| |
Prefazione a
Mezza castità
Donato Di Stasi
I
sapienti non si perderanno in chiacchiere,
il
silenzio offre i suoi frutti.
Pseudo Esiodo,
Theoretikémachia
È ancora vivo il teatro, o è
piuttosto un reperto d’antan,
uno specchio in frantumi, una scatola
vuota, mille volte sopravanzato dalle più moderne forme di
rappresentazione di massa (cinema, Noemi Israel cerca di offrire una
sua credibile risposta, rispolverando, incrudendo e
riattualizzando niente meno che il teatro naturalistico borghese,
intersezione di rabbie remote, psicologismi e sentimenti, fatti
confluire in una riuscita drammatizzazione dei giorni nostri,
Mezza Castità.
Il sipario si apre sugli sgoccioli
di una festa tra vassoi, torte piluccate e bevande sparse. Sono di
scena dei borghesi mediamente annoiati e psicanalizzati, incapaci
di espiare la propria insussistenza; sembra portino sulle
spalle una blatta kafkiana, uno scarafaggio (la solitudine?)
che non si stacca e non li Dimenticano sempre chi sono, l’idea
principale della loro vita non li attrae fino in fondo, si
perdono per strada, si scompongono scena dopo scena, come se fosse
impossibile qualsiasi riuscita.
I loro dialoghi superficiali
falsificano l’anima e pongono quasi in tremito la barra che tenta di
governare le onde aggrovigliate del destino, così il vivente
polipaio del loro bla bla bla si inchioda al nulla e fabbrica persone
spodestate da una coscienza salda e Lontani da qualsiasi forma di auto
appagamento, queste acide macchine attoriali non bastano a se
stesse, e allora costantemente evocano l’altro anche nella forma
vilipesa e ributtante di Bella Ricò.
Mezza Castità
si svolge in tono apparentemente
cordiale, appena sollecitante,
ingannevolmente imperioso, ironicamente didascalico; non soffia dall’alto,
ma di fianco, indica, disegna, non trasmette il piglio di chi
insegna. È sempre dai bordi, da qualche confine o qualche margine
(qui una casa di Trieste) che irrompe, o scorgiamo, qualche lembo
di verità. Non potendo portare estasi o
scompiglio nelle loro vite, il chiacchiericcio reclama la prigione
della maldicenza: a mo’ di bersaglio si dispone la citata
Bella Ricò, nome in sé da operetta, ricca ereditiera di provincia,
sgraziata, grassoccia, pitocca quant’altri mai, distintasi in
passato per il suo balzano proposito di votarsi alla mezza castità,
ossia intrattenere rapporti sessuali in punta di vagina, pur di non
perdere l’agognata verginità.
Sofi, Lissi, Mir, Magda, e altri
due o tre astanti passano in rassegna le malefatte di Bella nei
loro confronti, ripromettendosi una sapida vendetta: la
pièce
prende però un’altra piega, e i
protagonisti di questo
Hurlyburly
mitteleuropeo con segno rovesciato rimangono tutti scornati e
sconfitti. Con i suoi abissi di cinismo, con
la sua sedula ignoranza dei fatti del mondo, Bella riesce a
passare indenne tra i disastri e le responsabilità delle relazioni
umane: si è fatta imporre un marito belloccio, che però ha una gamba
più lunga dell’altra, e ora che si è borghesemente, decorosamente
sistemata, può addirittura pensare a scappare con un amante.
Sul tank delle loro nevrosi i
personaggi si protendono verso una lingua quotidiana, bolsa, priva
di accenti, per trovare espressione non solo della loro individualità,
ma soprattutto delle loro persone storiche.
Provano orrore per l’omologazione e
pretendono per sé, dopo il naturale adattamento ai
ritmi della socialità, una reale distinzione (trovano non a caso che
il matrimonio di Bella segni l’ingresso nella folla anonima e
anomica): aleggia per tutta la rappresentazione un fastidio
malcelato per la normalità e il tran tran quotidiano, che imbriglia,
soffoca e non lascia scampo.
Traduttori (Sofi), o pianisti (Mir,
Lissi), farmacisti (Fred) piuttosto che biologhe
(Margherita), o ancora infermiere (Magda), le
dramatis personae
di
Mezza Castità
manifestano un’evidente familiarità con
l’errore, reale e metaforico, fisico e spirituale (la balbuzie di Magda,
p.e.): l’errore è da intendersi come spontanea condizione terrena,
impossibile da eliminare e, proprio per questo, necessario per
superare i limiti di ciascuno.
Senza mendacità, senza fallacia,
senza menzogna non si può iniziare una storia, né
continuarla, perché l’errore ci rivela quella confusione che chiamiamo vita.
Se è vero che niente riesce senza
fatica, è soprattutto vero che dimenticando il passato, tutti
i personaggi potranno andare avanti, prendendo coscienza della
differenza fra intenzione ed esecuzione.
Noemi Israel dà vita a una commedia
degli inganni e delle ripicche, delle dissoluzioni e
delle disillusioni. Il suo intento si rivela quello di decifrare una
certa realtà, una volta mossi i fili di un universo che procede “a
casaccio, senza regole”. Tale esigenza giustifica la necessità di
gettare i personaggi nel loro destino senza particolari fortune e
speranze.
Per dirla con Majakovskij, la vita
non è che il primo disegno mal riuscito di una balena: su
questa sinopia l’Autrice sa tracciare i percorsi del ragionamento e
dell’intelletto, forse le uniche salvezze rimaste sulla carta e
nella realtà.
| |
 |
autore |
|