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Intervista a Gabriele Astolfi
Trovo che Villaggio sia un grande. Con Fantozzi ha avuto l’ispirazione della vita, creando un personaggio eterno. I suoi film saranno godibili anche fra cinquant’anni, come quelli di Chaplin o di Stanlio e Ollio, perché negli uffici potranno cambiare le tecnologie, le attrezzature, gli arredi, ma non le relazioni fra gli addetti, non i tipi, o i caratteri. In qualsiasi ufficio ci sarà sempre il furbo, l’ingenuo, il ruffiano, il capro espiatorio e via discorrendo. Detto ciò, il mio romanzo non si ispira affatto al personaggio di Fantozzi, né io mi sono ispirato a Villaggio, condividendo soltanto i miei personaggi - e la folla di comprimari, o attori non protagonisti, quasi comparse, che vi orbitano intorno - l’ambiente surreale di Fantozzi, l’assurdo che li permea, il grottesco, e una comicità a volte triste a volte allegra. Qualcosa che, senza essere tragico come Beckett (benché qualcuna di queste comparse in realtà lo sia; penso, fra gli altri, al questuante, quello che mendica il lavoro dai colleghi), è più vicino a Ionesco che a Villaggio.
Lavoro in banca ormai da trent’anni benché, anziché un vecchio impiegato, mi ci senta più un neoassunto (sindrome di Peter Pan?). Inoltre ho fatto, molti anni fa, un turno di tre mesi nella pubblica amministrazione. Esperienza di cui ho tuttora un nitido ricordo di teatro dell’assurdo (ancora Ionesco), o di teatro delle maschere, dove, per non parlar d’altro, la vera stanza dei bottoni non era l’ufficio del dirigente responsabile ma la guardiola dell’usciere.
L’ispirazione di partenza del romanzo (il famoso 1%, il 99% è traspirazione, come ha detto qualcuno) è la morte in ufficio di un impiegato che si credeva indispensabile, insostituibile, e che dopo la sua morte, affronto degli affronti, nemmeno viene sostituito. L’ufficio anzi viene chiuso e il suo lavoro soppresso. Cosa che si narra essere veramente accaduta in un ufficio della pubblica amministrazione. Almeno così dice mia moglie, che lavora nello stato (dove il nonsenso si respira come un gas, tanto da rimanerne contaminati, da perdere il contatto con la realtà).
La trama è frutto di fantasia. Lavorando io su incartamenti, su fascicoli, e quindi su “pratiche”, mi è piaciuto immaginare che una di queste andasse perduta ma dovesse essere ritrovata a ogni costo, tanto da diventare, alla fine, personaggio essa stessa, più del protagonista Filo, più degli altri, e da rimpicciolire quelli veri e propri, riducendoli quasi a oggetti al suo servizio, e assurgendo lei a vera, assoluta, indiscussa protagonista della storia. Ci sono perciò riferimenti autobiografici in un contesto di fantasia.
No, non li ho contati. Mi sono ispirato a persone realmente esistenti, per lo più colleghi, estremizzandone il “tipo” o il “carattere”, e a episodi lavorativi successi a me e a mia moglie (che è stata una fonte preziosa di materia prima da plasmare) ingigantendoli, esasperandoli; quasi mitizzandoli.
Mi hanno arricchito anche altre esperienze extralavorative, quali corsi di filosofia, corsi di teatro e di lettura espressiva, e la decennale attività di attore dialettale e amatoriale, che mi hanno insegnato a guardare la realtà con un occhio trasversale e con le lenti dell’ironia, senza la quale non v’è speranza di sorriso.
