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Paolo Seganti
Dal ring alla scrittura... attraverso il cinema e il palcoscenico

Paolo Seganti, attore teatrale e volto noto di tanti film e serial televisivi, presenta il suo libro L’imbuto di latta abbandonato, un ponte fra realtà e fantasia, una favola per chiunque abbia ancora voglia di sognare.

Sin dal momento che ho letto il tuo Imbuto di latta abbandonato mi è nata l’idea di farti un’intervista, anche se non te ne ho parlato durante le lunghe conversazioni attraverso l’oceano, che avevano invece lo scopo di giungere a una soluzione condivisa su alcuni passaggi del tuo libro. La lettura dell’ “imbuto” mi apriva scenari anche sulla tua personalità, su quelli che sono i tuoi valori e i tuoi modelli, che di solito non si riscontrano in chi, come te, fa l’attore di professione. Ora che le vicende di Duccio, di Donato, di Fiordaliso e degli altri personaggi del tuo libro stanno per uscire allo scoperto ed essere lette da un pubblico vero vorrei farti alcune domande.

 

Partiamo dall’inizio: dove sei nato, come hai trascorso l’infanzia?

Sono nato a Rovereto di Trento. Sono cresciuto un po' in giro per l’Italia. Sardegna, Toscana, Campania, ma soprattutto in Emilia, fuori Modena. In un paesino chiamato Campogalliano. Mio padre aveva una ditta di appalti, e noi ci spostavamo per mesi, anni dove la sua ditta svolgeva i lavori. Trovava sempre una casetta in campagna. Sempre in mezzo ad animali cani, gatti, galline, cavalli, caprette, papere, e tacchini.

Una vita idilliaca, che però non ti ha impedito, crescendo, di avvicinarti alla boxe dove hai ottenuto anche dei buoni successi. Come è nato questo amore?

Il Pugilato è da sempre stato lo sport di famiglia. Io e tutti i miei fratelli lo abbiamo praticato, anche a livello nazionale. Mio padre, da sempre un’appassionato della “noble art”, c'ha comprato i guantoni fin dalla più tenera età. Inevitabilmente ho seguito l'esempio dei miei fratelli più grandi e per meè stato un surrogato per il palcoscenico, (anche se ho fatto più combattimenti io, che tutti loro messi insieme…) che è la mia passione sin dall'infanzia. Quando i miei fratelli hanno smesso di combattere, non mi divertivo più ad andare in Palestra da solo, ed ero pronto a cambiare scena…

Infatti. Scena e paese. Come è avvenuto questo passaggio, quale è stata la molla che è scattata e ti ha fatto dire: basta? Com’è che hai lasciato l’Italia?

A diciannove anni, finito il servizio militare, che ho fatto a Roma, al centro sportivo della Marina Militare, dove facevo sia pugilato ma anche canottaggio, (tengo care le medaglie vinte alla regata di Venezia), mi sono “imbarcato” per New York.

Vedremo più avanti cosa sei andato a fare a New York. Ora puoi dirmi se la tua passione per il teatro e il cinema è nata per caso o se ci sono stati dei precedenti?

No, è sempre stata dentro di me. Ricordo che sin dalla più tenera età ho sempre avuto l’attitudine per il palcoscenico. A casa interpretavo novelle e racconti di mia mamma, e prendevo spunto anche dalle barzellette della sua “settimana enigmistica”. Lei mi arrangiava i costumi, e al resto pensavo io, trasformando fustini di detersivo in tamburi, e con il permesso di mio padre mi ingegnavo a cavare qualche suono dalla sua tromba (una Yamaha che poverina si meritava di meglio), e ora penso anche: se l’avesse avuta Duccio! Insomma davo spettacolo. Soprattutto in occasione delle visite dei parenti, che, fingendosi entusiasti, subivano e applaudivano. Lavoravo in coppia con mio fratello Luca, ma lui si interessava soprattutto della parte economica. Oltre al prezzo del biglietto (obbligatorio), vendeva limonate e caramelle a un prezzo esorbitante. Ma anche a scuola ero apprezzato per le mie “performance” nelle recite scolastiche, e il pubblico non mi spaventava. Mi piaceva mettermi in mostra con le ragazzine ed ero sempre il primo ad alzare la mano quando c’erano delle interrogazioni, anche se spesso non sapevo la risposta.

