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Intervista ad Antonella Calzolari
a proposito di L'eredità di Calvino
Intervista a cura di Velio Carratoni
Calvino a tutt’oggi quale eredità ci lascia?
Per l’anno accademico 1985-1986 l’università di Harvard aveva invitato Calvino
a tenere le Charles Eliot Norton Poetry Lectures, un ciclo di sei
conferenze che avrebbero dovuto riguardare alcuni valori letterari da conservare
nel prossimo millennio. Lo apprendiamo dalle parole di sua moglie, Esther
Calvino, in apertura del libro postumo Lezioni americane. Apprendiamo
anche che di sei, Lighteness, Quickness, Exactitude,
Visibility, Multiplicity, Consistency, la sesta, incentrata su
Bartleby lo scrivano di Herman Melville, Calvino riuscì a completarne
solo cinque prima di ammalarsi improvvisamente e morire. Nella seconda lezione,
dedicata alla Rapidità, scrive Calvino: “Dato che in ognuna di queste
conferenze mi sono proposto di raccomandare al prossimo millennio un valore che
mi sta a cuore, oggi il valore che voglio raccomandare è proprio questo: in
un’epoca in cui altri media velocissimi e di estesissimo raggio
trionfano, e rischiano d’appiattire ogni comunicazione in una crosta uniforme e
omogenea, la funzione della letteratura è la comunicazione tra ciò che è diverso
in quanto è diverso, non ottundendone bensì esaltandone la differenza, secondo
la vocazione propria del linguaggio scritto.”
E poi:“Il mio lavoro di scrittore è stato teso dagli inizi a inseguire il
fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani
dello spazio e del tempo.(…) Ho puntato sull’immagine, e sul movimento che
dall’immagine scaturisce naturalmente, pur sempre sapendo che non si può parlare
d’un risultato letterario finchè questa corrente dell’immaginazione non é
diventata parola. Come per il poeta in versi così per lo scrittore in prosa, la
riuscita sta nella felicità dell’espressione verbale, che in qualche caso potrà
realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che di regola vuol dire una
paziente ricerca del “mot juste”, della frase in cui ogni parola è
insostituibile, dell’accostamento di suoni e concetti più efficace e denso di
significato. Sono convinto che scrivere in prosa non dovrebbe essere diverso
dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca d’un’espressione necessaria,
unica, densa, concisa, memorabile”.
Procedendo oltre nella trattazione del tema, Calvino si riferisce proprio a
Palomar, quando scrive di aver provato componimenti brevi “nelle Città
invisibili e ora nelle descrizioni di Palomar”. Nel testo breve lo
scrittore intravede la “vocazione della letteratura italiana”, evocando la
grande tradizione poetica e le Operette Morali leopardiane.
Dunque direi che Calvino ci lascia un impegno cui assolvere: frequentare la
brevità ovvero la rapidità quale struttura portante di un discorso essenziale e,
per così dire, in sé concluso, perfetto.
Rispetto agli altri narratori del Novecento come lo reputi, nel suo percorso
incline al fantastico?
Nel suo manuale Il Novecento (Loescher, 1981) Romano Luperini avanza
l’ipotesi che Calvino abbia sempre teso ad una sorta di identità tra individuo e
cosmo e che abbia spostato il suo mondo letterario fuori dalla società
prettamente storica, in un mondo di fantasia. Scrive Luperini che “ la distanza
della favola vuole essere salvaguardia dell’utopia e della ragione” e, alludendo
a Se una notte d’inverno un viaggiatore, osserva come Calvino denunci
l’inganno della letteratura in un momento in cui la ragione “attesta il proprio
scacco”.
Se devo riflettere su un confronto tra il fantastico di Calvino e quello di
altri significativi autori del Novecento mi vengono in mente scrittori come
Pirandello, Savinio, Palazzeschi, Buzzati, Landolfi. Di questi si possono
mettere in luce caratteristiche come lo straniamento, il divertimento, la
dissacrazione e l’anticonformismo, il rinvenimento di quanto di fantastico possa
esserci nel quotidiano, una vena surrealista, in particolare per Savinio e una
componente onirica, assurda e talvolta mostruosa in Landolfi. Calvino si
distingue per la sua tendenza a trattare la dimensione fantastica in modo
leggero e disincantato, per la sua propensione alla divagazione, allo
spostamento del contesto in un mondo altro che rispecchia, pur ribaltandolo,
quello reale, lo inserisce in una razionalità illogica e attraente proprio per
la capacità di dare giustificazione all’ingiustificabile, per lo stupore
compiaciuto che desidera provocare nel lettore, il quale è sempre considerato
all’interno della narrazione stessa.
