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Luciana Rogozinski su “La critica in una stanza”
Intervista a cura di Velio Carratoni
“Come la scrittura
critica, anche l’opera d’arte in tutte le sue declinazioni partecipa allo
scontro tutto contemporaneo fra l’attitudine imperialistica del SempreUguale,
che attraverso la logica della riproducibilità decreta la fine della Storia, e
l’impulso emancipativo diretto alla Trasformazione: uno scontro che i saggi di
questa raccolta mostrano in atto nel corpo stesso delle opere, come vibrante
combattimento fra Eros e Tanatos per il dominio sull’immaginario.
Come alla Critica, secondo il programma enunciato dalla Premessa, viene
richiesta “un’etica della Luce” che la renda divergente dall’ ideologia
nichilista o conciliata di volta in volta governante, così dell’Immagine, intesa
come funzione vivente, attraverso l’analisi delle opere viene indagato il
comportamento: nessuna metafora è innocente.
Campo di questa non esaurita battaglia è la pianura accidentata dell’arte visiva
fra la metà del Novecento e il secolo attuale: in essa vengono individuati i
combattimenti costanti e i comportamenti eroici.
Seguita nelle sue scelte dallo sguardo analitico, l’Immagine emerge in questi
saggi come personaggio militante di cui la scrittura critica registra gli atti,
mantenendosi verso oriente, in direzione opposta al Disincanto.” [dalla quarta
di copertina di La critica in una stanza]
Perché nel tuo
volume La critica in una stanza, pp. 238, 2020,
E.19,50, di recente uscito per i tipi della
Fermenti editrice, nel sottotitolo prevalgono termini come “Cospirazione”,
“Guerriglia” per imprimere al libro un carattere di sfida o provocazione,
trattandosi di argomento
artistico?
La terminologia “guerresca” del
sottotitolo dichiara i comportamenti dell’espressione artistica e ha un’unica
intenzione: portare il discorso della Critica d’Arte sull’opera, riconoscendo
l’opera come attività e come pensiero militante. E’ una scelta di campo: questo
discorso intende portare alla luce esclusivamente gli atti di guerra fra le
opere. La battaglia condotta dalle opere attraverso i loro linguaggi particolari
è infatti una battaglia politica nel senso lato del termine, non un gioco
innocente fra equivalenze insostanziali. Evidenziarla è compito della critica:
non “interpretare” ma riconoscere e nominare le forze in campo. E’ la
convinzione che l’opera d’arte non sia un blocco misterico impenetrabile ma un
concentrato luminoso meccanismo ideologico analizzabile, a spingere l’atto
critico a collocarla nel contesto di una conflittualità storica che si serve
anche della sfera estetica per
esplicitarsi.
Il
sottotitolo del libro serve da orientamento direzionale: riprende termini che
ricorrono più volte nei testi di diversa datazione che compongono la raccolta e
li espone all’ingresso di tutto il percorso, come “indici metodologici”:
categorie che si mantengono vitali nel tempo. Questa terminologia “guerresca”,va
precisato, definisce esclusivamente comportamenti dell’Immagine, non ha intento
di provocazione nei confronti del sistema istituzionale vigente dell’arte visiva
(da cui prescinde) ; dichiara lo schierarsi dell’opera, con i propri strumenti
formali, da una parte o dall’altra di combattimenti aspri all’interno
dell’immaginario contemporaneo, fra cui l’autore ritiene fondamentale quello fra
l’immaginario seriale sempre più dominante e il “simbolo vivo”, che nei più vari
modi lo contrasta .
Questi combattimenti nella sfera
dell’Immaginario non sono irrelati, si svolgono su uno sfondo ideologico
storicamente attivo, entro cui si scontrano concezioni della Storia opposte:
perciò nel percorso di questa raccolta lo strumento più riconoscibilmente usato
dal gesto critico per distinguere fra le varie zone esplorate è probabilmente il
concetto di Trasformazione: se la prassi critica e quella artistica
s’incorporino l’ipotesi della trasformabilità dell’esistente, se ne diano
testimonianza, o viceversa se lavorino in senso contrario, per dimostrare
l’ineluttabilità dell’eterno ritorno dell’Identico e dunque il falso movimento
di ogni azione. Dall’attitudine scettica, relativista o nichilista che ha
dominato, a partire dagli anni Ottanta, anche la sfera estetica e la stessa
declinazione dell’immaginario, questa seconda concezione (implosiva) della
Storia è stata presentata come “Natura”, e un nuovo singolare naturalismo le ha
in effetti corrisposto a livello internazionale: la riproduzione (sia letterale
che metaforica) della presunta condizione di realtà e la conseguente apologia
della vita come finzione e apparenza hanno generato, in variegate accezioni,
un’arte per così dire “mimetica” del presunto stato immobile e inamovibile delle
cose e, parallelamente e specularmente a questa, una critica prevalentemente
“fenomenologica”, puro vaso di risonanza dei dati emersi, intenzionalmente,
orgogliosamente o ingenuamente deprivato di categorie selettive e del giudizio
di valore, dal momento che il dato non viene commisurato a nessuna meta.
