estero (Roma, Bruxelles, New York, Caracas, Tokio, Yemen, ecc.); e un suo quadro di san Pio da Pietrelcina si trova nella basilica di S. Giovanni Rotondo. La sua originalità ha fatto sì che egli sia apprezzato e ammirato anche da personaggi della politica e dello spettacolo, tanto che recentemente è stato chiamato a partecipare al “dopofestival” del festival di Sanremo, dove per l’occasione ha allestito una sua mostra nell’atrio del teatro.

Silvio Benedetto (Buenos Aires 1938) ha viaggiato per tutto il mondo, esercitando le attività di pittore, scultore, architetto, scenografo, attore, cantante, animatore di spettacoli, incontri e dibattiti, anche sulle navi da crociera: si direbbe un artista completo. In Liguria ha lavorato nelle Cinque Terre; e in Sicilia (dove ha contratto amicizia con personaggi come Ignazio Buttitta, Rosa Balestrieri e Ciccio Busacca) in vari posti, ma soprattutto a Campobello di Licata (AG), dove tuttora risiede. Tutto è cominciato una ventina d’anni fa con un incontro col sindaco Calogero Gueli, che poi gli ha commissionato la trasformazione di Campobello in città d’arte; e per questo tale cittadina potrebbe cambiare il suo nome da Campobello di Licata (ora che non c’entra più la villeggiatura dei licatesi) in Campobello d’Arte. In essa non c’è angolo che non sia stato oggetto dell’arte del Benedetto pittore/scultore/architetto, coadiuvato da una commissione di tecnici: dalla facciata del municipio alla sottostante piazza centrale (una delle più belle del mondo), alle facciate delle chiese, delle scuole e della biblioteca comunale, dove si trovano rappresentate una quarantina di scene dell’Iliade e nel cui interno si trovano l’auditorium “Dante Alighieri” e una sezione della biblioteca dedicata al sommo poeta; a fontane, scalinate, teatro all’aperto, obelisco e agorà intitolata piazza Tienammen, a fianco della piazza Palmiro Togliatti. E qui notiamo che certamente i versi di Dante e tutto il clima dantesco stonano fortemente con le intitolazioni toponomastiche ispirate al comunismo. Ma ciò che caratterizza la cittadina è la “Valle dantesca”, detta anche “Valle delle pietre dipinte”, realizzata dal Benedetto: 120 giganteschi blocchi di travertino da lui affrescati, a volte anche ai lati e nel retro, per complessive circa duecento figurazioni dantesche, posizionati in tre sentieri (Inferno, Purgatorio e Paradiso) a costituire come delle stazioni di via crucis, davanti alle quali il visitatore — grazie anche ai relativi cartellini con didascalie e citazioni di versi — potrà fare le sue meditazioni. Tutto il lavoro è connotato da un forte realismo espressionistico: a volte le grandi figure “aggrediscono” il visitatore coi loro particolari: volti rabbiosi o sconvolti dal dolore, mammelle sporgenti, ferite sanguinanti, mostri rotanti, ecc. Per i superbi del Purgatorio il Benedetto è arrivato all’impossibile: fare trasportare sulle spalle d’un penitente parte del macigno in cui lo stesso è dipinto; inoltre ha raffigurato in maniera originale la Vergine Madre del canto XXXIII del Paradiso, rendendo poi l’idea di Dio con un sole che fa anche da sfondo alla valle, insieme con un adeguato scenario architettonico. Interessante è anche la resa della simbologia di Beatrice e del suo occhio. L’artista infine ha reso attuale il messaggio dantesco mediante l’inserimento di scene d’attualità, come sequestri di persona e delitti mafiosi, in cui dominano le sofisticate armi dei nostri giorni. In quest’opera ciclopica le forme sono ben delineate, i colori vivaci, la fantasia eccelsa come quella del poeta che l’ha ispirata. Tuttavia a distanza di alcuni anni dall’inaugurazione la “Valle” sta cadendo nell’incuria e nel degrado: sentieri grezzi e dissestati, figure sbiadite, erbacce attorno e perfino sopra i blocchi dipinti, molti cartellini rotti o mancanti, completamento non effettuato. Perciò quello che ci vorrebbe è una maggior cura, oltre che un catalogo completo, un’adeguata campagna promozionale e una buona segnaletica stradale per attirare sempre più numerosi visitatori in quella che è stata definita “la meraviglia del XXI secolo”.

Fra i pittori stranieri che hanno trattato anche Dante va ricordato Salvador Dalì (Figueres, Spagna, 1904-1989). Egli nel 1963 pubblicò una famosa edizione della Divina Commedia in sei volumi corredata di 100 illustrazioni, le quali mostrano, sia pure attenuate, le caratteristiche surrealistico-metafisiche dell’autore. Però, pur nell’eccellenza del segno e nello splendore del colore, la pittura dantesca del Dalì rivela quasi il gesto della ritualità e l’impaccio della mancanza di fede.

Qualcosa del genere si può dire anche per il nostro Renato Guttuso (Bagheria, PA, 1912-Roma 1987), illustratore d’una Divina Commedia mondadoriana de1 1970: pur con certa spigolosità, il Guttuso riesce meglio nelle vedute paesaggistiche anziché nell’illustrazione di misteri e di simbologia sacra, nonché d’invenzioni e d’altri temi specificamente danteschi.

E al di là dello stesso Dalì sembra essere andato Annibale Fasan (Treviso 1956), che nella serie dei suoi grandi quadri d’interpretazione dell’Inferno ha dimostrato una notevole libertà espressiva, accostandosi al surrealismo e costituendo per questo una novità dantesca capace di sorprendere l’osservatore che non conosca il pittore. Ma del Fasan bisogna anche dire che i risultati da lui conseguiti sono dovuti ad un attento studio della cultura medievale (letteratura, filosofia, costume, arte), che conferisce al Poeta una giusta collocazione nel suo tempo. Della sua pittura dantesca, visionaria ed evocatrice, meritano d’essere segnalati due particolari: il colore d’ogni singolo quadro è come il ritmo d’una sinfonia costituita dall’insieme della serie; la cornice a sua volta è come la continuazione del quadro, parte integrante dell’opera, e riprende e sviluppa il tema fino a portarlo all’apice della conclusione logico-espressiva. Ne deriva un’ermeneutica dantesca nel contempo ironica e drammatica, o meglio in cui la drammaticità scaturisce dalla visione ironica percepita dall’osservatore attento.

Verso la fine del sec. XX la Società Dante Alighieri - Comitato di Padova ha affidato a parecchi artisti, anche stranieri, l’illustrazione della Divina Commedia con una serie d’incisioni a tecnica varia ampiamente e acutamente commentate dal critico d’arte dello stesso Comitato Giorgio Segato.

Fra gli enti che organizzano mostre d’arte dantesche anzitutto vanno ricordati ovviamente i grandi centri di studio di Firenze e Roma: la Società Dantesca Italiana di Firenze, la Società Dante Alighieri - Sede centrale di Roma e la Casa di Dante di Roma. Non è da trascurare poi il Centro Dantesco dell’Eremo di Fonte Avellana (PU) dei frati benedettini, dove Dante dimorò nel 1318-1320, dove — secondo la tradizione — completò la stesura della Divina Commedia e dove tuttora si trovano la “camera di Dante” e diversi ritratti del Poeta.

Inoltre è da mettere in evidenza la grande attività artistica del Centro Dantesco di Ravenna dei frati minori conventuali, sede della Biennale Internazionale di scultura, medaglia e bronzetto, nonché d’altre esposizioni, a cui hanno partecipato in varie edizioni parecchi autori.

Infine importante centro di riferimento dantesco, e non solo regionale, è la Casa di Dante in Abruzzo (Pescara, Torre dei Passeri) istituita, posseduta e gestita nel suo castello da Corrado Gizzi (Guglionesi 1915), il quale, dotato di multiforme cultura e di grande passione per Dante, ha organizzato parecchie mostre dantesche di grandi artisti del passato e del presente, come quella dell’arte nuova nel 2000: Adolfo Magrini, Carlo Muccioli, Plinio Nomellini, Pietro Senno, ecc. Tali mostre sono tutte documentate nei vari cataloghi curati per grosse case editrici milanesi dallo stesso Gizzi, il quale ha anche pubblicato una documentazione sulla ricerca iconografica dantesca degli ultimi anni[7] .

Certamente molti altri sono gli artisti che si dedicano a Dante, ma non è possibile conoscerli e indicarli tutti: basta soltanto qualche riferimento per capire l’eccezionalità dell’interesse del poema dantesco anche ai nostri giorni.


Il De Gloria Paradisi di Gioacchino da Fiore e la Divina Commedia di Dante Alighieri

Circa le fonti ispiratrici del viaggio ultraterreno di Dante si sono fatte numerose ipotesi: anzitutto si sono citati i viaggi nell’aldilà contenuti nell’Eneide e nell’Odissea (di quest’ultima, anche se non conosceva il greco, il poeta aveva letto cenni ed epitomi); e poi il Somnium Scipionis di Cicerone e le Metamorfosi d’Ovidio; e poi ancora una serie di visioni che punteggiavano la letteratura di devozione e/o di fantasia del Medioevo. Verso la metà del sec. XX Leone Tondelli ha indicato il Liber figurarum di Gioacchino da Fiore e in seguito io stesso ho indicato la Storia vera di Luciano di Samòsata.

A volte le indicazioni si riferiscono a singoli episodi o espressioni: ad esempio, per il famoso incipit “Nel mezzo del cammin di nostra vita” si sono richiamate le Profezie d’Isaia XXXVIII 10: “Nel mezzo dei miei giorni andrò alle porte dell’inferno”; e, poiché Isaia era stato il primo a profetizzare la liberazione dalla cattività babilonese, fin dal primo verso alla Divina Commedia viene impresso un carattere profetico, subito dopo confermato dalla profezia del Veltro. Ma ancor più s’è discusso sulle famose tre fiere del primo canto dell’Inferno, per le quali sono state richiamate le Lamentazioni di Geremia V 6: “Li colpisce il leone della foresta, / il lupo della steppa li disperde, / la pantera vigila le loro città: / chiunque se ne esce è sbranato”, in cui S. Girolamo ha visto rispettivamente l’impero babilonese con Nabuccodonosor, quello medo-persiano e quello macedone. Mons. Dante Balboni in un suo studio ha addirittura parlato di poema liturgico, per il fatto che numerose sono nella Divina Commedia le citazioni assunte dalla liturgia, alcune delle quali massime e orazioni appartenenti al messale e al breviario in uso nella settimana santa, cioè nei giorni del mistico viaggio dell’Alighieri.

Ma fra le varie visioni forse poca importanza è stata data al poemetto intitolato Visio admiranda de gloria paradisi di Gioacchino da Fiore, sia perché poco conosciuto sia perché attribuito all’abate senza certezza d’autenticità. Ad esempio, il Tagliapietra lo giudica di dubbia autenticità, anche se altri studiosi (Reeves, Fleming, Mc Ginn) ne riconoscono la congruenza col pensiero e con lo stile dell’abate florense. Tale poemetto, di 119 versi, ha un valore artistico si può dire nullo, essendo arido, scialbo, ripetitivo: e, privo di ritmo com’è, si direbbe piuttosto prosa che poesia. Il linguaggio è sì biblico e simbolico, ma senza toni apocalittici: bisogna tener presente che l’autore tendeva alla persuasione docile e all’essenzialità tipica della letteratura di devozione. È chiaro invece che qualche importanza il poemetto l’assume quando si voglia meglio conoscere il pensiero dell’abate e i rapporti fra Dante e Gioacchino.

Infatti varie sono le analogie fra il De gloria paradisi e la Divina Commedia, anche se con certe differenze. Ed è merito del cosentino Raffaele Gaudio (1877 - 1932) averle rilevate e aver supposto il poemetto come una delle fonti principali di Dante. Basta seguire il testo fornito da Vincenzo Segreti nella rivista “Calabria letteraria” di Soveria Mannelli, ott.-dic. 1989, e che comincia con le parole Visionem admirandae ordiar historiae.

C’è anche in questo poemetto un viaggio di redenzione nell’aldilà, che un religioso — anonimo ma facilmente identificabile nello stesso Gioacchino — svolge in sei giorni o età fra pericoli vari che gli ostacolano il cammino: ladroni che lo legano (sia pur provvisoriamente), scorpioni che lo pungono, fame, sete, caldo, solitudine, bestie che lo mordono, linci e iene e grifoni che gli sbarrano la strada, leoni e draghi che lo minacciano di morte, aspidi e basilischi che gli sibilano accanto, finché il malcapitato muore sbranato. Ma nella visione estatica la sua anima, sciolta dal corpo, intraprende un viaggio di salvazione, visitando anzitutto un fiume di fuoco fumante e di bollente zolfo, da cui sono inghiottite le anime degl’infelici appena pervenute sul suo ponte; mentre le anime di coloro che hanno rinunciato ai piaceri materiali e hanno fatto penitenza volano tranquille al di là del ponte e vanno alla patria della beatitudine.

Sopra una muraglia, poi, il religioso vede le anime dei beati tripartite per gradi, in ambienti paradisiaci quali spazi inondati di luce, selve con altissime piante piene di frutti squisiti, senza brutture e bestie fastidiose ma con pace, bellezza e gloria. E anche sulla sommità d’un monte, alla quale arriva per una scala, egli trova altri beati posti fra erbetta e alberi pieni di fiori e di frutta, carezzati da brezza e inframmezzati da sinuosi ruscelli, la cui sorgente egli poi trova nella parte più interna dell’altopiano.

Indossato un saio, il religioso raggiunge più in alto un meraviglioso palazzo, ricco di gemme preziose e inondato di luce, attorno al quale stanno altri beati. All’interno ha sede la Chiesa, con accanto il suo sposo. Migliaia di fanciulli vestiti di perle e coronati di gigli intonano con cetre canti melodiosi, che deliziano i beati. E di Dio, seduto sul trono, l’autore sottolinea l’ineffabilità, dicendo che supera l’acutezza dello sguardo e della mente: “De sedenti super sedem non est loqui facile / Superat non modo visus sed et mentis aciem”.