C’è stato però un momento della tua vita in cui hai avuto chiara la consapevolezza di voler fare l’attore?

Si, e fu la sera che in TV vidi Lo Spaccone con Jackie Gleason e Paul Newman. Mi venne la pelle d’oca. Piansi a lungo, durante la scena dove rompono i pollici a Eddy Felson, il personaggio interpretato da Newman. Attraverso la vetrata zigrinata si intravedeva appena la sagoma di Eddy, ma avevo il cuore in gola. Quella sera dissi ai miei genitori che sarei diventato attore professionista e che sarei andato a New York. Avevo 9 anni. Ho mantenuto la promessa. Per questo dico che il pugilato, sport che ho amato tanto, mi ha temprato e mi è servito per affrontare i sacrifici che servono per lo studio e il lavoro di attore.

Come hai vissuto i primi periodi, quelli della gavetta per intendersi, hai trovato difficoltà, ostilità, oppure ti sei sentito subito bene?

Ho fatto la gavetta come tutti quelli che sono partiti dal loro paese, credo. Dopo la prima settimana a NY, senza parlare la lingua, senza permesso di lavoro o di soggiorno, sono andato a Toronto dove ho cominciato a combattere di nuovo per sopravvivere, e a lavorare in un super ristorante, dove facevo di tutto (entravo letteralmente nei pentoloni per pulirli, tanto erano grandi…) Nel frattempo imparavo la lingua. Frequentavo solo gente del posto. Che parlava inglese. Non italiani (che a Toronto ce ne sono più che in Italia). Non mi è costato tanti sacrifici, perché avevo un’obbiettivo ben preciso, e il mondo che frequentavo era completamente nuovo, interessante, pieno di sorprese e avventure. Era una lezione ogni minuto della giornata. Non ho avuto tempo di aver nostalgia o sentirmi solo, anche se lo ero. A parte la famiglia non mi mancava nulla. Dopo due anni sono tornato a NY con una campagna pubblicitaria per Calvin Klein. Infatti durante un combattimento di boxe a Toronto, un fotografo importante (Bruce Weber) mi ha visto, occhio nero e labbro gonfio… e mi ha chiesto se volevo fare da modello per questo servizio fotografico a S. Barbara in California. Mi pagava 15.000 dollari al giorno… Vedi, la boxe mi è stata utile anche qui…

Come inizio non è stato male, non credi?

Sono stato fortunato. Ho lavorato nella moda per diversi anni, a Parigi, a Milano, e Tokyo. Ho fatto l’immagine per Chanel Egoiste, Valentino, Armani, YSL e tanti altri. (Questo mi ha permesso di concentrarmi sullo studio, perfezionare l’inglese, e leggere di tutto. Soprattutto letteratura americana e teatro. Sempre in inglese chiaramente, perché dovevo competere con gli americani). La moda non mi è mai piaciuta tanto, ma vuoi mettere bellissime ragazze paesi tropicali e tanti soldi, contro pentoloni giganti e cazzotti il sabato sera…Il resto è passato come un fulmine. Non mi sono più fermato. Ritornato a NY, ho fatto un provino per entrare al HB Actor Studio, e ho cominciato a studiare. Dopo pochi mesi a fare teatro.

Hai trovato ostilità? E’ vero che è un ambiente difficile, un “nido di vipere” come qualcuno ha detto, oppure invece si possono stabilire dei buoni legami di amicizia con colleghi attori e attrici, produttori, registi?

Non ho trovato ostilità alcuna, anzi. Solo tanta competizione. Non ho più smesso di lavorare da quando ho cominciato con il teatro. Non ho mai avuto problemi. Non è un nido di vipere, ma come ho detto tanta competizione e solo business. O forse è perché a me piace la gente in generale, mi trovo bene con tutti. Ho tanti amici, sia artisti che registi, e siamo rimasti tali con il passare degli anni. C’è sempre quello o quella che ha problemi di identità, insicurezza, gelosia, e fa casino, “fa la star”, ma non sono tanti. O almeno io ho avuto la fortuna di incontrarne pochi.

Parlami se vuoi dei film o sceneggiati o serial televisivi che ti hanno dato più soddisfazione dal punto di vista professionale, dove la sintonia col personaggio interpretato è stata più sentita.