Il filo rosso rintracciabile fra
i testi che compongono questa raccolta è diretto in senso contrario: è orientato
dalla convinzione che la scommessa sulla trasformabilità dello statu quo
non sia soltanto una vocazione, ma anche una prassi. Come prassi, nel
caso della Critica è l’esercizio non irrazionalista dell’atto analitico a
permettere di riconoscere l’intenzione dell’opera d’arte, il suo schierarsi,
attraverso i propri caratteri formali, a favore del principio e delle forze che
sostengono la conservazione, la ripetizione o invece il
mutamento.
Per contro, all’ideologia
dell’onnipotenza incontrastabile dell’Apparenza come sostituto della realtà
molta pratica dell’arte in vari campi e molte posizioni della Critica nei primi
decenni del Duemila (influenzati dai traumi storici) hanno opposto una nuova
ideologia “realista”, impegnata a contrastare l’apologia della Finzione con
l’oggettività del Documento: a tale battaglia e alle sue problematiche sono
dedicati gli scritti più recenti della raccolta, che riflettono sulla “reliquia
critica”, sulle contraddizioni attuali della Performance Art e sulla
rappresentabilità del Male storico nella situazione contemporanea. Ma
l’attitudine dello sguardo critico che indaga sui conflitti entro la sfera
estetica non cambia: dichiara l’attività dell’opera d’arte, anche se in veste
enigmatica, e la riconoscibilità delle sue scelte di campo: l’opera come
soggetto”di parte”, non neutro né neutrale.
Con altre terminologie come “La ferita senza il corpo”, “Le armi della
Primavera”, “Dialettica dell’Inferno” ecc. aumentano dosi di sfide o
veleni da sprigionare?
Non direi che formule come quelle
citate (che corrispondono ai titoli di testi specifici presenti nella raccolta,
molto diversi uno dall’altro) siano espresse con intenzione di sfida o vogliano
sprigionare veleni: semplicemente, come titoli, sintetizzano il senso del
discorso che inaugurano: se il discorso (come si spera) è radicale, il titolo
dev’essere radicale: diffido della qualità di critici e saggisti che mettono un
titolo qualunque ai loro testi conclusi, come quei pittori inconseguenti che
dipingono sciattamente lo sfondo dietro le icone, come se avesse natura diversa
e inferiore rispetto a quelle. Ma ritornando su “sfide” e “veleni”
nell’intitolazione: probabilmente sono presenti, ma in che modo? Molto spesso
i titoli che compaiono in questa raccolta si comportano come ossimori, indicano
nella loro stessa proposizione un conflitto che confuta le aspettative legate ai
singoli termini in gioco: come può darsi, per esempio, una ferita se non c’è un
corpo a riceverla? Perché la stagione primaverile, con le sue fioriture,
dovrebbe essere in attività di guerra? Come può la condizione infernale, di
norma collegata al caos, obbedire a una dialettica, generalmente riferita al
controllo concettuale? Della risposta al conflitto indicato dall’ossimoro nel
titolo s’incarica il ragionamento nel testo critico che lo segue (dei casi
nominati, il primo titolo riguarda la ripresa dell’astrattismo in Italia nel
secondo dopoguerra, il secondo le operazioni vitalissime di un artista italiano,
il terzo la rappresentabilità della violenza nell’arte contemporanea). La
condizione infernale è nella storia, nel nostro presente, ma spetta alla
capacità logica che la descrive tirarsene fuori, testimoniando così che uno
spazio alternativo è possibile: terminologie come quelle indicate tendono a
questo.
Per invocare la luce, perché fai ricorso all’etica?
Della relazione fra luce ed etica
parla in un suo aforisma “La Critica in una stanza”, il testo del 1997
che dà il titolo alla raccolta e che ragiona sui compiti della Critica d’Arte.