Circa la triplice ripartizione dei beati, l’autore ne definisce le singole caratteristiche e precisa i rispettivi colori, fornendone anche le valenze simboliche: verde, argento, oro. I tre gradi della beatitudine prevedono: in basso i credenti in Dio uno e trino, i quali hanno utilizzato il denaro per scopi leciti e hanno osservato le prescrizioni relative alla preghiera e alle opere pie; in mezzo i predicatori e testimoni del vangelo, i quali hanno edificato i fedeli; sulla sommità i contemplanti, i quali hanno disprezzato la gloria del mondo. In altre parole si potrebbe identificare queste categorie rispettivamente con i coniugati, i sacerdoti, i monaci. Quest’identificazione e la rispettiva collocazione in villaggi, sobborghi e centro urbano, ci portano al corpus della tavola XII del Liber figurarum e alla relativa esplicazione contenuta nei paragrafi XIV-XVI dell’Enchiridion super Apocalypsim, fondamentali opere gioachimite, con cui quindi si salda il poemetto in discussione. Questi elementi fanno sì che l’operetta si caratterizzi come autentica di Gioacchino da Fiore; e, se costui non la nominò nella sua lettera-testamento, ciò avvenne per l’esiguità d’essa: praticamente perché egli stesso le attribuiva scarsa importanza quale opera di pensiero, rispetto alle poderose e fondamentali opere lì elencate.

L’autore conclude il poemetto dicendo che la trina schiera dei beati canta eterne lodi al Trino Dio: “Trino Deo trina turba electorum carmina / Modulantur et exultant per aeterna saecula / Amen”.

Circa il pensiero, sono numerosi i richiami alle altre opere dell’abate, sicché non sfugge l’unicità della mente ideatrice: basti considerare appunto la collocazione dei beati in tre ordini, rispondenti a tre zone abitative dell’ideale Gerusalemme celeste. Circa i rapporti con Dante, è facile riscontrare analogie con l’Inferno: l’angoscia del peccatore smarrito, il tentativo di risalire la china del peccato, gl’impedimenti delle fiere, il fiume infernale del castigo. Invece manca il purgatorio; e su una montagna simile a quella su cui Dante collocherà il purgatorio qui è collocato il paradiso, il quale in alcuni passi ci ricorda piuttosto certi elementi danteschi del nobile castello del limbo e/o del paradiso terrestre.

In conclusione questo poemetto di Gioacchino da Fiore aiuta a conoscere meglio i due autori a confronto.


La chiesa e gli ebrei: Dante e Gioacchino da Fiore

Nel canto VI del Paradiso, vv. 91-93, Dante fa dire dall’imperatore Giustiniano che fra le sue imprese l’aquila imperiale compì anche “la vendetta della vendetta del peccato antico”, cioè la distruzione di Gerusalemme (che avvenne nel 70 ad opera dell’imperatore Tito), intesa come vendetta della crocifissione di Cristo, a sua volta con il proprio sacrificio vendicatore (= “redentore”) del peccato originale; e nel successivo canto VII, vv. 19-120, fa ampiamente spiegare da Beatrice perché fosse giusta punizione degli ebrei la distruzione di Gerusalemme: se la crocefissione di Cristo era inevitabile per la salvezza dell’uomo e perciò decisa da Dio, tuttavia coloro che l’attuarono nella loro libertà si macchiarono di deicidio e quindi, dovendo l’intero popolo ebraico essere punito, è giusta vendetta divina la distruzione di Gerusalemme.

È questo il ragionamento di Beatrice e Dante; ed è questa l’idea del deicidio attribuito a tutto il popolo, un’idea per troppo tempo presente nel pensiero della Chiesa cattolica, portatrice attraverso i millenni d’un costante atteggiamento d’antigiudaismo ed antisemitismo. È vero che recentemente gli scrittori ecclesiastici hanno fatto distinzione fra antigiudaismo (in senso religioso) ed antisemitismo (in senso sociale e politico), incolpando la Chiesa solo del primo atteggiamento; ma a ben guardare, la differenza è minima o nulla, e ad ogni modo gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.

Gli anziani d’una certa età ricordano ancora la solenne preghiera che per secoli si è cantata e recitata nelle chiese il venerdì santo (giorno di commemorazione dell’uccisione di Cristo), quella che cominciava con le parole “Oremus et pro perfidis Judaeis...”, seguita da un recitativo in cui si ribadisce quella Judaicam perfidiam: che dice tutto. Fu sotto il pontificato di Giovanni XXIII che si riformò la preghiera, eliminando il concetto della perfidia: tale preghiera, divenuta poi una formula esclusivamente religiosa e non più accusatoria, e quindi senza più nulla della secolare ostilità, si limita ad auspicare che gli ebrei riconoscano in Cristo il messia e si convertano al cristianesimo. Che poi il pregare da parte dei cristiani per la conversione degli ebrei al cristianesimo possa costituire un’offesa per il popolo ebraico, come lamentava tempo addietro qualche esponente dell’ebraismo, è un’idea assurda: ognuno, se prega per ciò che secondo la propria coscienza è un bene, è libero di pregare per chi vuole, restando al destinatario delle preghiere la facoltà d’accoglierle o no.

Circa la bimillenaria ostilità della Chiesa contro gli ebrei, della quale recentemente il pontefice Giovanni Paolo II ha pubblicamente chiesto perdono, è opportuno fare un passo indietro.

In Ez 2, 2-3 Dio assegna al profeta la missione da compiere fra i figli d’Israele e lo avverte che deve andare fra gente dura, ostile, incredula: “Sì, ti sono ostili, sono spine, siedi su scorpioni: ma non aver paura delle loro parole e non abbatterti di fronte a loro, perché sono una casa ribelle.” (La Bibbia, Edizioni Paoline, 1987, pag. 1333)

Naturalmente il riferimento è non agli innocui scorpioni europei, ma a quelli dei deserti asiatici, portatori di veleni mortali.

Così, dunque, gli ebrei, increduli che non riconoscono il profeta e non ne accettano le sue parole, sono paragonati a tali scorpioni. Da questo passo, enfatizzato da esegeti e biblisti, deriva la tradizionale equazione “ebreo = scorpione”, che poi entra anche nell’iconografia sacra. Uno scorpione è spesso rappresentato nei quadri della Crocefissione, nello stendardo degli ebrei, in certe cene con Cristo: ad esempio il pittore tedesco Albrecth Dürer (1471-1528) lo dipinse sulla tovaglia della Cena in Emmaus, perché i due discepoli di Cristo erano restii a credere. E siccome il veleno dello scorpione era giallo, una bolla papale impose che tutti gli ebrei residenti fra i cristiani dovessero portare nel loro vestiario un’insegna di color giallo per essere identificati: anticipazione del doppio triangolo giallo (stella di Davide) dei campi di concentramento nazisti.

Nei vangeli c’è poi l’annuncio da parte di Gesù della prossima distruzione di Gerusalemme e della diàspora come punizione dell’intero popolo per aver ucciso i profeti, non aver riconosciuto il messia e non averne ascoltato le sue parole: Mt 24 1-2, Mc 13 1-2, Lc 19 41-44. Allora la città sarà assediata e d’essa, compreso il tempio, non resterà pietra su pietra che non sia diroccata.

Da ciò, dunque, derivò il plurisecolare atteggiamento di disprezzo ed emarginazione da parte della Chiesa nei confronti degli ebrei, poi fiancheggiata dalle autorità civili. Dappertutto gli ebrei furono nel migliore dei casi emarginati e denigrati: nelle varie città europee essi dovevano stare in appositi quartieri isolati, che poi da quello di Venezia furono detti “ghetti”, con precisi orari d’uscita e rientro. A Venezia, infatti, nel sec. XVI essi furono confinati nell’isoletta detta “ghet” o “gheto” per il fatto che in essa vi era una fonderia o getto.

A Roma il venerdì santo essi venivano radunati e costretti a sentire una predica sull’uccisione di Cristo davanti ad un grande Crocefisso (e la maggior parte di loro nascostamente si tappava le orecchie con della cera). Inoltre lo storico Smith scrive che durante la Repubblica romana del 1849, mentre con uno dei primi provvedimenti il governo di cui faceva parte il Mazzini aveva reso liberi tutti gli ebrei, il restaurato governo pontificio, nel ripristinare la tortura e la ghigliottina per gli altri cittadini, costrinse gli ebrei stessi a tornare confinati nei ghetti. (D. Mack Smith, Mazzini, Rizzoli, Milano, 1993, pag. 108)

In Sicilia gli ebrei giunsero nel sec. I, poco dopo la distruzione di Gerusalemme, e a Catania verso la fine del sec. II. Altre città in cui s’insediarono furono: Siracusa, Agrigento, Messina, Palermo, Trapani, Marsala, ecc. Essi introdussero certe stoffe e pietre colorate, vetri colorati, gioielli elaborati, la pianta del cedro e l’usanza d’abbrustolire i ceci, in dialetto detta “càlia”. L’accoglienza delle popolazioni locali era stata buona per qualche secolo, ma poi fu il radicalismo del clero a suscitare atteggiamenti d’ostilità. In varie località della Sicilia gli ebrei la notte di Natale venivano costretti a recarsi in chiesa e, se al “Gloria” non s’inginocchiavano per riconoscere il messia, venivano immediatamente espulsi con calci ed altre violenze, tanto che il re Martino il Vecchio nel 1399 proibì categoricamente tali violenze natalizie nei confronti degli ebrei con un provvedimento che fu confermato dai successivi sovrani. Ma a San Fratello (ME) fino a qualche anno fa il venerdì santo si svolgeva una processione nel corso della quale i figuranti travestiti da ebrei venivano insultati e linciati, tanto che poi è intervenuta l’ambasciata d’Israele per far cessare questa tradizione.

Il disprezzo era dovuto anche all’attività svolta dagli ebrei, solitamente ricchi usurai, ai quali i cristiani erano costretti a ricorrere per i loro prestiti.

Certamente la Chiesa non approvò lo sterminio degli ebrei, né ha alcuna responsabilità diretta in ciò; ma il plurisecolare radicalismo ecclesiastico d’ostilità, che provocò un antigiudaismo di massa da parte delle popolazioni europee, non poté non influire sulla soluzione finale. Basti ricordare che per la Chiesa gli ebrei, fra l’altro ritenuti portatori d’idee moderniste e promotori d’eresie, non dovevano uscire mai dai ghetti in cui erano confinati e non potevano acquisire né la cittadinanza degli Stati italiani né i diritti civili, perché considerati “stranieri”. Ciò ovviamente favoriva la loro persecuzione.

Fortunatamente essa, facile dispensatrice di torture e roghi agli eretici, non poteva usare questi metodi punitivi contro gli ebrei, perché non aveva alcun potere sui non cattolici e poi perché in fondo li considerava con un certo rispetto, essendo essi fratelli maggiori e credenti nel Dio unico da loro stessi fatto conoscere ai cristiani tramite la parte comune dei libri sacri; però il disprezzo accumulato nei secoli e motivi d’interesse economico (per impossessarsi delle ingenti ricchezze degli ebrei) durante il fascismo e il nazismo produssero i nefasti effetti della farsesca teoria dell’“arianesimo”, delle leggi razziali, dei campi di concentramento e sterminio, dell’Olocausto. Un campo di concentramento fu anche in Italia, a Trieste, nella risiera di San Sabba.

E invece, altro che razza inferiore: gli ebrei sono stati il primo popolo a concepire un Dio unico e a farlo conoscere a tutto l’Occidente, che su tale fede e sulla Bibbia poi ha impostato la sua civiltà.

A differenza di quanto si possa pensare, invece, il dittatore spagnolo Franco non solo protesse gli ebrei, ma chiese a Hitler e a Mussolini di smettere la persecuzione contro di loro: ciò risulta dai documenti dell’ambasciatore italiano a Madrid, Giacomo Paolucci di Calboli, su cui poi s’è basato il noto film “Perlasca” che tale protezione ha evidenziato.

E purtroppo, dopo l’istituzione del moderno Stato d’Israele, è subentrato l’insanabile dissidio fra ebrei e palestinesi, che tanti gravi lutti giornalmente procura con feroci atti di terrorismo e rappresaglia.

Recenti studi hanno preso in esame il comportamento della Chiesa nei confronti degli ebrei a partire dall’“Editto sopra gli ebrei” di Pio VI (1775), passando per Leone XII (primo Ottocento), Benedetto XV e Pio XI (primo Novecento), il quale ultimo tentò di condannare l’antisemitismo. C’è poi il discusso silenzio di Pio XII, durante il cui papato però molti ebrei trovarono sicuro rifugio e mantenimento in Vaticano, tanto che i nazisti minacciarono d’occupare militarmente il piccolo Stato e di trasferire il papa in Germania. Ma è con Giovanni XXIII che viene superata la fase critica dell’antigiudaismo; e con Giovanni Paolo II si arriva alla pubblica richiesta di perdono per le colpe della Chiesa nei confronti degli ebrei.

Nel campo degli scrittori ecclesiastici del Medio Evo è particolare la posizione di Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202) espressa nella sua opera intitolata Adversus Judaeos. Già il titolo stesso, che istintivamente sarebbe tradotto “Contro gli ebrei”, ad un’attenta lettura si rivela invece da tradurre “Agli ebrei”: infatti l’opera è un exortatorium, una lunga esortazione alla conversione. L’autore, che dava molta importanza alle parole di S. Paolo sulla salvezza d’Israele (Rm 11 25-26), rifuggendo dai luoghi comuni dell’odio e del disprezzo del popolo ebraico a causa del deicidio, si rivolge agli ebrei con paterna sollecitudine, auspicando una loro rapida conversione ai fini dell’attuazione del regno di Dio, pur sapendo che tale conversione di fatto signicherebbe l’avvicinarsi della fine del mondo e del giudizio universale: infatti egli ha profetizzato una Terza Età (detta dello Spirito Santo, dopo quelle del Padre e del Figlio), un’età di rinnovamento della Chiesa e della società col ritorno alla povertà e semplicità delle origini, per la cui attuazione è necessaria la conversione degli ebrei, ch’egli sente prossima e vede come tempo di consolazione. Perciò egli ritiene che il regno di Dio senza gli ebrei sarebbe monco, avendo bisogno di due gambe per una regolare andatura, e cerca non nella teologia le proposizioni condannanti gli ebrei, ma nell’Antico Testamento i passi contenenti certi dogmi cristiani. Infine egli, ricorrendo alla parabola del figliol prodigo che appena ritornato fu accolto con grandi onori, invita gli ebrei ad accogliere “ilari” il suo invito.