Vuoi ricordare i rapporti con Vittorini, a distanza di tempo e i collegamenti
con Fenoglio e gli altri?
Il binomio Calvino-Vittorini è ovviamente legato all’esperienza della collana
einaudiana dei Gettoni diretta per sette anni, dal 1951 al 1958 da
Vittorini e poi a quella del Menabò (1959-1967). Nei Gettoni, tra
l’altro, di CalvinoVittorini pubblica Il visconte dimezzato e
L’entrata in guerra. Questa esperienza, come si sa, principalmente puntata
sulla linea neorealistica, si distanzia da quella del Menabò, attratta
dallo sperimentalismo anche linguistico, ma entrambe vedono un rapporto del
tutto originale tra i due scrittori, per quella imprevedibilità, talvolta anche
ossessiva di Vittorini, che, a sua detta, lasciava interdetto lo stesso Calvino.
Nel n.4 di Menabò si dichiarano comunque l’intento comune di “adesione
alla civiltà metropolitana, tecnologica, industrializzata, il mondo futuro visto
come città totale, nuova natura per l’uomo e la polemica sempre più
intransigente contro la figura tradizionale del letterato che si rivolge
nostalgico verso il passato agricolo della propria società.”
I rapporti in generale con gli altri della sua epoca sono di grande
considerazione, anche quando si tratta di autori molto diversi come Pasolini,
per il quale Calvino ha nutrito una grande stima. Ma certamente per Beppe
Fenoglio egli spende parole inequivocabili. Nell’introduzione a Il sentiero
dei nidi di ragno si abbandona ad un vero elogio, quando defnisce Una
questione privata “ il romanzo che tutti avevamo sognato (…) il libro che la
nostra generazione voleva fare (…)” E poi dichiara proprio: “Grazie a Fenoglio,
possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente
esistita”.
Come lo collochi oggi nel contesto realismo-sperimentalismo?
A dire la verità collocare uno scrittore come Calvino nella attuale realtà
letteraria mi risulta molto difficile, anzi non riesco a farlo. Già di per sé
egli è stato un coacervo multiforme di matrici realistiche, fantastiche e
sperimentali, poco facilmente assimilabile a qualcun altro o inseribile in una
scuola. Oggi il panorama vede scrittori piuttosto monadici, magari assimilabili
per le tematiche più in voga ma non per la prevalenza di uno stile. Direi che
Calvino, a dirla con Dante, nel suo centenario, “fa parte per sé stesso”.
In tempo di penuria di critici e di studiosi di letteratura, come consideri
Giuliano Manacorda da te ricordato in dedica?
Giuliano Manacorda coniugava intransigenza e leggerezza secondo il pensiero
gramsciano, un’amplissima conoscenza della letteratura, fondata sui capisaldi
della tradizione non esclusivamente novecentesca e arricchita degli apporti
della semiologia e dello strutturalismo rivisitati in chiave sociologica.
Sentitissima in lui l’esigenza di comprensione dei fenomeni e degli autori,
ricercata nella collocazione puntuale nel loro contesto anche estetico oltre che
politico. Vero critico militante, nella sua funzione di diffusore della cultura
letteraria e della critica considerata nel senso etimologico, ha sempre
mantenuto alto il dibattito scientifico contestualmente calandolo
nell’attualità. È stato protagonista e portatore del vessillo del realismo,
interpretando personalmente il concetto di impegno per esempio nel dare grande
attenzione alle riviste letterarie del ventennio e del dopoguerra. Ha battezzato
il concetto di contemporaneità della letteratura.
In campo critico chi ha meglio compreso Italo Calvino?
Penso ad Angelo Guglielmi, quando scrive: “Calvino non ha aspettato l’arrivo del
prontuario postmoderno per sapere che la realtà è una modalità complessa che può
essere conquistata (scoperta) solo con la furbizia dell’artificio”(Calvino e
la realtà filtrata, in Alfabeta, gennaio 2013). Penso a
Francesca Bernardini che individua la missione etica di Calvino e la sua
“visione semiologica del mondo” (I segni nuovi di Italo Calvino,
Bulzoni, 1977), penso allo stesso Manacorda, a Maria Corti e alla sua magnifica
disanima di Calvino come creatore di intrecci, con riferimento particolare a
Il Castello dei destini incrociati, a Pietro Citati, che in un’intervista
del 15 settembre 2010, sulle pagine della edizione fiorentina de La
Repubblica scriveva “Il suo segno, dunque, è invisibile, sotterraneo.
Indefinito. Italo Calvino rifiutava persino l'appellativo di intellettuale.”
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