Fra i comportamenti che la Critica deve assumere viene indicata un’”etica della
luce”, seguendo la quale la Critica sia sempre antagonista al pensiero di volta
in volta dominante: contro l’eccesso di positività coatta e fasulla nel discorso
comune deve saper indicare il Negativo relegato nel retroscena, con tutto il suo
potenziale di energia alternativa; al contrario, quando prevale nella mentalità
intellettuale e di massa un’ideologia scettica e nichilista, che sostiene
l’invincibilità delle forze del Male storico e predica rassegnazione e
assuefazione e le estetizza, la Critica deve saper rintracciare, indicare e
nominare il principio di vita già attivo o potenziale, che testimonia le vie di
uscita dalla condizione storica carceraria. Tenebra, Nebbia e Luce piena sono
condizioni del pensare, del sentire e dell’immaginare collettivi, in cui la
Critica deve sapersi muovere in modo alternativo e dialettico.
Da quale
formazione provieni ?
La mia formazione si è sviluppata
anzitutto in ragione di una doppia vocazione: quella letteraria e quella
artistica (in senso visivo), che si è manifestata molto presto, precisamente in
questa ramificazione. Mentre alla vocazione letteraria ho dedicato un percorso
regolare (studi classici, facoltà di Lettere, laurea in letteratura italiana
contemporanea, contributi in saggistica letteraria), nell’espressione artistica
ho preferito essere totalmente libera e dunque non frequentare l’Accademia o
altre scuole d’arte ma lavorare da sola: non sopportavo l’idea che qualcuno
“m’insegnasse la fantasia”. A Bàrberi Squarotti, di cui frequentavo i seminari,
ho chiesto una tesi che si occupasse di filosofia dei generi letterari e me ne
ha assegnata una sulla NeoAvanguardia italiana: non ho mai amato il Gruppo 63,
in compenso attraverso la tesi sono venuta a contatto con la problematica
dell’avanguardia in generale e con quella del Novecento specificamente:
problematica e teorici che hanno sicuramente segnato la mia riflessione
(l’incontro sia con Benjamin che con la Scuola di Francoforte sono stati
fondamentali per il mio sviluppo) e mi hanno indirizzato verso l’Estetica, una
sfera che mi pareva più ampia. Sentivo anche il bisogno di situazioni più
movimentate di quelle universitarie. L’incontro con l’ambiente dell’arte visiva
contemporanea è venuto a buon punto pochi anni dopo la laurea: rapporti privati
mi hanno messo in relazione diretta con i protagonisti e il lavoro dell’Arte
Povera e processuale e con gli studi di quegli artisti, dove la vita dell’opera
si sviluppava in tempo reale; “Ambiente-Arte”, la sezione della Biennale di
Venezia del 1976 curata da Celant, mi ha fatto conoscere la grande potenza
dell’arte ambientale e di quella californiana della Luce. Entrambe le
esperienze, in me che ero molto più giovane, hanno generato uno choc
conoscitivo: l’approfondimento autonomo delle problematiche e dei temi dell’arte
visiva contemporanea deriva da tale choc, che si è combinato con la mia
propensione verso l’Estetica. Pochi anni dopo Celant mi ha affidato la cura
della sezione della storia della Critica d’Arte in Italia dal 1960 al 1981 per
il catalogo di Identité Italienne al Beaubourg e naturalmente questa è
stata per molti versi un’esperienza significativa. Un terzo e sicuro contributo
alla mia formazione è venuto dall’esperienza personale della terapia analitica
d’indirizzo junghiano, attraverso la quale ho conosciuto la realtà psichica del
“processo d’individuazione” e la potenza del “Simbolo vivo” nell’immaginario:
elementi che ho introdotto e mantengo nell’analisi critica delle opere d’arte e
del comportamento dell’Immagine. Non escluderei dal processo formativo continuo
della mia attitudine critica il fatto che io sia anche in prima persona autore
letterario e visivo: questa circostanza genera uno sguardo particolare
sull’operazione artistica, che la percorre per così dire “dall’interno”: ciò non
comporta concordare necessariamente con essa, ma riconoscerne più immediatamente
i nuclei.
Quali autori ti
sono congeniali e quali no ?