La posizione di Gioacchino da Fiore appare di sorprendente attualità oggi in cui sembrano definitivamente superati gli storici steccati. Probabilmente essa fino a ieri appariva stonata e contribuiva a quell’emarginazione di cui lo stesso Gioacchino fu vittima per quasi otto secoli. Ma nell’ottavo centenario della morte di quello che Dante (Par. XII 140-141) chiamò “il calabrese abate Gio(v)acchino / di spirito profetico dotato” essa depone a favore di lui e può contribuire al felice esito del processo di canonizzazione di questo beato popolare: perché, ora che agli ebrei è stato chiesto perdono, anche a Gioacchino si deve chiederlo.


Petrarca, Laura e l'umanesimo

Quando si riteneva che la durata della vita media fosse di 70 anni (e si ricordi il dantesco “mezzo del cammin di nostra vita”) Francesco Petrarca ebbe la ventura d’avere la completezza di vita: dal 20 luglio 1304 al 19 luglio 1374.

Trovatosi a vivere a cavallo fra l’Alighieri e il Boccaccio, il Petrarca fu un intermediario fra cielo e terra. Le grandi lotte fiorentine fra ghibellini e guelfi e fra bianchi e neri non lo riguardarono che indirettamente: fu perché il padre (guelfo bianco) era andato in esilio ad Arezzo che egli nacque in questa città, ma ebbe da Firenze i genitori e la lingua. E giustamente il Foscolo, quando si rivolse a Firenze, fra l’altro le disse: “e tu i cari parenti e l’idïoma / desti a quel dolce di Calliope labbro / che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma / d’un velo candidissimo adornando / rendea nel grembo a Venere Celeste” (Dei Sepolcri, 175-179). Insomma, per il Foscolo il Petrarca fu la bocca stessa della poesia e ricoprì con un candidissimo velo di pudore l’amore sensuale dei poeti greci e romani per restituirlo alla Venere Celeste, metafora dell’amore spirituale di Platone.

Ma più che ad Arezzo la formazione del Petrarca avvenne ad Avignone (dove la famiglia, grazie alle conoscenze del padre, che poi ebbe un incarico in Curia, si trasferì nel 1312, tre anni dopo il trasferimento della Sede Apostolica) e a Bologna, pur con tappe a Pisa e in altre località, come Carpentras (dove alloggiava il padre) e Montpellier (dove aveva cominciato gli studi universitari). A Bologna, studiando giurisprudenza, egli venne a contatto con un ambiente impregnato di classicità, che lo stimolò a diventare lui stesso poeta classico. E alla morte del padre, quando poco mancava alla laurea, abbandonò Bologna per rientrare ad Avignone, stabilendosi poi nella quieta Valchiusa, lambita dalle poetiche “chiare, fresche e dolci acque” del fiume Sorga. Non si sposò mai, ma ebbe due figli e una nipote. Nella Curia fu chierico con ordini minori che non lo obbligavano a gravosi impegni ecclesiastici; anzi gl’impegni diplomatici, come servizi cavallereschi, ambascerie e missioni varie, gli consentirono d’avere benefici economici e di dedicarsi alla sua passione preferita: l’otium letterario, che egli considerò la più alta espressione di vita pratica.

Perciò il Petrarca intese la letteratura non solo come ornamento intellettuale, ma come misura della propria vita e di quella degli altri: per conformare ad essa la sua vita e valutare l’altrui. In tale visione rientra la scelta della solitudine, che, al di là d’influenze ascetiche, risultava la condizione esistenziale più idonea all’attività letteraria.

Ricerca e scoperta di codici, analisi filologiche, imitazioni dei classici fecero del Petrarca il primo umanista, quasi rinascimentale: e a lui si devono scoperte clamorose, come il De gloria di Cicerone, l’orazione Pro Archia dello stesso, le lettere Ad Atticum sempre dello stesso, alcune commedie di Terenzio e parte delle Institutiones di Quintiliano. Praticamente il Petrarca fu l’inventore della filologia come noi oggi la intendiamo. I viaggi e gl’incontri con persone importanti, quali il re di Napoli Roberto d’Angiò, fecero sì che egli, dopo aver rifiutato l’analoga occasione offertagli a Parigi, nel 1341 in Campidoglio ottenesse quello che Dante non aveva potuto mai avere nel suo bel battistero di San Giovanni: oltre alla cittadinanza romana, la laurea di poeta e storico, la quale non era ad honorem, bensì un’abilitazione alla docenza universitaria: e fu una cosa tanto importante per lui che la citò sulla copertina dei suoi Rerum vulgarium fragmenta, definendosi “poeta laureato”.

Noi siamo abituati a considerare il Petrarca come grande poeta lirico, che grazie alla vicenda di Laura ci ha lasciato un Canzoniere imitato per secoli da uno stuolo di petrarchisti d’ogni dove. Le sue Rime sparse, che lui aveva meglio intitolato Rerum vulgarium fragmenta, e i Trionfi in vita e in morte di Madonna Laura sono l’espressione d’un inguaribile tormento interiore che ha sfidato i secoli, configurandosi tuttora come grande poesia dell’Italia. Eppure per lui questa produzione altro non erano che nugae. Per lui e per i suoi contemporanei la sua grandezza consisteva invece nelle opere in lingua latina: il De viris illustribus, la poderosa Africa, l’agostiniano Secretum ovvero De secretu conflictu curarum mearum, i Rerum memorandarum libri, il De vita solitaria, il De ocio religioso, il Bucolicum carmen, i Psalmi penitentiales, il De remediis utriusque fortunae, l’Itinerarium Syriacum, il De sui ipsius et multorum ignorantia, lettere familiari e altro.

Non possiamo qui seguire il Petrarca nei suoi spostamenti in Italia e all’estero (Liegi, Roma, Parma, Napoli, Padova, Milano, Pavia, Praga, Parigi, Venezia, Arquà) né nei suoi entusiasmi politici per Cola di Rienzo, il quale nelle aspettative di molti avrebbe potuto riunire l’Italia e ricostituire l’antica repubblica romana: ricordiamo soltanto l’idea di fondare coi suoi libri, fra cui centinaia di codici poi in realtà andati dispersi, una “biblioteca pubblica” (da lui così definita) presso la basilica di S. Marco di Venezia (praticamente l’attuale biblioteca Marciana, che poi a lui ha dedicato la sua principale sala) e l’affettuosa amicizia per il Boccaccio, si può dire da padre-maestro a figlio-allievo. La morte del Petrarca, al quale il Boccaccio, che era più giovane di nove anni, sopravvisse d’un solo anno, rappresentò per il sopravvissuto, già minato dai mali fisici, un’autentica iattura; e quest’amicizia spinse il Petrarca non solo ad alleviare la miseria del Boccaccio col dono di qualche buon mantello accompagnato da qualche buona parola, ma soprattutto a salvare il Decameron che il suo autore voleva mandare al rogo a causa dei rimorsi, ma che il Petrarca salvò guardando al suo valore estetico e letterario, anche se lui stesso era in preda a continui ripensamenti e rimorsi. E ricordiamo la sua casa e la sua tomba ad Arquà (PD), oggetto di venerazione da parte di molti, ed in particolare del Foscolo, nonché la tomba della figlia Francesca nella chiesa di S. Francesco di Treviso, per uno strano caso vicina a quella d’un figlio di Dante, il giudice Pietro.

Dai titoli delle opere del Petrarca si capisce, infatti, che c’è in lui una commistione fra elementi classici, diciamo pure paganeggianti, ed elementi religiosi, tipicamente cristiani. In effetti il Petrarca è l’uomo dei contrasti: da un lato esalta la classicità, dall’altro s’abbevera al cristianesimo. In lui c’è l’aspirazione al cielo, ma è forte anche l’attrazione della terra. Il carattere ondeggiante del personaggio è già evidente nella cronaca dell’ascensione al monte Ventoso: un’ardente spiritualità frenata da consistenti richiami terreni. Ecco perché canta Laura, che è insieme cielo e terra. La Beatrice dantesca era tutta in cielo, un’eterea santa; la Fiammetta del Boccaccio sarà tutta in terra, una libertina; la Laura del Petrarca è sospesa fra terra e cielo, e perciò è una donna più concreta perché ben s’assommano in lei qualità materiali e spirituali, fisiche e morali.

Ma il tormento del Petrarca e la sua inquietudine anche nel continuo viaggiare, come riconobbe il Carducci, lo rendono poeta moderno. Circa il suo peregrinare, il Petrarca in una lettera familiare (I, 1) affermò d’aver errato più a lungo e più lontano d’Ulisse, col quale tuttavia non si paragonava, non avendone la celebrità d’imprese e di nome. E si può dire di più: il Petrarca, com’è il primo umanista, così è il primo romantico ante litteram, in ciò seguito da quell’altro spirito inquieto che fu il Tasso, a lui tanto simile nei conflitti interiori. Entrambi aspirano fortemente alla beatitudine del paradiso, ma spesso si ritrovano nella sofferenza del peccato e dell’inferno. E alla resa dei conti anelano alla misericordia di Dio, abbandonandosi a lui.

Il Canzoniere comprende 366 composizioni, fra cui 4 madrigali, 7 ballate, 9 sestine, 29 canzoni e per tutto il resto sonetti, i quali ultimi quindi ne formano il nerbo. Già il sonetto d’esordio “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono” è la chiave di lettura, cioè la sintesi di contenuto, forma e intenti moralistici dell’intera raccolta, che qui il poeta, traducendo il titolo latino, definisce rime sparse per il fatto che furono scritte in varie occasioni e poi riordinate secondo il filo logico che egli ha voluto dare:

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango e ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
e del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

Nell’incipit, dunque, egli si rivolge ai lettori, chiamati ad ascoltare il suono di quei sospiri di cui egli nutriva il suo cuore durante il suo giovanile smarrimento amoroso, quand’egli era in parte diverso da quello ch’è al momento di presentare l’opera; e spera di trovare pietà e perdono dello stile (incostante nella forma e nei sentimenti espressi, in cui piange e ragiona) presso tutti coloro che per esperienza sanno che cosa vuol dire essere innamorati. Egli stesso s’accorge che per gran tempo è stato oggetto di derisione fra la gente; e di ciò si vergogna; e questa vergogna è frutto dell’essersi dedicato a cose vane, del rimorso e del considerare “che quanto piace al mondo è breve sogno”. Così quella che avrebbe dovuto essere una rievocazione degli alti e bassi d’un amore si trasforma in una solenne meditazione religiosa, intesa ad infondere gravi sentimenti nei lettori.

Ma su tutto domina la facilità di verseggiare d’un poeta che sa unire la raffinatezza del lessico e la cesellatura dei versi alla sottesa musicalità. E da ora in poi il Canzoniere oscillerà fra descrizioni ed esaltazioni, rimpianti e rimorsi, pentimenti e ammaestramenti; mentre sulla stessa linea, con un’accentuazione dell’aspetto gnomico, si colloca il poema dei Trionfi nella sua sia pur macchinosa scansione di Amore, Castità, Morte, Fama, Tempo, Eternità.

Scorrendo il codice autografo (anche in edizione anastatica o fac-simile) o un’edizione integrale del Canzoniere come ad esempio quella (comprendente anche i 6 Trionfi) curata dal Leopardi, altro spirito inquieto vicino al Petrarca e ancor più al Tasso, troviamo ovviamente tante altre composizioni presenti nelle antologie scolastiche e rimaste famose, fra cui: “Movesi ’l vecchierel canuto e bianco”, “Solo e pensoso i più deserti campi”, “Nella stagion che ’l ciel rapido inchina”, “Benedetto sia ’l giorno e ’l mese e l’anno”, “Padre del ciel, dopo i perduti giorni”, “Chiare, fresche e dolci acque”, “Di pensier in pensier, di monte in monte”, “Pace non trovo e non ho da far guerra”, “Passa la nave mia colma d’oblio”, “Rapido fiume che d’alpestra vena”, “I dolci colli ov’io lasciai me stesso”, “Il mal mi preme e mi spaventa il peggio”, “O cameretta che già fosti un porto”, “La vita fugge e non s’arresta un’ora”, “Se lamentar augelli, o verdi fronde”, “Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente”, “Levommi il mio pensier in parte ov’era”, “Zefiro torna e ’l bel tempo rimena”, “I’ vo piangendo i miei passati tempi”, “Vago augelletto che cantando vai”, “Vergine bella che di sol vestita”, “Spirto gentil che quelle membra reggi”, “Piangete , donne, e con voi pianga Amore”, “Italia mia, benché ’l parlar sia indarno”.

Quest’ultima composizione ci ricorda il grande amore del Petrarca per l’Italia, della quale, come Dante, egli sentì l’unità nazionale e tracciò i confini: “Ben provvide Natura al nostro stato / Quando dell’Alpi schermo / Pose tra noi e la tedesca rabbia...”

A volte il poeta si diverte a giocare col nome di Laura: “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”, “L’aura celeste che ’n quel verde lauro”, “L’aura, che ’l verde”, “L’aura e l’odore”, “L’aura gentil”, “L’aura mia sacra”, “L’aura serena”, “L’aura soave”, “Là ver l’aurora, che sì dolce l’aura”, “l’aureo”. Come osserva il Contini, nell’espressione “l’aura” c’è “l’aura-parola” intesa come vocabolo allusivo alla persona in oggetto, “l’aura-immagine” di valore quasi figurativo e “l’aura situazione” come tema definito. Con questi giochi di parole il Petrarca ha creato allusioni e risonanze che accarezzano l’orecchio e la mente, ma soprattutto — sotto l’influsso del trobar clus dei poeti provenzali — ha creato il mito di Laura, che poi come nome è il femminile italiano della già femminile forma latina laurus, cioè “lauro, alloro”, pianta aromatica e corona “per triunfare o cesare o poeta” (Dante, Par. I 29) e poi per incoronare i sapienti e gli studenti che concludono gli studi universitari col conseguimento del titolo accademico, ma anche simbolo di vanità umana, compresa quella dello stesso autore che si gloriava della “(corona) laurea”: e la parola “laurea” ci riporta ancora a Laura, la cui presenza formale (cioè linguistica) e sostanziale è sottesa anche in passi del poema Africa. Perciò ai riferimenti classici s’uniscono elementi moralistici, trasformando il mito in un coacervo di profonda cultura e sensibilità.