L’ambiente impiegatizio offre molti spunti surreali. Specie certi ambienti, dove vi sono molte unità lavorative, o mansioni parcellizzate, con persone che svolgono sempre la stessa attività. Non so se c’è una ragione. Forse c’è. Qualsiasi assembramento umano, anche piccolo, se osservato con occhio non compromesso, non coinvolto in quanto si va facendo, anzi che astragga completamente da una tal qual pratica lavorativa, un occhio quasi puro, ingenuo, può offrire spunti surreali. Non solo nell’ambiente impiegatizio. E’ che in ufficio ci si sta otto ore, perciò, sempre astraendo, è più facile cogliere aspetti surreali. Un po’ anche per non morirci.
Sì il Pallazzo è un mondo a parte, un’entità che vive di vita propria, quasi uno stato sopranazionale, battente una bandiera sconosciuta, con al suo interno una zona franca, una regione abbandonata a se stessa, l’ala rotta, terra di nessuno, rifugio dei soggetti pericolosi, dei reietti e dei derelitti (in realtà dei diversi, o dei bollati tali, in una sorta di mobbing di stato). L’idea di un’astronave generazionale che diventa un pianeta alternativo, a sé stante, non è lontana da quella del Pallazzo.
Sì, con Scaltro la politica irrompe improvvisa nella vita del Pallazzo. Benché Scaltro, che è -purtroppo - il prototipo del politico italiano, corruttibile e clientelare, sia la scusa che ho adottato perché la pratica debba essere trovata a ogni costo. Però è vero, Scaltro è un po’ una sorta di minaccia sospesa lungo tutte le pagine del romanzo, perché le conseguenze del mancato ritrovamento della pratica ricadrebbero sul reggitore del Pallazzo, il direttore, e quindi a pioggia sul Pallazzo stesso. Non è chiaro quali siano tali conseguenze, ma l’allarme che si respira intorno a queste è notevole. Proprio perciò, essendo il rosso il colore dell’allarme, del pericolo, il romanzo si apre, prologo a parte, con l’arrivo della rossa (una specie di escort?), innocente latrice del messaggio scaltresco. Rossa le cui parabole di fuoco rischiano di incenerire i legni pregiati dell’ufficio di direzione e i precari equilibri del Pallazzo. Penso, fra gli altri, al Nero, che, marito e padre incompreso, si lascia andare a una notte di sesso sfrenato col Grigio.
La politica c’è ne La pratica. Magari allo stato latente, inconsapevole pure al sottoscritto, come lo sfondo di un panorama lontano, ma c’è. In fondo la politica governa la nostra vita di tutti i giorni; anche quando non la vediamo e non la sentiamo, è indubbio che ci sia. Detto questo, non credo che l’aspetto prevalente del romanzo sia quello politico; più il socio-politico, o il sociologico, vista la variegata fauna da ufficio che alligna nel Pallazzo. Quasi un elenco esemplificativo, sebbene non esaustivo, dei difetti e delle imperfezioni umane. Più che una suddivisione fra ricchi e poveri, come in Fantozzi, o fra buoni e cattivi, una pluralità di diversi omologati (i non omologati stanno nell’ala rotta), di precari non del lavoro ma della vita, che non padroneggiano appieno, non hanno completamente nelle loro mani, tanto che scaricano le loro nevrosi in ufficio.
Sì, il mondo impiegatizio è cambiato, e in peggio, avendo perso buona parte del suo aspetto goliardico, godereccio, e guadagnato in incertezza, in instabilità, come hai detto. In precarietà, nonostante il lavoro non paia in discussione - oggi, domani non si sa. Infatti, nonostante per taluni l’ufficio continui a rappresentare un porto sicuro, una nicchia protettiva e protetta, col lavoro sempre uguale a se stesso, credo che per la maggioranza non sia più tale. Infatti gli obiettivi, assegnati alle unità lavorative, sono ogni anno più stringenti, più difficili da raggiungere, fino a diventare irraggiungibili, e i ritmi per conseguirli insostenibili. E allora aumenta lo stress, il senso di inadeguatezza e di sconforto, e, alla fine, la tristezza. Credo che oggi il lavoro negli uffici sia più complicato e più triste. Ma finché non muore l’ironia, c’è speranza. |
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