La serie Largo Winch, per la Paramount Usa, dove ho fatto il protagonista, devo dire che è il lavoro che mi ha dato più soddisfazioni. C’era tanta complicità con i miei compagni di avventura, e tanta collaborazione con i registi e gli scrittori. E` stato il mio primo vero serial, dove ho costruito un personaggio in mesi di ricerche e studio. Era basato sul fumetto cult francese “Largo Winch”. Lavorare poi con Franco Zeffirelli in “Un the per Mussolini” è stata una grande esperienza. I suoi film “Romeo e Giulietta e “Fratello Sole & Sorella Luna”, mi hanno fatto sognare.

Una domanda un po’ banale ma d’obbligo. Qual è il personaggio che vorresti interpretare?

Uno di quelli che ho creato per i miei racconti. E lo farò. Presto.

Poi forse anche il cinema ti è divenuto un po’ stretto ed hai avvertito la necessità di ricorrere alla scrittura per esprimere pienamente la tua personalità. Era un desiderio latente che a un certo punto si è fatto insopprimibile o era già chiaro in te sin dall’infanzia e dall’adolescenza come la recitazione, ma non aveva ancora trovato il modo adeguato per uscire?

No, il cinema non mi è mai andato stretto. Ma non sopporto stare fermo. La necessità di essere sempre creativo, soprattutto durante i periodi tra un progetto e l’altro, mi ha portato a buttare giù idee per film e storie per teatro. Leggendo molti copioni mi vengono in mente situazioni da tradurre in film o sceneggiati. Deformazione professionale? Può darsi. La seconda mi è venuta ascoltando le storie vere che i miei genitori raccontavano a noi fratelli. E il desiderio di scriverle si è fatto via via più forte.

Così a un certo punto ti è nata l’idea dell’Imbuto di latta abbandonato.

Per quanto riguarda la storia “dell’imbuto” devo confessare che io stesso mi chiedo da dove sia saltata fuori. L’unica cosa certa è che sono partito dal titolo. Può sembrare strano ma è così, e non so neppure perché un imbuto. All’età di Duccio abitavo con la mia famiglia in una casa di campagna dove c’era sì una cantina, ma nessun imbuto, che io ricordi: solo assi annerite dal tempo, l’odore del vino versato e i segni delle bottiglie che vi si erano impressi. Che la mia mente infantile vi abbia collocato un utensile che avrebbe dovuto esserci? Chi lo sa! I personaggi poi, sono emersi da una dimensione sconosciuta e si sono imposti creando la loro storia per poi affidarmela. Mi è piaciuto affiancarli con l’anima delle cose, degli oggetti, delle piante. Per risarcirli della poca considerazione che abbiamo nei loro confronti. Sento una particolare attrazione per gli alberi, per le rocce: poggiarvi sopra le mani mi trasmette una sensazione di comunione con la natura. Non so come lavorano gli scrittori professionisti, ma ho trovato un metodo che funziona per me. Non ho mai fatto un corso, o una lezione a riguardo. Se mi viene un’idea, mi metto al computer e comincio a scrivere. Dialoghi, personaggi e idee vengono senza che li esorti.

Per diventare scrittore non occorre seguire dei corsi. Occorre sensibilità, fantasia e una buona padronanza della lingua. Doti che tu possiedi. Per tornare all’”imbuto” la vicenda si svolge parte in un paesino toscano e parte in America. Quanto c’è di personale in tutto questo?

Può darsi che qualcosa ci sia. Non era programmato. Forse nell’inconscio.

Tu vivi da molti anni negli Stati Uniti, a Los Angeles, anche se torni spesso in Italia. Il ritorno di Duccio in Italia alla ricerca delle sue radici è legato a qualche tuo particolare ricordo dell’infanzia?

Sono molto attaccato al mio paese, e i molteplici ricordi dell’infanzia hanno il loro peso.

La favola ecologica narrata in questo libro, adatto sia agli adulti che ai ragazzi, ha intenzioni propedeutiche o vuole solo avanzare un’ipotesi filosofica? Parlami dei tuoi valori fondanti, della tua vita, ciò che ritieni irrinunciabile e ciò che invece ti pare caduco.