La cultura del Petrarca, dunque, s’innesta con la vicenda di Laura, in onore della quale il Canzoniere è diviso in vita e in morte di Laura. Essa, fin da quando era in vita il poeta, da alcuni fu ritenuta immaginaria: il Boccaccio stesso pensava che essa potesse essere allegoria della (corona) laurea; ma per la pregnanza degli elementi realistici, e soprattutto per l’intensità dei sentimenti dell’amante, ora tende sempre più ad apparire concreta, identificata com’è stata con Laura de Noves, poi sposa d’Ugo de Sade (dal quale ebbe undici figli), precocemente morta per la peste del 1348. Certamente si può costruire un poema su un personaggio immaginario: ma non si può godere e tormentarsi come fa il Petrarca per una donna completamente finta, cioè un fantasma. Il fatale incontro del (presunto) venerdì santo 6 aprile 1327 nella chiesa di S. Chiara di Avignone sembrerebbe collocare il personaggio sulla scia della dantesca Beatrice: una donna angelicata, degna del dolce stil nuovo; ma a poco a poco, leggendo il Canzoniere, si scopre che Laura si connota anche di terrenità. Di lei il poeta non solo traccia i caratteri fisici, ma soprattutto mette in luce lo sconvolgimento che provoca nell’amante. Le sue forme, il suo portamento, il suo spirito: tutto è divino in lei. Quando lei è viva, è bella e rende ancor più bello ciò che per natura è già bello: alberi, fiori, uccelli, acqua, firmamento, paesaggio... E quand’è morta costituisce l’occasione per frequenti ritorni all’indietro e continui rimpianti, rimanendo dal poeta fissata in quello stupendo ritratto con “cavei d’oro a l’aura sparsi” ovvero nell’apoteosi della canzone “Chiare, fresche e dolci acque”:

Da’ be’ rami scendea
(dolce nella memoria)
una pioggia di fior sovra ’l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le trecce bionde,
ch’oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra, e qual su l’onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: qui regna Amore.

Il poeta, che non è stato ricambiato nel suo amore, idealizza la figura di Laura e s’affida alla poesia della memoria per evocare o costruire scenari suggestivi, in cui la persona umana (mitizzata e collocata in un nuovo paradiso terrestre, che è il regno d’Amore) costituisce l’oggetto d’una struggente nostalgia, che poi è la caratteristica di tutto il Canzoniere.

Egli allora va cercando in altre donne la desiderata forma vera di Laura: e nel far ciò si paragona al vecchierello che parte da lontano e, fragile com’è, si reca a Roma, a cercare di vedere la Veronica. Questa, tenendo impressa l’immagine del volto di Cristo, col suo stesso nome significa “vera icona”, cioè “vera immagine”. Già Dante in Vita nuova XL 1, nel relativo sonetto “Deh peregrini che pensosi andate” e in Par. XXXI 103-108 aveva parlato dei pellegrinaggi verso Roma in cerca della Veronica; e ora il Petrarca, riprendendo il tema nel sonetto “Movesi ’l vecchierel canuto e bianco”, sembrerebbe essere blasfemo per il fatto di voler paragonare il volto della gioiosa Laura a quello del sofferente Cristo, nonché i rispettivi pellegrinaggi d’amore. Tuttavia l’ardito accostamento si chiarisce tenendo conto della vita tormentata del poeta, delle sue fallite aspirazioni, del suo essere sospeso fra cielo e terra, tal quale e tutt’uno con la sua Laura. In sostanza l’irrangiungibilità di Laura è indizio d’un’inquietudine che, sconfinando dal profano, approda di diritto al sacro; e giocoforza i lineamenti somatici della donna si connotano della sacralità di quella via-verità-vita che Cristo rappresenta, quasi nella sublimazione della dantesca Beatrice.

Osserva il Foscolo: “Siamo indotti a pensare che in Laura ci fosse una bellezza sovrumana, se valse ad accendere l’immaginazione dell’amante a un tal grado d’entusiasmo da farla capace d’illusioni sì fantastiche, che ben ci chiariscono l’eccesso della passione: ma non possiamo dividere con lui tali estasi amatorie per beltà che né mai potemmo, né mai potremo rimirare.” E aggiunge che, mentre in Dante l’origine e la ragione della grande poesia si trovano nella persecuzione politica, nel Petrarca esse si trovano nell’amore.

Dal punto di vista strettamente letterario, dunque, Laura è uno dei personaggi più riusciti; e giustamente da lei è derivato il nome di molte donne, costituendo un filone nell’onomastica italiana: infatti tale nome contiene in sé alloro e gloria, fresco venticello e riflessi dorati, ed è portatore d’una storia che sa di cielo e di terra, di bellezza e di caducità, d’esaltazione e di delusione, di godimento e di tormento. Tale derivazione è più probabile di quella attribuibile a qualche santo o beato: san Lauro, martire illirico del sec. II (festa il 18 agosto), santa Laura, martire spagnola del sec. IX (festa il 19 ottobre) e una beata Laura Vicuna, bambina cilena morta a 13 anni nel sec. XX (festa il 22 gennaio).

E a distanza di sette secoli sono ancora molte le persone che si recano in Provenza alla ricerca dei luoghi petrarcheschi: a Valchiusa ritrovano la casa del Petrarca (oggi museo), la fonte della Sorga, lo scenario naturale e tutte le atmosfere da cui scaturirono profondi sentimenti e indimenticabili versi in onore di Laura.

Che poi la gatta imbalsamata ed esposta nella casa d’Arquà fosse stata per il poeta più cara di Laura perché teneva i topi lontani dai libri, ovviamente è una diceria, trattandosi di faceta invenzione di Girolamo Gabrielli, proprietario della casa stessa ai primi del Seicento.

Ma, oltre che rivolgersi alla produzione in volgare, l’attenzione degli studiosi ora è tornata al Petrarca classicista: nel settimo centenario della nascita non solo è stata rivisitata la sua tomba, con una ricognizione scientifica del cadavere, ma anche sono state rivisitate le sue opere in lingua latina e se ne sono scoperti nuovi suggestivi orizzonti. Ed è anche per il culto della lingua latina che il Petrarca è considerato a ragione il primo umanista d’Italia.

L’uso di tale lingua da parte del Petrarca ha motivazioni diverse da quelle di Dante, perché il Petrarca voleva ridare al latino la vera classicità ormai tramontata, riportandolo allo splendore d’un tempo. Ciò naturalmente comportava un’opera di restauro, con sacrificio a volte della comprensibilità immediata cercata dai contemporanei. Il Petrarca vide nel latino la lingua della sua più genuina espressione artistica e perciò per quanto riguarda la prosa non produsse alcunché in volgare, tranne una lettera, mentre produsse abbondante prosa e poesia in latino, e perfino le note al Canzoniere (oltre che la traduzione di qualche novella del Boccaccio): un latino più ricco, più raffinato e più complesso rispetto a quello di Dante, anche se non piacque del tutto ai suoi immediati posteri, perché non scevro di medievalismi. Ma proprio per tale latino egli s’aspettava ed ebbe la gloria letteraria, anche se non conobbe la popolarità di Dante, il quale era noto e diffuso non solo nelle scuole e nelle chiese, ma anche nelle osterie, nelle botteghe e nei mercati, con una popolarità-simpatia davvero eccezionale per tutti i tempi pur fra le evidenti difficoltà di comprensione della Commedia da parte del popolino.

Il riferimento principale del Petrarca al mondo classico è rappresentato dal suo poema Africa, un’opera che vuole esaltare la Roma repubblicana seguendo quali modelli Cicerone, Virgilio e Livio e che rimase incompiuta al nono libro probabilmente perché l’autore non aveva la capacità narrativa per arrivare ai dodici libri dell’Eneide, con la quale peraltro tentava di gareggiare. L’Africa, per la quale l’autore aveva dovuto dotarsi d’una vasta preparazione storica, mostra scarse valenze epiche, perché il Petrarca, poco adatto all’epica, non è riuscito ad imprimere il necessario vigore alla pur sempre affascinante avventura di Scipione l’Africano (ripresa dal Somnium Scipionis di Cicerone); ma più consistenti sono le valenze liriche (quasi alla stregua del Canzoniere) nelle vicende amorose di personaggi come la celebrata Sofonisba, le cui fattezze fisiche e le cui movenze riprendono il mito di Laura, perfino nel ritorno di vocaboli come “auro” / “aura” / “aurea”. Soprattutto si nota la prevalenza degli aspetti formali su quelli contenutistici, data l’elevatezza dello stile e l’armonia del metro, ottenuta negli esametri dattilici:

Ille nec ethereis unquam superandus ab astris
nec phebea foret veritus certamina vultus
iudice sub iusto. Stabat candore nivali
frons alto miranda Iovi, multumque sorori
zelotipe metuenda magis quam pellicis ulla
forma viro dilecta vago. Fulgentior auro
quolibet, et solis radiis factura pudorem,
cesaries spargenda levi pendebat ab aura
colla super, recto que sensim lactea tractu
surgebant, humerosque agiles affusa tegebat
tunc, olim substricta auro certamine blando
et placidis implexa modis: sic candida dulcis
cum croceis iungebat honos, mixtoque colori
aurea condensi cessissent vascula lactis,
nixque iugis radio solis conspecta sereni.

(V 20-34)

Indubbiamente la traduzione attenua notevolmente il valore della classicità; ma in questo caso è necessaria per rendersi conto delle analogie anche lessicali: “Quel volto non sarebbe stato vinto dagli astri celesti né avrebbe temuto confronti con Febo ad un giusto giudizio. Era d’un candore niveo la fronte che sarebbe stata ammirata dall’alto Giove e temuta dalla gelosa sorella (Giunone) molto di più di qualsiasi altra formosa concubina amata da quel suo infedele marito. Più fulgida di qualsiasi oro, e capace di suscitare pudore nei raggi del sole, la sua capigliatura pendeva libera all’aura sopra il collo, che bianco come il latte s’ergeva gradatamente in linea retta, e ora copriva diffusamente gli agili omeri, mentre un tempo era annodata con oro in piacevole intreccio e avvolta in morbidi modi: così il delicato ornamento univa il bianco al giallo, e alla bellezza di quest’abbinamento di colori avrebbero ceduto gli aurei vasetti pieni di latte e la neve perenne colpita dal raggio del sole sereno.” Così lo spirito di Laura, oltre che nel Canzoniere e nei Trionfi, aleggia anche nell’Africa, quasi per un incantesimo da parte di lei.

In quest’opera viene profetizzata l’ascesa d’un giovane toscano di nome Francesco, che rinnoverà la fama di Scipione e col suo canto richiamerà le muse dall’esilio: evidente allusione dell’autore a sé stesso, che secondo la tradizione poi spirò col capo sopra l’amato testo dell’Eneide.

Così pure risultano tuttora interessanti, anche per la chiarezza del dettato, le sue opere di meditazione religiosa, data l’inquietudine dello spirito umano, perennemente alla ricerca del perché della vita e del suo destino, nonché le sue molte lettere che oscillano fra la riflessione e il dialogo e hanno momenti di misticismo, arrivando a volte a divenire quasi dei trattati morali, mentre l’ultima d’esse, indirizzata ai posteri, traccia l’autobiografia del poeta.

Seguendo l’indicazione di Lovato de’ Lovati (Padova 1241-1309) e d’Albertino da Mussato (Padova 1261-Chioggia 1329), l’umanesimo del Petrarca s’estrinsecò anche nell’andare in cerca durante i suoi viaggi delle tracce della romanità classica, piuttosto che di quella medievale, nell’indirizzare lettere a personaggi dell’antichità e nel raccogliere intorno a sé negli ultimi anni un cenacolo d’amici devoti, che chiamava con nomi classicheggianti quali Socrate e Lelio, come essi chiamavano lui Cicerone: con loro svolgeva dialoghi impostati sulla cultura classica ed essi collaboravano con lui “in umanesimo”, cioè nei suoi studi e nelle sue ricerche tese a quel sapere capace d’arricchire l’uomo di vera umanità. In questo spirito, perfino la figlia Francesca fu da lui ciceronianamente ribattezzata Tullia.

Egli stesso nella lettera ai posteri confessò che avrebbe voluto essere nato nel tempo passato e che cercava di dimenticare il presente vivendo con l’animo in mezzo agli antichi. Perciò si mise a scrivere in latino: come Cicerone trattati ed epistole, come Orazio epistole metriche, come Livio e Virgilio un poema storico-epico. E giunse a voler imparare il greco, anche se riteneva superiori gli scrittori latini.

Per lui, che avvertì profondamente un nuovo senso dell’humanitas classica, il mondo classico-pagano riscoperto e studiato non era in antitesi col mondo medievale-cristiano e col suo messaggio, anzi esso — come osserva il Petronio — “è, innanzi tutto, una fase di civiltà e di saggezza a cui egli si accosta e si abbandona con un moto di intimità affettuosa che ha pochi altri esempi nella storia... Si direbbe che egli, pur affermando con forza la propria fede cristiana, tuttavia avverta in quei grandi pagani una forza di umanità che glieli fa — se integrata con la fede — modelli di vita”. In sostanza non sono i prodromi della saggezza cristiana che lui ritrova nel mondo classico, come s’era fatto nel medioevo, ma ciò che prospetta è una specie di santità laica, secondo i modelli di vita degli autori classici che egli ammira; e, mentre disprezza la dialettica e lo studio della natura, propone una cultura intrisa della psicologia e dell’eloquenza apprese dai classici e protesa al buon agire cristiano. Ecco perché ad Aristotele preferisce Platone, Cicerone, Seneca e S. Agostino. Ed è per questo motivo che nell’atto stipulato fra il Petrarca e la Repubblica di Venezia circa la donazione dei libri in cambio d’una casa sul Canal Grande non viene più usato per il poeta il titolo di “storico”, già a lui conferito in Campidoglio con la laurea per il poema storico-epico Africa, bensì quello di “filosofo”, cioè maestro di vita, persona che ha acquistato saggezza con la frequentazione degli autori classici.