E’ una domanda che spaventa: le
sfere dell’espressione sono tante! Ma per rispondere si possono forse tracciare
delle categorie. Nel campo della Scrittura prediligo quella che non teme le
grandi, sfolgoranti immagini: potrei rileggere l’Odissea mille volte
senza stancarmi, così come la Commedia di Dante o le visioni di Juan de
la Cruz. Ma all’altro polo amo profondamente la scrittura che sa coniugare
Concetto e Immagine: quella di Dante sempre, in tutte le sue prove; di Lucrezio
nel meraviglioso “De rerum natura”; di Leonardo, così stupefacente nella
trascrizione delle sue visioni; dei poeti metafisici inglesi e in massime di
John Donne (dai quali dipende la raffinatissima Emily Dickinson secoli più
tardi); di Pessoa in tutte le sue sottigliezze. Ma in questo stesso senso anche
la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, perché fa coincidere l’immagine
col concetto che se ne serve (per esempio nei discorsi sul mito), risultando
così non assolutamente astratta. Sulla stessa strada ammiro la perfezione di
Thomas Mann, per la sua capacità di tenere sotto controllo tutto il Sistema,
nelle sue narrazioni, fino all’ultimo particolare: così come accade al grande
Perec e ancora una volta al precisissimo Pessoa. Questa capacità di controllo
del sistema, che secondo me è un valore nell’artista, la ritrovo nella “Terra
desolata” di Eliot ma paradossalmente anche nei Cantos di Pound, che
a modo loro, modulando il caos, restano ovunque fedeli alla propria legge. Dare forma al grido, più che gridare: questa prassi per me è legge sia nel
campo della scrittura che in quello dell’arte visiva. E se un grido dev’esserci,
che sia una volta sola e non si dia “manierismo del grido”. Per questo nella
poesia del Novecento amo moltissimo Paul Celan e Ingeborg Bachmann e non la
schiera degl’imitatori; per questo ho subito trovato intollerabile, nell’arte
visiva, il futile neoespressionismo italiano e internazionale degli anni
Ottanta.
Nella sfera dell’arte visiva
prediligo i sapienti più che gl’”istintivi”: nell’arte antica anonima amo
l’intelligenza della Geometria come fatto costruttivo e insieme simbolico, amo
il coraggio nell’uso dei metalli preziosi,veicoli diretti delmeraviglioso;
nell’Europa della Città amo l’arte che assegna all’enigma dello spazio ugual
valore che a quello delle icone: Giotto, Angelico, Piero della Francesca, Duhrer,
Rembrandt, Velasquez, Goya: tutti riescono a far convivere grandi significati
con la filosofia della Pittura. Come artisti “critici”, dosatori del Nero e
razionali controllori del Lutto, amo Tintoretto quanto Goya e, in età
contemporanea, Kounellis.
Anche nell’arte visiva del
Novecento preferisco le grandi Parole rispetto alle penombre, i grandi gesti
rispetto alle rassegnazioni crepuscolari, la capacità di generare “apparizioni”:
il gesto unico e direzionato di Butoh piuttosto che la violenza casuale di
Pollock (so che altri non saranno d’accordo), il coraggio di Yves Klein nel
rapporto diretto con gli Elementi e col Vuoto, la grandiosità di Beuys anche nei
disegni, gli atti frontali di Burri e di Fontana, a contatto con le nuove
materie del Moderno. Amo l’arte processuale, che ha incorporato nel mutamento
dell’opera anche la possibilità della sua scomparsa e ha fatto di quella
scomparsa progressiva dalla scena una forma nuova, e di questa prassi trovo che
in Italia sia maestro Calzolari, di cui amo anche l’instancabile varietà delle
espressioni e la raffinatissima coscienza estetica. Nell’Arte Povera la poetica
di Mario Merz, con la sua vocazione epica rispetto all’esistenza contemporanea
fra residuo terrestre e residuo industriale, è un altro modello da cui per me
non si può prescindere. Epos e Tragedia sono caratteri che amo profondamente
nell’arte di Kounellis, che li rintraccia nelle esistenze anonime di massa, così
come sono riportate in gloria anche dalle voragini aperte da Matta Clark negli
edifici urbani.
Naturalmente non posso fare un
elenco. Ma nell’arte visiva non sono amante della “linea ironica”, che considero
foriera di sterilità: dunque non sono una fan della “rivoluzione” di Duchamp e
dei suoi seguaci, come anche, su altro fronte, posso apprezzare singole
operazioni concettuali o Minimal ma non abbracciarne in assoluto la poetica.
Detesto tutte le operazioni artistiche tese a dimostrare l’inutilità
dell’esistenza e financo di se stesse, detesto i giochini decorativi e
inoffensivi legati alla riproducibilità, ma anche gli ammassi confusi di carte,
rottami e oggetti degradati che si spacciano per denuncia sociale e che per un
po’ hanno invaso varie biennali. All’epoca ho detestato, come ho già detto, il
neoespressionismo degli anni 80 in pittura e scultura, così come l’esibizione
della Ferita moltiplicata o la mimesi della vita come finzione degli anni 90.
Oggi continuo ad amare l’arte che
propone la resurrezione piuttosto che la sola denuncia, la resurrezione
piuttosto che la ripetizione ossessiva dell’esistente.
Ho trovato nuove sorgenti per
l’Immagine nel carattere inimitabile dell’Africa di oggi, grandiosa anche nella
miseria, inventiva anche in situazioni disperate, e nella poesia araba
dell’esilio.
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