La mia filosofia di vita, se si può trasmettere, è che bisogna confezionarsela addosso a seconda del momento e delle situazioni che mutano con il passare degli anni. Ferme restando le regole di vita quali: il rispetto di sé e degli altri e i valori legati alla famiglia. Inoltre cerco di attenermi per quanto mi è possibile agli insegnamenti di Dio.

So che hai in cantiere altri libri. Ugo, che di recente mi hai fatto leggere, conferma le mie intuizioni sulle tue doti di scrittore. Parlane se vuoi e se annetti a questa tua nuova attività l’importanza che la qualità della tua scrittura merita. Ci sono progetti per il futuro?

La storia di Ugo è vera. C’è dentro una parte di me. Io sono Ciro. Mia madre diceva che in un’altra vita quella creatura era stata un bambino, non potendosi spiegare altrimenti il suo comportamento. Mi è piaciuto scriverla vista dalla sua parte. Mi è sembrato, per quello che ci ha dato, di doverglielo. E sì, ammetto che scrivere mi piace, ma non mi considero uno scrittore, anche se non mi dispiacerebbe diventarlo. Ho molti appunti di storie vere, ma le favole a “ponte”, potremmo definirle così, tra realtà e fantasia mi entusiasmano. Forse perché ho dei bambini che amano ascoltarle. In cantiere ho una nuova storia alla quale sono molto affezionato e che spero di terminare presto.

Allora se un grande editore ti proponesse di pubblicare un tuo libro, partendo magari da un’edizione di centomila copie, ma pretendesse, come spesso succede, di “metterci le mani dentro” in modo pesante, tu come reagiresti?

Sai già che il mio primo libro doveva essere pubblicato l’anno scorso. Poi quell’editore mi ha imposto all’ultimo momento interventi editoriali che non potevo neanche prendere in considerazione tanto erano pretestuosi e ho disdetto il contratto. Ma se un’editore mi desse consigli per migliorare il mio lavoro, ben volentieri. Un’esperienza del genere l’abbiamo già fatta insieme.

Quando eri piccolo ti piaceva leggere?

Da piccolo non mi piaceva leggere tanto. Preferivo avventurarmi in campagna, case abbandonate e giocare all’aria aperta con i miei fratelli. Ma i miei genitori insaziabili lettori, mi hanno invogliato alla lettura dai 10 anni in su. Da prima Salgari e i suoi tigrotti di Mompracen, poi Jules Vernes, con 20.000 leghe sotto i mari e Michele Strogoff – il corriere dello Zar (che poi interpretai per la Titanus alcuni anni fa). Jack London mi ha rapito per anni. E ancora sono latitante quando lo rileggo. Fino a Henry Miller, Dostoevsky, Tolstoy, Hemingway, Thomas Mann, Bukowsky. Anche se alcuni “russi” all’epoca non li ho compresi del tutto. Forse la lingua… Approdato in America cominciai a rileggere gli autori americani in inglese. E ad apprezzarli ancor più. Uno in particolare mi ha veramente fatto tanta compagnia: John Fante.

Attualmente dove vivi?

Vivo a Los Angeles da 13 anni con la mia compagna e i miei 4 stupendi fanciulli.

Pensi di poter tornare in Italia?

Adoro l’Italia. Ogni volta che vengo per lavoro, mi sento un po’ come un turista. Giro per le città con lo sguardo all’insù ad ammirare palazzi e sculture. Vado a visitare musei e gallerie d’arte. La sto scoprendo a poco a poco perché quando sono partito non ne avevo avuto il tempo. Si, sto “lavorando” per instaurare un rapporto duraturo con l’Italia che mi permetta di rimanere a lungo, in modo da portare con me la mia famiglia. Voglio che i miei figli imparino a parlare l’italiano e facciano loro le nostre tradizioni e i nostri valori che credo siano più profondi di quelli che si trovano negli USA. La mia compagna, poi, ha vissuto in Italia per diversi anni quando faceva la modella, e parla un italiano stupendo. Spero tanto che questo mio sogno si avveri presto e che non sia solo un volo pindarico.

° ° °

L’Imbuto di Latta abbandonato di Paolo Seganti
è stato appena pubblicato da Masso delle Fate Edizioni con un giudizio di Maurizio Costanzo.

E' un attore molto conosciuto negli States e in Francia. In Italia ha interpretato Le stagioni del cuore, Carnera, Ho sposato un calciatore ecc.

www.paoloseganti.com


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