E — come osserva l’Asor Rosa — i modelli imitabili suggeriti dal Petrarca erano correlati “alla precisa intenzione di far corrispondere tali modelli alla mutata natura e funzione dell’intellettuale contemporaneo... Solo più tardi l’exemplum fornito dal Petrarca con la sua vita e le sue opere sarà apprezzato (in Italia e nel resto dell’Europa) come norma di un completo comportamento intellettuale... Egli rivendica alla letteratura e alla poesia, intese come professioni esclusive e specialistiche, una profonda ed essenziale funzione sociale; egli cioè non si limita ad affermare il diritto privato di fare degli studi letterari lo scopo e l’interesse unico di un’intera esistenza... egli arriva ad imporre, con il prestigio della propria opera, il riconoscimento istituzionale che la letteratura e la poesia in quanto tali sono arti utili alla società... L’intellettuale come lo concepisce il Petrarca, non trova più la sua funzione sociale nel farsi mediatore ed interprete di alcune fra le posizioni politiche e ideologiche già costituite, ma nel mettere la sua competenza culturale al servizio del bene comune.” E la restaurazione dei classici corrisponde in lui al desiderio di rendere la cultura autonoma dalla tradizione ecclesiastica e religiosa, dato che fino ad allora la Chiesa sembrava avere il monopolio della cultura stessa: all’intellettuale cristiano del Medioevo il Petrarca contrappone l’intellettuale laico dell’Età Moderna.

A sua volta il Contini, richiamato il plurilinguismo di Dante (intendendo con questo non solo la convivenza di latino e volgare, ma anche la poliglottia degli stili e dei generi letterari, che, con pluralità di toni e di strati lessicali, è capace d’offrire al lettore insieme il linguaggio del sublime e quello della quotidianità, in una ricerca continua di sperimentazione), concentra l’attenzione sull’unilinguismo del Petrarca, che dà “unità di tono e di lessico, in particolare, benché non esclusivamente, nel volgare. Questa unificazione si compie lungi dagli estremi, ma lontano anche dalla base, sopra la base, naturale, strumentale, meramente funzionale e comunicativa e pratica.” Ed è evidente che si vuole esaltare la fondamentale uniformità stilistica del Petrarca, pur fra le minime differenze formali.

In conclusione, si può affermare che le due grandi passioni del Petrarca furono Laura e l’umanesimo, cioè la poesia e la classicità: perciò la conoscenza di quest’autore è maggiormente importante in un periodo — come il nostro — di decadenza degli studi umanistici, alla rivalutazione dei quali egli col suo peso letterario può certamente contribuire.

Bisogna ricordare sempre che al centro dell’umanesimo c’è l’uomo con tutta la sua problematica esistenziale, spirituale, culturale, sociale; e quindi non è da sottovalutare l’opportunità della rivalutazione del Petrarca classicista nella culla dell’umanesimo, perché si spera che almeno un’eco d’essa possa arrivare nella scuola italiana, oggi affascinata dal culto del tecnicismo e degl’idoli di matrice anglo-americana, ma deplorevolmente dimentica della sua originaria vocazione umanistica.


Boccaccio, Lisabetta e la poesia popolare

Nella quarta giornata del Decameron il Boccaccio introduce una delicata figura di donna, così lontana e diversa dalle altre dello stesso scrittore e degna di essere inquadrata nel clima del periodo romantico: Lisabetta da Messina, cui è dedicata la quinta novella. In questa novella lo scrittore è lontano dai toni realistici, borghesi e giocosi che abbondano nelle altre novelle e si può dire che anticipi quei toni malinconici e lugubri che saranno tipici del movimento preromantico.

Narra, dunque, il Boccaccio che a Messina la giovane Lisabetta, fortemente innamorata del garzone dei suoi fratelli, Lorenzo, gli si dona; ma quando i fratelli (che, pur essendo figli di padre toscano, hanno evidentemente acquisito il modo di pensare e di fare di certi siciliani) si accorgono di questa relazione, uccidono il garzone e ne sotterrano il cadavere in maniera insospettabile. Soltanto Lisabetta, dopo essere stata in ansia per giorni e giorni a causa dell'assenza del suo amato, scopre in sogno l'assassinio e il luogo del sotterramento; quindi, recatasi colà nella massima riservatezza e in compagnia di una donna fidata, non potendo portare con sé 1'intero cadavere dell'amato, gli recide la testa e se la porta a casa, dove la nasconde in un vaso di basilico. Da questo momento i suoi giorni passano a piangere sul basilico e a carezzare il vaso. Ma i fratelli, che hanno notato la stranezza di tale comportamento, fanno sparire quel vaso, di cui hanno scoperto il vero contenuto: sicché la poveretta, disperata, se ne muore; e dalla sua vicenda ha origine una triste canzone popolare.

Ammirevoli sono in Lisabetta il sentimento che la lega al suo Lorenzo e la devozione che essa ha per la memoria di lui. Essa è delicata nel suo fare, ma anche energica e coraggiosa; e costituisce uno dei personaggi meglio riusciti della nostra letteratura.

Che ci si trovi in presenza di una novella molto diversa dalle altre del Boccaccio, lo si nota anche dal modo semplice, sbrigativo e pudico, senza insistenze o allusioni, con cui lo scrittore parla dell'amore dei due giovani. Non c'è corruzione, violenza o inganno da parte dell'uomo, né cedimento per debolezza da parte della donna: “… fecero di quello che più desiderava ciascuno”. Perciò si può dire — con un gioco di parole — che questa novella boccaccesca non ha nulla di… boccaccesco.

Invero Lisabetta è un personaggio romantico, che colpisce per il suo amore e per il suo dolore, per quel liquefarsi sul vaso del basilico e per la sua morte. Mai il Boccaccio ha costruito un personaggio simile a questo. Ma nella novella c'è anche qualcosa di lugubre e macabro, che ci fa ripensare ai gusti dei preromantici: il taglio della testa del cadavere e la sua conservazione nel vaso.

Ai romantici dell'Ottocento dové piacere questa figura di donna, abituati com'erano a ricercare e rifare storie medioevali in canzoni e ballate popolari. E che questa novella possa essere stata ricavata dalla poesia popolare, lo si deduce dalle parole dello stesso autore, il quale la conclude riportando i primi due versi di una canzone, che egli afferma essere nata dalla triste vicenda:

Qual esso fu lo malo Cristiano
che mi furò la grasta (?).

Stando alle parole del Boccaccio, dunque, la canzone sarebbe nata dalla vicenda; ma non pochi studiosi hanno supposto che essa sia nata dalla novella da lui scritta, sviluppando i due versi, che potrebbero essere stati inventati da lui stesso.

La questione, di per sé interessante perché investe i rapporti fra il Boccaccio e la poesia popolare, rimane tuttora irrisolta, essendo gli studiosi divisi in disparità di vedute. Ma sulla sua soluzione potrebbero influire alcuni fattori non trascurabili, quali la lunga permanenza del Boccaccio a Napoli e la sua buona conoscenza della poesia popolare.

Chi legge tutto il Decameron, anche la cosiddetta “cornice”, può benissimo accorgersi che le ballate conclusive delle varie giornate sono di stampo popolaresco, alcune certamente inventate dall'autore, ma altre prese dal popolo e semmai rifatte con una sfumatura tra idealistica e sensualistica: non è da dimenticare, infatti, che il Boccaccio rivela sempre la natura letteraria della sua arte.

Alla fine della quinta giornata Dioneo si diverte a proporre di cantare le canzoni più sboccate del tempo, fra cui quella che comincia con le parole “Questo mio nicchio, s'io nol picchio”. La parola nicchio nel senso esplicito di questa ballata (“organo genitale femminile”) è tipica e corrente nel dialetto messinese; e non è da escludere che essa o tutta la ballata sia stata appresa dal Boccaccio durante la sua permanenza nell'Italia Meridionale.

Lo stesso discorso vale per 1'ultima parola del primo dei due versi citati dal Boccaccio alla fine della novella di Lisabetta. Qui, però, il discorso si complica, perché, mentre il Boccaccio ha grasta (qualche edizione, forse rifacendosi al testo del Carducci, presenta erroneamente grasca), nei vari testi della canzone si leggono parole diverse, quali resta, gresta, testa e testo. Togliendo le prime due, che non hanno chiaro significato, testa alluderebbe alla testa tagliata e testo al vaso di terracotta. Testo, però, è una parola dotta, derivata dal latino e usata per lo più in Toscana; ma, se è vero che la triste vicenda si svolse a Messina, la lezione esatta non può essere che grasta o rasta, che nel dialetto siciliano indica precisamente un particolare vaso da fiori in terracotta. E qui, sorvolando sul verbo furò (che chiaramente significa “rubò, trafugò”), è il caso di precisare che in greco e tardo latino gastra significa “vaso panciuto”; poi in neogreco si ebbe glastra e in siciliano grasta o rasta ad indicare un tipico vaso da fiori.

La canzone appare pubblicata per la prima volta alla fine del Trecento; ma se ne conserva un'edizione del 1533 in una raccolta di Canzoni a ballo fiorentine, sia pure un po' diversa dal testo più noto, che è quello pubblicato dal Carducci nella raccolta Cantilene e ballate a cura di G. Carducci (Pisa, 1871).

Il testo del Carducci, come abbiamo visto, al primo verso ha la lezione grasca, a differenza di quelli del D'Ancona e dello Zingarelli, che hanno testa; ma probabilmente il Carducci, toscano, ignorava che nel dialetto siciliano esiste la parola grasta. Esso si compone di otto stanze, ognuna delle quali formata da sette versi, che sono a rima alternata, come pure alternata è la loro metrica (endecasillabi e ottonari). Il primo verso di ogni stanza è la ripetizione dell'ultimo della stanza precedente.

Come riconosce anche il D'Ancona (La poesia popolare italiana, Livorno, Giusti, 1906, pagg. 23-24 ), questa canzone presenta un ordito letterario intessuto su una precedente trama popolare. Questo significa che essa poté esistere in Sicilia prima della novella. È vero che il Boccaccio poté anche ricordarsi di Apuleio (Metamorfosi, VIII 8 e IX 31); ma la parola grasta, tipicamente siciliana, può contribuire alla soluzione della questione, testimoniando a favore della preesistenza della canzone in Sicilia.

Oltre a quelli citati, numerosi sono stati gli altri studiosi che hanno indagato sulla novella e sulla canzone. Fra loro è doveroso ricordare Vittore Branca, filologo specialista del Boccaccio delle università di Catania e Padova e poi segretario e infine presidente della fondazione “Cini” di Venezia, e Antonio Mazzarino, latinista dell’università di Messina e parlamentare, ma con interessi eclettici, che era fratello di Santo Mazzarino, storiografo delle università di Catania e Roma e accademico dei Lincei.

Il Mazzarino, indagando sul tipo di basilico di cui si parla nella canzone e nella novella, circa dieci anni dopo la pubblicazione della mia suddetta ipotesi di preesistenza della canzone in Sicilia, non soltanto ha confermato quest’ipotesi, ma ha aggiunto un ulteriore elemento. Nel suo dotto e corposo saggio intitolato Il basilico di Lisabetta da Messina (estratto da “Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina”, Herder, Roma, 2/1984), saggio che oscilla fra la filologia e l’erboristeria, egli passa in rassegna tutte le lezioni dell’aggettivo qualificativo di tale basilico esistenti in vari documenti anche stranieri; e, scartando sia l’ipotesi carducciana “selinuntano”, cioè basilico di Selinunte (TP), toponimo che a sua volta in greco significa “città del prezzemolo”, sia la lezione “salernetano” perché negli erbari non risulterebbe un basilico di tale nome, propende per la lezione silemontano o selimontano o selemontano, ma non nel senso di “basilico coltivato sui monti”, come sostenuto da altri, bensì come metafora di siler montanum = “sìlero di montagna”, che in latino denominava una pianta simile al basilico.

Per quanto riguarda, poi, la genesi della canzone e di tutta la vicenda narrata dal Boccaccio, il Mazzarino, riportando tutti i tipi di basilico elencati dall’arabo Ibn-Al-Awam (sec. XII) nel suo trattato Kit-al-Falahah secondo la suddivisione fatta dal trattatista suo concittadino Abou’l-Khaïr, sottolinea il tipo elencato al primo posto e detto “relativo al cranio o teschio” oppure “a forma di cranio o teschio”. Ciò induce lo studioso messinese a ipotizzare che il basilico di Lisabetta da Messina, con la relativa canzone e la novella del Boccaccio, sia “un fossile della presenza araba in Sicilia”. E questo è un elemento da non sottovalutare.


Goldoni e Verga

Si è detto fin troppo che Verga e il verismo introdussero nella letteratura italiana gli umili. Questo è vero fino ad un certo punto, cioè se si considera il ruolo preponderante che questi personaggi vennero ad assumere. Ma di umili nelle opere letterarie ce ne sono anche prima del Verga: Renzo, Lucia e altri personaggi manzoniani sono umili; umili in senso evangelico, se non in senso economico. E umili sono tanti personaggi delle commedie di Carlo Goldoni: servitori, gondolieri, pescatori, operai, donne del popolino. Ad onor del vero non sono soltanto questi i personaggi del Goldoni: ci sono anche esponenti della borghesia e meno frequentemente nobili; ma questi ultimi sono visti con ironia, mentre chiaramente va al popolo minuto la simpatia dell'autore.

Questo potrebbe stabilire un'affinità fra Goldoni e Verga; ma ci sono elementi più consistenti, situazioni analoghe, vicende, certa coralità narrativa, questioni linguistiche e note folcloristiche, che fanno del Goldoni, per vari aspetti, un precursore del Verga.

Una forte analogia c'è fra Le baruffe chiozzotte e I Malavoglia. Scritta più di un secolo prima di quella verghiana, 1'opera goldoniana si svolge a Chioggia, borgo marinaro come Aci Trezza. Lo scenario ha per fondale il mare, le barche, reti e altri attrezzi da pesca. Si parla di lavoro, di pesce, di scarsità di denaro per la maggioranza, mentre qualcuno (come l'incettatore Paron Vincenzo) si arricchisce alle spalle dei veri pescatori. Anche qui mancano i soldi per la dote, ma alla fine si rimedia.

I personaggi di questa commedia sono quindi i pescatori, le loro donne, un funzionario statale (che poi è lo stesso Goldoni di quando era vicecoadiutore della cancelleria criminale di Chioggia). La vicenda? Semplice: dura vita di pescatori che rischiano la pelle per buscarsi il necessario alla sopravvivenza propria e della famiglia; lunghe permanenze sul mare, lunghe attese sulla spiaggia, paure reciproche, il sospirato ritorno, abbracci, insinuazioni, pettegolezzi, litigi, tante baruffe per niente: per sospetti, per invidie, per gelosie, per ripicche, per vita da cortile. Le donne lavorano al tombolo, a fare merletti, chiacchierando; e intanto basta una parola a scatenare una violenta baruffa, in cui poi viene coinvolto tutto il paese. E buon per loro che c'è il coadiutore criminale (venuto da Venezia) a riportare la pace.

Come nei Malavoglia, vero protagonista della commedia è tutto il paese; i singoli agiscono nel gruppo, si fondono in esso. In definitiva è tutto il paese che pettegola, tutto che litiga, in una corale scena d'ambiente. Perciò è spiegabile la raccomandazione fatta al coadiutore in procinto di partire per Venezia di non credere che Chioggia sia un paese di litigiosi. E, guarda caso, ci sono anche qui due personaggi che si chiamano Paron Toni e Paron Fortunato, nomi che ritornano nei Malavoglia. E come nei Malavoglia ci sono anche qui dei soprannomi, l'uso dei quali a volte, come nel caso di Marmottina, può dar luogo a cattivi rapporti.

Vorremmo aggiungere qualcosa sulla lingua. L'uso del dialetto è certamente realistico. Il Verga non scrisse in dialetto, se no le sue opere sarebbero state capite solo in Sicilia. Il veneziano, invece, può essere capito anche fuori dal Veneto. Ma nelle Baruffe il Goldoni si rifà al dialetto chioggiotto, per superare le cui difficoltà di comprensione si serve di apposite spiegazioni. La lingua del Verga è coniata ad hoc da lui stesso, ripetendo strutture, moduli e cadenze dialettali: un modo, questo, di essere realista o meglio verista. I1 Verga si preoccupava del colore locale: ecco la ricerca di tradizioni, usi, costumi e proverbi. Nel Goldoni non si arriva a tanto, ma non mancano espressioni tipiche, qualche proverbio e accenni a tradizioni: il cogitore (coadiutore criminale), il lavoro del merlo (merletto al tombolo), la carpetta (gonnella da ragazza), il donzelon (abito delle ragazze da marito), la succa barucca (zucca vernina abbrustolita).

Vorremmo anche evidenziare la musicalità linguistica dovuta a certe ripetizioni e a riprese in diverse tonalià, operazione poi riuscita pure al Verga (chi non è rimasto incantato dalla melodia narrativa de I Malavoglia?).

Infine le spiegazioni che il Goldoni dà delle differenze fra veneziano e chioggiotto pongono il lavoro su un piano di ricerca linguistica. Questa ricerca in verita è costante in lui: qui occorre ricordare da una parte il suo impegno a trattare con fiorentini e senesi, "testi viventi della buona lingua"; dall'altra la vivezza dei suoi dialoghi, sempre linguisticamente consoni al mondo che esprimevano, dato che essi sono tuttora attuali.

È vero che opere letterarie ambientate in borghi marinari ce ne sono tante ed è vero che il Verga aveva altri intenti nello scrivere I Malavoglia e tutto il ciclo dei vinti. Né d'altra parte Le baruffe chiozzotte possiedono la drammaticità e il lirismo del capolavoro verghiano. Ma le coincidenze fra le due opere sono molte, perché possano essere definite casuali. I Malavoglia poterono benissimo avere un antecedente sia pure parziale nelle Baruffe: basta pensare a tante pagine simili, in particolare a quelle piene di pettegolezzi e litigi dominate dalla Zuppidda, dalla Vespa o dalla Santuzza. Del resto questa commedia divenne subito popolare e fu apprezzata da tutti gli strati della popolazione, anche nel Meridione d’Italia. Il Verga non poteva ignorarla, proprio perché fatto ricreativo e culturale troppo importante; e poi lo avvicinano al Goldoni la simpatia per il popolino e il contenuto sociale. Inoltre il Verga guardava con simpatia anche a Venezia e al Veneto: basta ricordare che il suo terzo romanzo s'intitola Sulle lagune, che è ambientato a Venezia e che in esso non mancano cenni di colore locale veneto.


La grande poesia del Leopardi

La canzone “A Silvia”

La canzone “A Silvia”, composta a Pisa nel 1828, è una delle più alte creazioni poetiche del Leopardi: essa, con “L'infinito” e con gli altri idilli, possiede il meglio del sentimento e dell'arte del grande recanatese. Pensare che Silvia non sia mai esistita è assurdo: tale è la partecipazione del poeta a questa rievocazione. D'altra parte, nuoce alla comprensione della lirica l'andare alla ricerca dell'esatta identità del personaggio. Probabilmente il poeta si è ispirato alla figura e alla vicenda di Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere del suo palazzo; ma ciò non ha importanza per chi va in cerca della poesia, la quale ha anche la caratteristica dell'indeterminatezza (storica, temporale, spaziale). Egli ha saputo trasfigurare tanto quella donna reale, a cui si è ispirato, da farne la donna ideale.

Il poeta comincia rivolgendosi direttamente a Silvia, quasi invitandola ad un colloquio amichevole, in un clima di familiarità. Ammesso che Silvia fosse la Fattorini, questo desiderio di familiarità e la manifestazione di sentimenti che il poeta afferma di aver provato per quella giovinetta non sono una finzione, non sono “arte” nel senso peggiore della parola: è vero che per le sue condizioni di ceto e di salute Giacomo non avrà mai nutrito pretese su di lei, né essa le avrebbe gradite; ma è anche vero che dopo la sofferenza e la morte della giovinetta, egli la sente più vicina al suo spirito, in quanto che anch'egli soffre e si sente quasi morto.

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale...

Rimembri e beltà, come più avanti veroni, ostello, sovviemmi e verno, che non sono parole della lingua corrente, servono a collocare la scena in un mondo remoto, e quindi più poetico. Il poeta sta parlando col fantasma di Silvia, da lui evocato: per questo può dire ancora, cioè “anche ora che sei morta”. L'aggettivo mortale, con cui è qualificata la vita, non sembri superfluo: anzi, esso ha un profondo significato nella filosofia leopardiana, e su di esso si deve calcare la voce. Tutti sappiamo che la vita è mortale: è vero; ma forse non riflettiamo bene su ciò che sia effettivamente la morte. Siamo convinti che essa sia qualcosa che riguardi soltanto gli altri, e non noi; e solo quando ci troviamo in sua presenza, quando perdiamo una persona cara o rischiamo di morire noi stessi, allora comprendiamo bene che la morte è una tragica realtà. E quindi, solo dopo che Silvia è morta, il poeta capisce meglio che la vita è mortale, e vuol farcene quasi un monito.

Se la bellezza di Silvia splendea, vuol dire che essa non morì tanto presto e che ebbe modo di essere ammirata. C'è tutta una logica nella scelta dei tempi verbali. L'imperfetto, che esprime la durata dell'azione o della condizione nel passato, colloca 1'azione o la condizione in un'epoca imprecisata e quindi conferisce maggior poeticità. Tenendo presente questa considerazione, si potranno comprendere e gustare meglio tutti gli altri imperfetti.

Silvia è definita lieta e pensosa. Non è una giovinetta spensierata, come le sue coetanee: accanto alla letizia, tipica della gioventù, c'è la pensosità; la quale la distingue dalla sue coetanee e la rende più matura, come se essa presagisse qualcosa del suo triste destino. Anche il passero solitario è definito pensoso, nell'omonima lirica; spesso il Leopardi attribuisce ai suoi personaggi i suoi stati d'animo. Gli occhi di Silvia sono ridenti e fuggitivi e quindi esprimono la letizia e la pensosità. In particolare, fuggitivi, oltre ad indicare la modestia con cui la giovinetta schiva gli sguardi altrui, specialmente quelli dei giovanotti, allude alla fugacità della vita e quindi anche della bellezza.

Infine, 1'espressione il limitare di gioventù salivi, con cui si chiude la prima strofa, ha come un ritmo ascensionale, prodotto dagli accenti, il quale non può non farci pensare, con una luminosa immagine visiva, a questa adolescente che, a passo di danza, sale la soglia della giovinezza per entrarvi e gustarla. Si noti che salivi è anagramma di Silvia; e quindi tutta la prima strofa è imperniata su quel nome.

Silvia rappresenta la giovinezza inesperta e innocente, non ancora gustata, ma desiderosa e speranzosa. La Nerina delle “Ricordanze”, invece, rappresenta la giovinezza esperta, in parte gustata, ma troncata. Per questo, forse, la fine di Nerina ci addolora di più, perché la perdita di ciò che si stava gustando è più dolorosa della perdita di ciò che ancora non si è provato; ma certamente Silvia piace di più per il suo candore e la sua innocenza.

Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno, al tuo perpetuo canto...

In questa strofa il verbo è all'inizio perchè esprime il concetto dominante. Anche onomatopeicamente il suono comincia nella prima parola, con quella n tronca che come una vibrazione lo prolunga per tutta la strofa. Il senso dell'armonia è dato anche dalle r, mentre quello della durata è dato dallo iato di perpetuo, oltre che dal significato di questo aggettivo e dall'uso dell'imperfetto in sonavan. La stessa osservazione sul concetto dominante vale anche per 1'aggettivo quiete posto prima del sostantivo stanze: al senso della quiete si oppone quello del canto, che la interrompe.

L'avvenire di Silvia è vago, cioè “incerto” oppure “bello, attraente, affascinante”. È chiaro che questo secondo significato presuppone il primo, poiché per il Leopardi è bello, attraente e affascinante ciò che è incerto e misterioso. Perciò Silvia era assai contenta del suo avvenire, bello proprio perché incerto.

Allora era il maggio odoroso. Il paesaggio del Leopardi non è mai una nota coloristica: esso ha sempre una profonda significazione ed esprime uno stato d'animo. Alla primavera della vita di Silvia, con le sue speranze, fa da sfondo la primavera della natura, con i suoi profumi.

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte...

Finora, nelle prime due strofe, il Leopardi ha parlato di Silvia: nella terza parla di sé. L'io iniziale di questa strofa, quindi, si contrappone al Silvia della prima. C'è una studiata architettura nella canzone, ma questo non nuoce alla poesia. Gli studi leggiadri, cioè occupazioni che ingentiliscono, sono gli studi letterari, a cui il poeta si dedicava consumando la giovinezza e la migliore parte di sé, cioè l'intelletto, sulle sudate carte. Quest'ultima espressione ha fatto scandalizzare qualcuno, che l'ha trovata eccessivamente realistica e non consona all'elevatezza e alla serietà della canzone. Il participio sudate, però, ha un significato ben preciso, che va al di là di quello letterale: c'è in esso il senso di un lavoro intenso e snervante, poi ritenuto vano, e perciò un affannarsi per nulla, in una visione pessimistica della vita e degl'interessi umani.

Il poeta presta attenzione anzitutto al canto di Silvia: egli ne resta quasi stupito e lo ascolta con sospensione; successivamente si accorge anche del rumore del telaio. La man veloce che percorrea la faticosa tela è il simbolo della realtà viva e operante, e a volte proprio faticosa, che si oppone alla fantasia (canto di Silvia) e la disturba col suo richiamo alla fatica e quindi alla sofferenza.

Anche in questa strofa c'è una nota di paesaggio, sempre simbolico e adeguato allo stato d'animo del poeta, ancora pieno di speranze. Egli guarda in alto, in lungo e in largo, con un atteggiamento e un'espressione che ci ricordano “L'infinito”. Il cielo sereno è un cielo privo anche di quelle nubi e tempeste che fra poco si abbatteranno sul poeta; e le vie dorate sono strade indorate dal sole, ma anche dalle speranze e dai sogni (“sogni d'oro” si dice comunemente). In questo stupore e in questa contemplazione egli prova qualcosa che non può esprimere: si sente, insomma, in quella “disuguaglianza” fra sentimento ed espressione, di cui anche Dante più volte fu vittima e che è stato il dramma di molti altri poeti.

Nella quarta strofa le due vite, quella di Giacomo e quella di Silvia, si accomunano nei pensieri soavi, nelle speranze e nei sentimenti. Al ricordo di quelle illusioni così a lungo accarezzate da lui e da Silvia, e poi vanificate, egli si sente opprimere da un sentimento di amarezza e privo di qualsiasi consolazione; e grida contro la natura, che non dà quello che ha promesso. Generalizzando, egli afferma che la natura non ha mantenuto i patti e le promesse né con lui né con Silvia né con chicchessia. Appare, dunque, il concetto della natura matrigna, che si diverte a fare soffrire tutti gli uomini. In particolare, il verbo rende ha implicito il senso del dovere contratto dalla natura nei confronti degli uomini, figli suoi: concetto, quest'ultimo, che egli sottolinea alla fine della strofa.

Tu, pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella...

In questa strofa ritorna Silvia, ma ancora per poco, poiché essa muore e le due vite si dividono per sempre. Dopo le domande disperate della strofa precedente, il poeta ritorna alla calma e alla contemplazione amara del dolore, raggiungendo punte di alta commozione poetica. Perivi, all'imperfetto, ci fa assistere alla lenta estenuazione della giovinetta e quindi alla sua lunga sofferenza; combattuta mette in evidenza la dura lotta che 1'organismo di Silvia, non vecchio e quindi ancor resistente, deve opporre al male intimo (chiuso) che lo mina e che poi vince. Silvia è anche lei un filo d'erba che inutilmente tenta di resistere alla morsa del gelo, il quale poi lo inaridisce, nonostante il vigore e la vitalità di cui ancora quello è fornito. E il vezzeggiativo tenerella esprime la commozione e la tenerezza con cui il poeta ripensa a quella morte.

Il fatto che non addolcissero il cuore di Silvia né la lode (dolce per le altre giovani, ma non per lei) delle negre chiome né quella degli sguardi innamorati e schivi e che nei giorni festivi (unica occasione per ritrovarsi) le compagne non facessero con lei discorsi d'amore non deve far pensare che essa non fosse giunta ad un'età tale da ricevere complimenti da parte dei giovanotti e da non essere matura per l'amore; né che essa, per modestia e umiltà, schivasse lodi e profferte amorose o non desse loro importanza: queste due interpretazioni non sembrano accettabili, sebbene diffuse. Silvia, consapevole della sua malattia, non veniva blandita dalle lodi, che pur riceveva; e le compagne non ragionavan d'amore con lei proprio perché sapevano in quali tristi eondizioni essa era.

Le negre chiome, gli sguardi innamorati e schivi (o gli occhi ridenti e fuggitivi) e il canto sono gli unici tratti fisici di Silvia. La quale non è delineata fisicamente, bensì si scioglie in alcune immagini: sedere al telaio e accudire alle altre opere donnesche, cantare, lampeggiare con gli occhi. Innamorati significa che gli sguardi sono pieni di amore e di bontà e anche che fanno innamorare gli altri: il vocabolo ha perciò un doppio significato.

Nell'ultima strofa Silvia, morta, si trasforma nella speranza, morta anch'essa. Il Poeta stenta un po' a tenere in piedi questo parallelismo; e si ha l'impressione che 1a strofa sia molto elaborata. Questo e anche le molte domande piuttosto violente e retoriche che egli pone a sé stesso e agli altri fanno sí che in quest'ultima parte il livello poetico si abbassi un po'. Tuttavia non si deve trascurare il fatto che in questa logica conclusione il poeta intende dare sfogo alla sua amarezza compressa, che si trasforma in una vera e propria disperazione. Insomma, dalla pura poesia e dal regno della contemplazione serena si passa alla realtà cruda e sanguinante: il poeta si è lasciato trascinare dalla sua desolazione.

Questo è quel mondo, questi
i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte delle umane genti?

Ragionammo insieme secondo alcuni avrebbe come soggetto “noi due, io con te, o speranza”; secondo altri, “noi due, io con te, o Silvia”. Sembra strano che il poeta ne ragionasse proprio con la speranza: sarebbe meno strano se ne avesse ragionato con Silvia. Tuttavia, si potrebbe intendere meglio “noi due, io e tu, o Silvia, ognuno per conto suo;cioè insieme equivarrebbe a “sia io che tu, ognuno per conto suo, contemporaneamente”.

Dopo lo sfogo delle domande precedenti, il poeta ritorna alla calma del più nero pessimismo. Infatti si sente uno stacco fra gli ultimi quattro versi e i precedenti: stacco che il lettore rimarcherà in una pausa piuttosto consistente dopo 1a serie delle domande, che evidentemente vengono lette con una certa concitazione. All'apparir del vero, cioè quando il poeta si rese conto dell'amara realtà della vita, la speranza cadde: e il passato remoto ci fa sentire ancor meglio il crollo improvviso delle illusioni. Poi Silvia e la speranza si fondono e si confondono per indicare con la mano

la fredda morte ed una tomba ignuda

con un'espressione che ci richiama il Foscolo dell'“illacrimata sepoltura”.

Così, a lettura finita della canzone, 1'impressione più viva che resta nell'animo del lettore non è tanto quella della giovinetta rapita alla vita nel fiore degli anni, la quale pure ci desta compassione, né quella del poeta Leopardi, ma quella dell'uomo Leopardi, di un uomo che si definì “tronco che sente e pena” e che invano implorava soccorso dalla natura e dag1i uomini. Forse ai nostri giorni un uomo di tale fatta non sarebbe ancora del tutto compreso; ma il suo dolore e la poesia che da esso promana continuano a commuovere e ad ammonire gli uomini civili: come il canto di un uccellino accecato e chiuso in gabbia.

“Il sabato del villaggio”

“Il piacere umano… si può dire ch'è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L'atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere, e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere...” (G. L., Zibaldone, vol. II, 20 gennaio 1821).

Questo pensiero del Leopardi basta a farci capire il tema sviluppato dall'autore nell'idillio “Il sabato del villaggio”, scritto nel 1829, pochi giorni dopo “La quiete dopo la tempesta”, a cui è tanto vicino. Si può dire, anzi, che ci sia un parallelismo fra questi due idilli: una prima parte descrittiva, con scene e quadretti di vita paesana, e una seconda parte meditativa e filosofica.

Anche in questa lirica c'è un'architettura studiata: nella prima strofa si ha il passaggio dal tramonto alla sera, nella seconda è notte, nella terza e nella quarta ci sono le considerazioni e gli ammonimenti del poeta.

La lirica si apre con un contrasto fra la donzelletta che ritorna dalla campagna e la vecchierella che siede sulla scala. La donzelletta è simbolo della vigoria e della vitalità: lo notiamo dalla forza che ha nel portare il suo fascio dell'erba e soprattutto nella cadenza dei versi, che sembrano ritmati a danza e con musicalità e con certe rime ci danno il senso della baldanza e del vigore fisico e morale con cui essa si fa avanti. La donzelletta che vien dalla campagna non è soltanto un quadro di sana vita agreste, ma esprime una fiduciosa attesa del domani, di quel vago avvenire che Silvia, nella canzone a lei dedicata, accarezzava mentre saliva il limitare di gioventù. Donzelletta, poi, non è un inutile aulicismo, ma serve ad ingentilire questa figura di giovane donna che, pur essendo una contadina, non manca di grazia e di femminilità, con quella brama di adornarsi il petto e i capelli per piacere ai giovanotti: civetteria naturale, semplice e permessa ad ogni giovinetta.

Essa vive del futuro, nel quale è tutta proiettata, preparandosi materialmente e moralmente alla giornata festiva, mentre la vecchierella ormai vive del passato, al quale è rimasta ancorata. Nei versi stessi dedicati alla vecchierella notiamo che non c'è più quel ritmo di danza che introduceva la donzelletta; e se ne può fare il confronto, badando all'accentuazione metrica.

La vecchierella è mostrata quasi allo stremo delle forze; non si muove con baldanza, ma siede sulla scala. (Si immagini una scala esterna, portante al piano superiore della casa.) Incontro là dove si perde il giorno ci porta ad un mesto confronto fra il giorno e la vecchierella: entrambi al tramonto. Per la donzelletta il tramonto è semplicemente un calar del sole, mentre per la vecchierella è un “perdersi” del giorno. Per questo essa approfitta degli ultimi raggi solari per scaldarsi, novellando del suo buon tempo.

Com’è lontano quel tempo felice! Il passato remoto ebbe ce lo colloca in un'epoca lontanissima, mentre novellando (che non significa semplicemente “raccontando”) ne fa quasi una fiaba. Sí: la vecchierella pensa con nostalgia e malinconia alla sua giovinezza, che. è così lontana e bella, per lei, da trasformarsi quasi in una fiaba, di cui era proprio lei la protagonista.

Segue un tocco di paesaggio, si direbbe una pennellata: in quattro versi si passa dal tramonto alla sera. Anche questo paesaggio ha qualcosa di idilliaco e contribuisce, insieme con la squilla e con i fanciulli, a quell'atmosfera di serenità che fra poco sembrerà risollevare il poeta. Squilla ci dà l'impressione che si tratti di una campana di piccole dimensioni e piuttosto stridula; ma essa non disturba il poeta, non lo irrita: come non lo disturbano e non lo irritano i fanciulli che schiamazzano sulla piazzetta; i quali, anzi, fanno un lieto romore.

La prima strofa si conclude con l'immagine dello zappatore che ritorna contento a casa. I versi dello zappatore, nel loro ritmo e nell'uso di certe parole, disegnano una figura solenne, austera, quasi ieratica: figura di chi accetta il lavoro e la fatica con nobile dignità e si accontenta del riposo come anche del lavoro.

Ma quanto presto s'è fatto notte! Eppure, nel buio e nel silenzio della notte, si odono i rumori del falegname che veglia per completare un lavoro prima dell'alba. Egli non vuole avere altri pensieri per la domenica; per questo cerca di completare l'opera prima dell'alba, in modo da trascorrere spensieratamente la giornata del suo riposo. In questa seconda strofa, la ripetizione di odi (odi il martel picchiare, odi la sega) con 1'accentuazione della o ci dà il senso del rumore e insieme con la ripetizione della e (e s’affretta e s'adopra) esprime la concitazione e la fretta del1'operaio.

Cominciano, poi, le considerazioni del poeta: il sabato è il giorno più gradito, perché si pensa al riposo; invece la domenica riporterà il nostro pensiero al travaglio usato: e qui travaglio non significa soltanto “lavoro”, ma anche “fatica” e “sofferenza”. Il consiglio che egli dà a tutti i fanciulli, e non soltanto ad uno di quelli che giocano nella piazzetta, è ovvio: non si deve aspettare con ansia la giovinezza, ma è meglio fermarsi nella beata età dell'infanzia. Naturalmente, egli non vuole togliere dall'illusione i fanciulli, i quali si aspettano chi sa che cosa dalla giovinezza; ma, nella sua reticenza, il poeta vuol dire che la giovinezza, cioè la festa della vita, sarà tutta una delusione, perché porrà l'uomo di fronte a pensieri e problemi nuovi, i quali gli faranno rimpiangere molto amaramente la spensierata fanciullezza. “Gli anni della fanciullezza sono, nella memoria di ciascheduno, i tempi favolosi della sua vita”. (G.L., Pensieri, 102°.)

Così, a poco a poco, il poeta ci ha trasportati in un paesaggio nello stesso tempo reale e fantastico. Egli è venuto delineando 1'aspetto e la vita di un villaggio nella sera del sabato: la contadinella, le vecchiette, le case con le scale esterne, la piazzetta con la sua chiesa e la sua campana, i fanciulli che giocano, lo zappatore che fischia: il tutto avvolto dalla tenue luce, prima del crepuscolo e poi della luna, luce che armonizza e fonde in unico quadro tutti i particolari. Perfino quando l'operaio lavora a notte inoltrata è il paesaggio che domina col buio e col silenzio. Si direbbe che tutto ciò inviti alla pace, alla fiducia e alla serenità; ma non e così. O meglio: sarà così per gli altri, ma non per il poeta, che è tutto assorto nelle sue meditazioni. Ecco perché prima ha detto che al suono della squilla diresti che il cor si riconforta: in quel diresti c'è tutta l'ironia del poeta per una pace e per una gioia che, ad un’attenta e spietata analisi, si rivelano inconsistenti.

Come nella lirica “La quiete dopo la tempesta”, anche in questa si può notare che la poesia scade nelle ultime due strofe. Certo, sarebbe stato bello se il Leopardi avesse interrotto le due composizioni dopo le parti descrittive e idilliache; ma non si può negare che, se si vuole conoscere le sorgenti della poesia leopardiana e capirla a fondo, anche le strofe finali, così piene di pessimismo e di sconforto, sono necessarie e devono essere tenute presenti fin dai primi versi della composizione. Per fortuna, in questa lirica il tono delle meditazioni e dei consigli è più pacato e più elegiaco rispetto a quello della lirica simile, ma non per questo meno amaro e meno pessimistico.

Si potrebbe obiettare al Leopardi che il suo assunto è vero solo in parte: infatti, non è sempre vero che la gioia sia vana e consista solo nell'attesa di qualcosa di bello. Essa può consistere anche nell'avere la coscienza a posto, nell'essere in pace con noi stessi e con gli altri, nell'aver compiuto il proprio dovere e nel1'aver fatto del bene; e inoltre, un sano divertimento ha anch'esso la sua gioia. Soltanto il Leopardi poteva vedere la vita così nera, perché la natura gli aveva precluso ogni possibilità di gioire. Questo, però, deve aiutarci non soltanto ad intendere meglio la sua poesia, ma anche ad amare di più lui.


Fede e religiosità in Alessandro Manzoni

Certamente Alessandro Manzoni (Milano 1785-Milano 1873), d’incerta paternità, durante la giovinezza fu condizionato dal poco edificante esempio di vita trasgressiva della madre Giulia, figlia del giurista Cesare Beccaria: questo e un innato senso d’indipendenza lo portarono per un periodo a rifiutare la pratica e i simboli della religione cattolica, che pure da bambino gli era stata inculcata in collegio, e ad accostarsi all’illuminismo e al giacobinismo, con risvolti di laicismo e agnosticismo, anche se non di vero e proprio ateismo.

L’esordio dello scrittore avvenne a soli 16 anni d’età col poemetto in quattro canti Del trionfo della libertà, in cui egli si poneva sulla scia di Dante e d’altri autori nel deplorare aspramente il potere temporale della Chiesa Cattolica in una Roma rovinata dai cattivi costumi degli ecclesiastici. Nel canto II, versi 112-123, il ragazzo-poeta chiamava il papa “celibe Levita”, definiva “venali” le sue chiavi “ond’ei si vanta / chiuder la porta a disserrar superna” e i cardinali “turba di lupi mansueti in mostra, / che de la spoglia de l’agnel s’ammanta” e infine giudicava vile la folla riverente che li adorava e onorava come dei.

Eppure in questo confuso periodo i principi della morale cristiana in lui non erano assenti, tanto che nell’ode In morte di Carlo Imbonati egli poteva scrivere coscientemente: “Sentir, riprese, e meditar: [...] conservar la mano / pura e la mente: [...] / il santo Vero / mai non tradir: né proferir mai verbo / che plauda al vizio, o la virtù derida”.

Ma è dopo la conversione, avvenuta nel 1810, che egli ritorna cattolico praticante e si vota alla diffusione della fede. Da allora e fino alla morte tutte le sue opere diventano lo specchio della Provvidenza, con un più o meno esplicito invito alla speranza, alla fiducia, al comportamento corretto e moralmente finalizzato all’acquisizione della salvezza eterna.

Nell’ode Il 5 Maggio egli colloca la figura e l’opera di Napoleone in un imperscrutabile disegno provvidenziale. Negl’Inni sacri non solo rievoca e illustra le principali solennità della Chiesa, ma (cfr. La Pentecoste) affratella gli uomini, riscattandoli dalla schiavitù e dalle altre sofferenze in nome della futura felicità in Gesù Cristo. Nelle tragedie Il conte di Carmagnola e Adelchi egli dà speranza agli oppressi, ponendo un continuo richiamo all’eterno. Ma è nel famoso romanzo I promessi sposi che egli ha modo d’estrinsecare tutta la sua concezione della fede, tanto che la Provvidenza vi è presente quasi in ogni pagina e si può considerare vera protagonista. In quest’opera si possono facilmente cogliere i numerosi insegnamenti religiosi e morali, sempre validi, che l’autore vi ha immesso con discrezione e delicatezza al fine d’aiutare i lettori a vivere e morire in pace con Dio, con sé stessi e con gli altri. Lucia, padre Cristoforo, il cardinal Federigo, la moglie del sarto e altri non sono solo semplici personaggi fantastici, ma conclamati esempi d’un cristianesimo inteso, vissuto e difeso fino al sacrificio; e le loro vicende personali altro non sono che delle parabole tese alla conquista del regno dei cieli.

A questo apostolato “artistico” il Manzoni, che spontaneamente assurse anche al ruolo di catechista nell’opera Osservazioni sulla morale cattolica e in vari scritti d’importanza minore, aggiunse l’umiltà d’un grande scrittore che amava andare a servire la messa ogni mattina, con qualunque tempo, a meno che (veniale superstizione) non incontrasse in strada un gatto nero.

La sua modestia, la sua bonomia, la sua profonda religiosità e la lunga opera missionaria, dunque, fanno d’Alessandro Manzoni — nonostante le umane debolezze — un personaggio da additare a tutti gli uomini di buona volontà.

Ed è per questo che lo studio del Manzoni è stato per più d’un secolo fondamentale nella scuola italiana: non soltanto sul suo romanzo s’imparavano la grammatica e la sintassi della corretta lingua italiana, ma interi episodi si recitavano a memoria, dato che lo studio mnemonico allora veniva considerato — giustamente — utile esercizio per l’elasticità della mente e al contempo costituzione di punti di riferimento per la condotta morale, civile e sociale dei cittadini.


Giuseppe Mazzini e Gioacchino da Fiore

Nel sonetto “Giuseppe Mazzini” incluso nella silloge Giambi ed epodi il poeta Giosue Carducci (1835-1907) scriveva del grande patriota italiano: “egli vide nel ciel crepuscolare / co ’l cuor di Gracco ed il pensier di Dante / la terza Italia”. Però il Carducci ignorava che dietro il pensiero di Dante, dal Mazzini ammirato specialmente per le implicazioni patriottiche (cfr. il suo saggio Dell’amor patrio di Dante), c’era in gran parte quello di Gioacchino da Fiore, al quale il Mazzini stesso aveva dedicato la sua attenzione, anche perché affascinato dalla profezia della Terza Età che — secondo il patriota — avrebbe dovuto produrre e caratterizzare la Terza Italia (cfr. “La giovine Italia”), a partire dalla Repubblica Romana del 1849, da cui poi si sarebbe diffusa una nuova civiltà prima in Europa (cfr. “La giovine Europa”) e poi nel mondo intero.

Infatti nel sec. XIX Gioacchino da Fiore (circa 1130-1202) suscitò grande interesse presso patrioti, agitatori e rivoluzionari, e quindi presso società segrete italiane, francesi e inglesi. Nella sua mente era maturata l’idea della nazione italiana compresa nei suoi limiti geografici; ed egli ne aveva rilevato il primato fra le nazioni per la presenza della Chiesa Cattolica: idea poi rilanciata da Vincenzo Gioberti (1801-1852). In un passo della sua opera Concordia Veteris et Novi Testamenti (VI, 16) Gioacchino deplorò che l’Italia fosse divisa da lotte interne e discordie profonde, nonché devastata e insanguinata da gruppi di stranieri in cerca di terre e di potere. La sua “miseram Italiam” poi diventò grido in altri grandi italiani come Dante, Petrarca, Leopardi. La renovatio auspicata da Gioacchino per l’umanità e in particolare per l’Italia preludeva ad un’altra rinascita bramata da tanti personaggi successivi a lui: il Risorgimento nazionale.

Molti furono gli ammiratori e i seguaci di Gioacchino da Fiore, anche fra i moderni. Qui ricordiamo soprattutto Giuseppe Mazzini (1805-1872), che ritenne Gioacchino suo maestro e precursore, impostando su di lui il suo pensiero storico; e, ispirandosi all’abate calabrese, sul quale scrisse un trattato rimasto inedito, perfezionò la sua idea di nazione, concepita non come territorio ma come grande forza, unità spirituale e storica, autocoscienza d’un comune destino: tanto che dopo la “Giovine Italia” fondò la “Giovine Europa”, anche questa sentita come patria e nazione.

Sulle orme di Gioacchino, il Mazzini, sentendo di vivere nell’Età dello Spirito, antepose la Rivelazione alla Ragione e fece della storia la progressiva rivelazione di Dio, che vi si manifesta attraverso le persone della Trinità; perciò la religione dello Spirito è per il Mazzini la religione della libertà, e lo Spirito si rivelerà nella terza Roma. E per sottolineare la sua italianità, il Mazzini assunse lo pseudonimo di “Un Italiano”, con la quale semplice ma altamente significativa espressione amava definirsi e firmarsi.

Scrisse Francesco Grisi: “Il motivo dell’insorgere del mito di Mazzini è da vedere nel profondo e timoroso rispetto con il quale il popolo usa circondare la figura degli uomini provati in vita da persistente sfortuna e mai piegati [...] È comprensibile che all’opinione del popolo (la cui voce si vuole assimilare a quella di Dio) il mito sia sufficiente a santificare l’azione per la libertà e la Patria Italia.”

Ed è merito della studiosa Bianca Rosa avere trascritto e portato alla luce un manoscritto mazziniano d’appunti finalizzati alla stesura d’un trattato (poi non realizzato) sull’abate calabrese: Joachimo, appunti per uno studio storico sull’abate Gioacchino. Al riguardo si può consultare la pubblicazione intitolata Gli appunti manoscritti di Giuseppe Mazzini, a cura di Bianca Rosa, Impronta, Torino, 1977.

Da questo manoscritto, ampio e dettagliato, si deduce che il Mazzini nutrì subito una simpatia particolare per Gioacchino a motivo della comune finalità di dare l’avvio ad un’epoca nuova, basata sulla vera religiosità e sull’uguaglianza sociale. Perciò il patriota si mise a visitare quasi in pellegrinaggio i luoghi che accoglievano opere di Gioacchino o su Gioacchino, come ad esempio quelle di Victor Leclerc. Egli inoltre tenne conto della simpatia che ebbero per Gioacchino calvinisti, anglicani e riformatori vari.

Gli appunti del Mazzini si rivelano molto interessanti per comprendere la sua visione morale e politica, nonché le correlazioni con l’abate. Essi sono scritti in italiano e in francese, con riportati brani in latino di Gioacchino, e costituiscono una specie di regesto delle opere di Gioacchino e su Gioacchino, una bibliografia ragionata, una successione di titoli, date, contenuti, pensieri, riferimenti; tutta una serie d’informazioni, citazioni e considerazioni preziosissime, da cui emerge anche la grande cultura del Mazzini. Fra l’altro s’evidenziano le qualità profetiche di Gioacchino e s’auspica la pubblicazione d’un’antologia gioachimita.

A proposito di queste qualità profetiche, uno dei molti meriti del Mazzini fu, quand’era a Londra, d’avere riordinato e curato gli scritti londinesi d’Ugo Foscolo (1778-1827), fra cui l’importante saggio sulla Divina Commedia: scritti che sono arrivati a noi proprio grazie al Mazzini. Il poderoso saggio foscoliano Discorso sul testo e sulle opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della Commedia di Dante, al quale l’autore attese negli ultimi dieci anni della sua vita e che dopo varie vicende redazionali ed editoriali uscì postumo nel 1842 a cura del Mazzini, nel cap. CLXXXIV contiene una lunghissima nota-aggiunta interamente dedicata a Gioacchino da Fiore, la quale prende spunto dalla famosa terzina dantesca di Par. XII 139-141. Il Foscolo, dopo aver riferito d’aver visto circolare da giovinetto a Venezia un certo “libercolo” attribuito a Gioacchino, in cui sono preconizzati i papi futuri anche con illustrazioni e simboli, afferma che la fama d’esso era “santissima” fin dalla fine del sec. XVI, tanto che il filosofo francese Montaigne (1533-1592), che pure non era ingenuo, bramava di poter vedere questa “meraviglia”: “le livre de Joachim Abbé Calabrois, qui prédisait tous les papes futurs, leurs noms et formes” (cioè “il libro dell’abate calabrese Gioacchino, che prediceva tutti i papi futuri, i loro nomi e forme”). Tuttavia tale libro, secondo il Foscolo, probabilmente non era autentico.

Eppure Vincenzo Monti (1754-1828) non solo aveva creduto alle predizioni del cosiddetto “libro dei papi futuri” attribuito a Gioacchino da Fiore, ma aveva ricavato da esso il titolo d’una sua composizione: Il pellegrino apostolico dell’omonimo poemetto montiano altro non è che il “Pellegrinus Apostolicus” di quel libro, espressione latina in cui ai tempi del Monti si vide il pontefice Pio VI che si recava in missione a Vienna per convincere l’imperatore Giuseppe II a desistere dalle sue riforme laiciste.

Anche il Mazzini poi vide il suddetto libro attribuito a Gioacchino, ma certamente non da esso deduceva le qualità profetiche dell’abate calabrese, bensì da quella Terza Età che era insieme una profezia, un auspicio e un impegno per tutti gli uomini di buona volontà come lui, il quale voleva risanare e assettare la società, a partire da quella piccola cellula che è la famiglia. Si può affermare che I doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini, come gran parte del pensiero mazziniano, sono un’opera di derivazione gioachimita, anche se Gioacchino non vi è mai nominato: e la sua concezione della storia trova radice proprio nell’idea gioachimita della Terza Età o Età dello Spirito Santo, in cui fin nella denominazione si ritrova quello spiritualismo tanto caro al Mazzini. Insomma, spiritualismo, idealismo, patriottismo, politica, fede e religiosità nel Mazzini erano un tutt’uno.

Per capire ciò, bisogna pensare al carattere austero del Mazzini, in cui la serietà era fondamentale. Perciò la sua religiosità — dovuta alla sensibilità propria, all’educazione ricevuta e alla buona conoscenza delle Sacre Scritture — non è acquiescente convenzionalità, ma è intesa come continua e personale ricerca della verità in risposta alle esigenze della coscienza. Il Mazzini s’oppose fin da giovane al materialismo ateo di derivazione francese, giacobino e carbonaro, coltivando un idealismo religioso che comprendeva la rivoluzione popolare, l’unità e l’indipendenza della patria. Il suo motto “Dio e popolo” sottolineava fin dalle basi l’intreccio fra società e religiosità. Sicché il Mazzini, pur laico e non cattolico, è uno degli uomini più religiosi, grazie proprio al suo alto concetto e rispetto di Dio e di tutto ciò ch’è divino: cose ch’egli divulgava con profonda convinzione e grande zelo, unitamente all’amor di patria.

Notevole esempio della religiosità mazziniana è la parte VI dei Doveri che riguarda proprio la famiglia e la donna. Questo libretto, indirizzato agli operai, coniuga etica, religiosità e patriottismo, rifiutando il dovere quale semplice rassegnazione imposta dalla religione ufficiale, come aveva sostenuto Silvio Pellico (1789-1854) nel suo quasi omonimo libro I doveri degli uomini, ma caldeggia un dovere basato su una religione intesa quale lotta per il progressivo miglioramento della persona, della famiglia e della società.

Già l’esordio della suddetta parte VI è di quelli destinati a divenire sentenze: “La famiglia è la Patria del core. V’è un Angelo nella Famiglia che rende, con una misteriosa influenza di grazie, di dolcezza e d’amore, il compimento dei doveri meno arido, i dolori meno amari.” Ecco delineato, dunque, un modello di donna che rimanda al focolare domestico. E più avanti, in un celeberrimo passo che è necessario riportare nonostante la lunghezza, l’autore afferma: “L’Angelo della Famiglia è la Donna. Madre, sposa, sorella la Donna è la carezza della vita, la soavità dell’affetto diffusa sulle sue fatiche, un riflesso sull’individuo della Provvidenza amorevole che veglia sull’Umanità. Sono in essa tesori di dolcezza consolatrice che basta ad ammorzare qualunque dolore. Ed essa è inoltre per ciascun di noi l’iniziatrice dell’avvenire. Il primo bacio materno insegna al bambino l’amore. Il primo santo bacio d’amica insegna all’uomo la speranza, la fede nella vita; e l’amore e la fede creano il desiderio del meglio, la potenza di raggiungerlo grado a grado, l’avvenire, insomma, il cui simbolo vivente è il bambino, legame tra noi e le generazioni future. Per essa, la Famiglia, col suo Mistero divino di riproduzione, accenna all’eternità. [...] Amate, rispettate la Donna. Non cercate in essa solamente un conforto, ma una forza, una ispirazione, un raddoppiamento delle vostre facoltà intellettuali e morali. Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. — Come due rami che muovono distinti da uno stesso tronco, l’uomo e la donna muovono, varietà, da una base comune, che è l’umanità...; l’uomo e la donna hanno funzioni distinte nell’Umanità ma quelle funzioni sono sacre ugualmente, necessarie allo sviluppo comune, ambe rappresentazioni del Pensiero che Dio poneva, come anima, nell’Universo. Abbiate dunque la Donna siccome compagna e partecipe, non solamente delle vostre gioie o dei vostri dolori, ma delle vostre ispirazioni, dei vostri pensieri, dei vostri studi, e dei vostri tentativi di miglioramento sociale. Abbiatela uguale nella vostra vita civile e politica. Siate le due ali dell’anima umana verso l’ideale che dobbiamo raggiungere.”

Il citato passo del Mazzini è di tale importanza formativa che una volta fu assegnato quale versione in latino agli esami di maturità, anche se i candidati s’imbarazzarono sulla traduzione della parola “angelo”, concetto tipicamente cristiano non riscontrabile nella lingua latina classica; e non si capisce come attualmente non ne sia reso obbligatorio lo studio nella scuola, magari imparandolo a memoria come una volta, insieme con altri passi dello stesso autore. Purtroppo oggi non si fa imparare nulla a memoria: e ciò è un grave danno, perché l’esercizio mnemonico non solo irrobustiva la mente, ma serviva a costituire dei validi punti di riferimento e condotta per la vita. Infatti, quello delineato dal Mazzini non è un modello temporaneo, ma un modello sicuramente sempre valido, specialmente in un tempo come il nostro in cui la famiglia tende a sfaldarsi o ad essere fraintesa e la donna ad essere considerata o a farsi considerare un balocco o un altro oggetto qualsiasi.

Perciò nelle celebrazioni mazziniane del bicentenario della nascita è importante sottolineare il forte legame fra il Mazzini e l’abate Gioacchino, che egli conosceva bene per averlo a lungo studiato, da cui discende la sua austerità personale e a cui in pratica si deve molto del pensiero e dell’azione del nostro patriota, anche a livello morale ed educativo.

Note


[5] Carmelo Ciccia, Dante e le figure di Gioacchino da Fiore, in Atti della Dante Alighieri a Treviso, a cura di Arnaldo Brunello, vol. II, Ediven, Venezia-Mestre, 1996, pagg. 86-111.

[6] Tripodi cerca Dante / “Il colore nella Divina Commedia”, Spoletina Del Gallo, Spoleto, 2001.
 

[7] Corrado Gizzi, Dante istoriato: vent’anni di ricerca iconografica dantesca, Sirka, Milano, 1999.

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